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Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma
Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma
Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma
E-book581 pagine7 ore

Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma

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Info su questo ebook

Dalle leggende di Roma sotterranea agli enigmi delle chiese e dei vicoli più nascosti
Antiche credenze e storie moderne della Città Eterna

Tutte le curiosità sulla Città Eterna

Quanti libri sono stati scritti su Roma e sulle sue meraviglie? Eppure, nella città de La dolce vita, non si finisce mai di stupirsi, di scoprire qualcosa di nuovo, di imbattersi in un reperto, una pittura, un palazzo o una semplice pietra in grado di dischiudere un mondo nuovo di conoscenze. Roma è un insieme di storie e di luoghi che viaggiano nel tempo da tremila anni e parlano agli uomini d’oggi. In questo itinerario insolito si viaggia per i rioni e per i quartieri della Capitale, dai più antichi a quelli di nuova costruzione, alla ricerca di aspetti e di angoli poco conosciuti, di storie dimenticate, di fantasmi e apparizioni, di antiche leggende, di curiosità e piccoli segreti, di palazzi e abitazioni davanti ai quali si passa tutti i giorni senza conoscerne il fascino nascosto e ciò che custodiscono.


Fabrizio Falconi
Nato a Roma, è caporedattore per la testata News Mediaset. Oltre a un testo contenuto nella raccolta Il valore della Parola, ha scritto i saggi Osama bin Laden. Il terrore dell’Occidente (con Antonello Sette), Dieci luoghi dell’anima, In Hoc Vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questo, Per dirmi che sei fuoco. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton Editori ha pubblicato I fantasmi di Roma, I monumenti esoterici d’Italia e Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854160132
Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma

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    Anteprima del libro

    Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma - Fabrizio Falconi

    182

    I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento a varie inchieste

    giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso.

    Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate

    nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti

    fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: dicembre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6013-2

    www.newtoncompton.com

    Frontespizio

    In memoria di mia madre Ivana il cui sogno – dedicare gli anni

    della vecchiaia alla riscoperta dei tesori di Roma –

    io ho cercato di realizzare, in suo nome.

    INTRODUZIONE

    Rione è ormai una parola consolidata, entrata nell’uso comune del linguaggio a Roma, anche se la modernizzazione della città l’ha sostituita negli ultimi anni, impropriamente, con la parola quartiere.

    Il termine antico rione deriva – come è evidente dall’etimologia – dalla parola regione e rimanda immediatamente alle quattordici celebri regioni in cui era suddivisa Roma all’epoca di Augusto, tredici delle quali erano poste sulla sponda sinistra del Tevere (dove del resto la città era sorta) e una soltanto – Trastevere – sulla sponda destra.

    Ma i rioni che si sono poi consolidati nella storia cittadina hanno poco a che vedere con le regioni originarie di epoca imperiale. Se infatti esiste una certa continuità fino al VII secolo, dopo la caduta dell’impero, a partire dal 600 d.C., tutto cambia nella storia e anche nella topografia cittadina: a Roma si registra un drastico calo demografico, la città si cristianizza definitivamente con la trasformazione di quasi tutti gli edifici dell’età classica in luoghi cristiani e si assiste a un progressivo svuotamento del territorio urbano: le rovine della Roma di un tempo, cadute nell’oblio, vengono letteralmente ingoiate dalla campagna incolta e dentro l’incredibile recinto murario costruito sotto Aureliano (diciotto chilometri di cinta fortificata per millequattrocento ettari di territorio!) si aprono enormi spazi vuoti, con nuclei abitati divisi tra loro da considerevoli distanze, che rendono necessarie nuove fortificazioni parcellizzate – visto che la cinta muraria originale è ormai fatiscente e passibile di attacchi e invasioni – come la cosiddetta città leonina, innalzata da Leone IV (847-855 d.C.), per creare un’efficace protezione dell’ager vaticanus e della basilica di San Pietro.

    Tra l’VIII e il IX secolo si spezza dunque definitivamente quella continuità territoriale con la vecchia Roma imperiale: la città viene ripensata secondo nuovi criteri, fondamentalmente cristiani e in grado di soddisfare le aspettative dei molti pellegrini che da ogni parte d’Europa si mobilitano per visitare le celebri Mirabilia Urbis – quel che ne resta – e i sepolcri dove sono conservate le ossa degli apostoli del cristianesimo in Occidente, Pietro e Paolo.

    A partire dall’anno Mille, si ha una ripresa demografica e le zone abitate, lentamente, riprendono a espandersi. Proprio in questo periodo i romani riscoprono il termine regio – prodromo di rione – con cui indicano le zone abitate della città (per esempio Regio que vocatur Clivus Argentarii, ovvero la zona sotto il Campidoglio, che oggi è identificabile con il Velabro e il cosiddetto Arco di Giano bifronte).

    Regio o rione iniziano a essere usati indifferentemente per indicare alcune zone della città, per l’esattezza dodici (anche se nei documenti notarili dell’epoca se ne contano trenta), dei quali ignoriamo l’estensione e i confini precisi. Sappiamo che, molto probabilmente, non avevano nulla a che vedere né con le quattordici regioni augustee, né con le sette regioni ecclesiastiche del III secolo d.C. e nemmeno con le dodici regioni militari di età bizantina.

    All’inizio del Duecento, in un codice viennese, repertorio dei Mirabilia Urbis, appare una lista di rioni romani, suddivisi in dodici principali e ventisei secondari; è soltanto una lista provvisoria che tenta di fotografare una realtà magmatica, in continuo movimento: il tessuto urbano di Roma, infatti, in questo periodo medievale sta letteralmente rinascendo e riassestandosi sulle stesse modifiche geologiche intercorse in lunghi anni di abbandono, come per esempio l’innalzamento del livello del calpestio stradale di diversi metri, in tutte le zone del centro.

    Fino alla fine del Cinquecento i rioni saranno tredici (dodici sulla sponda sinistra del fiume più Trastevere sulla sponda destra), ma nel Rinascimento, a partire dalla prima metà del Quattrocento, si assiste a una profonda trasformazione del tessuto urbano della città, dovuto sostanzialmente a due fattori: l’aumento della popolazione, che rende necessarie nuove costruzioni nelle zone già abitate, e l’interventismo dei pontefici, che a partire da papa Niccolò V (1447-1455) realizzano varie strutture, modificando la topografia cittadina, ristabilendo i confini e determinando nuove vie di collegamento e diverse suddivisioni.

    La cittadella vaticana diventa la residenza dei papi, vengono restaurati gli antichi ponti (Milvio, Nomentano), risanati i vecchi acquedotti, ristrutturate e ripavimentate le piazze, aperti nuovi assi viari, edificate aree ancora vergini (all’epoca numerose) tra una contrada e l’altra, all’interno del vecchio immenso recinto delle mura Aureliane, facilitati i collegamenti tra una sponda e l’altra del fiume. Si consolidano inoltre i più antichi rioni rivieraschi (Sant’Angelo, Ripa, Campitelli), crescono e si sviluppano quelli interni, come Sant’Eustachio, Parione, Ponte e Borgo. Quest’ultimo diventa, più che un vero e proprio rione a sé stante, un’entità territoriale a parte, vista la sua vicinanza al nucleo vaticano. Vengono aperte nuove, fondamentali vie molto lunghe, che attraversano diversi rioni e li mettono in collegamento tra loro: via Alessandrina, via della Lungara e via della Lungaretta, via Giulia.

    Questa grandiosa opera verrà completata principalmente da Sisto V (fautore del più esteso e complesso progetto urbanistico della città, passato alla storia come piano sistino) e dai suoi successori, nei secoli in cui – Cinquecento, Seicento e Settecento – Roma conoscerà i fasti di una rinascita archeologica, artistica e politica che la ricollocheranno, per molti versi, al centro del mondo.

    Nel frattempo, all’interno dei rioni, che si vanno consolidando, iniziano a stabilirsi anche le linee amministrative e gerarchiche: per gestire ognuno di essi è preposto infatti un caporione, contrassegnato da bandiere e insegne proprie, e che per questo motivo è definito spesso anche banderese. Tra essi comincia a emergere la figura del priore, che le normative comunali stabiliscono essere il capo del rione Monti, quello più vasto e popoloso della città.

    Un potere – antesignano dei moderni municipi e del ruolo di sindaco – che verrà guardato spesso con sospetto dalle autorità ecclesiastiche e apertamente combattuto per limitarne l’espansione, anche se i caporioni – dapprima eletti a sorte, poi nominati direttamente dal papa – avranno una lunga storia. Sarà papa Pio VII (1800-1823) a cancellare tale carica amministrativa.

    Al termine di questa lunga cavalcata nei secoli e nella storia, il numero dei rioni di Roma fu fissato a quattordici, fino alla Unità d’Italia: il loro nucleo storico era dunque formato da Monti, Trevi, Colonna, Campo Marzio, Ponte, Parione, Regola, Sant’Eustachio, Pigna, Campitelli, Sant’Angelo, Ripa, Trastevere e Borgo. Nel 1874, subito dopo la presa di Roma, a questi si aggiunse l’Esquilino, il quindicesimo rione, ritagliato da una parte del rione Monti, che per molto tempo era stato considerato un luogo miserando (o maledetto) poiché nell’antichità fu adibito a sepolcreto per gli schiavi, le meretrici e i condannati a morte. Ma alla fine dell’Ottocento conobbe un rapido sviluppo e divenne il rione piemontese di Roma.

    Proseguendo nello sviluppo urbanistico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, vi furono altre suddivisioni dei rioni esistenti: il sedicesimo, Ludovisi, nacque dallo smembramento della meravigliosa villa omonima, che per secoli aveva esteso i suoi rigogliosi giardini nel tracciato cittadino, in una vasta zona che lasciò così il posto a un nuovo rione; il diciassettesimo, ovvero il Sallustiano, scaturì dallo sviluppo edilizio seguito alla breccia di Porta Pia, che riscrisse la topografia della zona; Castro Pretorio fu decretato dal Comune nel 1871 e urbanizzato in larghe zone dove erano esistite vigne e terreni coltivati; Celio nacque nel 1872 dopo gli intensi interventi nella zona del Colosseo, in pieno centro archeologico, ritagliato nel rione Monti; Testaccio, costruito tra il 1873 e il 1883 come quartiere operaio, fu il primo industrializzato della capitale d’Italia; San Saba, sorto nel 1906, venne completato nel 1923 sugli sviluppi edilizi della piccola altura tra l’Aventino e Caracalla; infine Prati, che prese il nome dai Prata Neronis, diventati nel Medioevo Prata Sancta Petri, fu istituito dal piano regolatore del 1873, che gli attribuì la qualifica di rione non senza polemiche, visto che mancavano in questa zona monumenti importanti. Prati spesso viene impropriamente associato al confinante Della Vittoria, ovvero il quindicesimo quartiere di Roma (chiamato già Milvio dal 1921 al 1935).

    Fin qui, succintamente, la storia dei rioni di Roma. A partire invece dal Novecento, e in particolare dai primi sessant’anni di questo secolo, nascono i quartieri e i suburbi della città, che dopo l’unificazione d’Italia e l’industrializzazione si popola velocemente al pari delle altre capitali europee, fino a raggiungere la tentacolare espansione di oggi, con una popolazione ormai stimata tra i tre e i quattro milioni di abitanti (compreso l’hinterland).

    La distinzione tra rioni e quartieri è più che altro di natura teorica. Gli ultimi, infatti, si riferiscono tendenzialmente alle zone più esterne della città ma sono pur sempre legati, per storia e tradizione, ai rioni con cui confinano.

    La mappa dei quartieri è presto saltata per via del rapidissimo processo di speculazione edilizia che, in particolare nel dopoguerra, ha cambiato spesso i confini teorici con l’inglobamento di nuovi territori un tempo considerati suburbi, cioè la vera e propria periferia della città.

    Il cemento ha invaso gran parte della cosiddetta campagna romana – che negli ultimi due millenni si era mantenuta quasi del tutto incontaminata – occupando l’agro romano e i quartieri marini.

    I quartieri tradizionali di Roma – Appio, Casilino, Tuscolano, Cassio, Flaminio, Salario, Aurelio, Portuense – prendono il nome dalle vie consolari aperte nell’antichità. A essi se ne sono aggiunti altri, più recenti, come il Della Vittoria e il Trieste, legati ad avvenimenti della prima guerra mondiale, o come l’Eur, o Europa, in omaggio all’ideale europeo che diede vita al Mercato europeo comune nel 1957.

    Tutti i quartieri, che sono secondo un censimento completo trentadue, ma non tutti i suburbi – oltre ovviamente alle cinquantasei zone dell’agro romano e dei tre quartieri marini – hanno trovato posto sulle pagine di questo testo.

    L’intento principale di Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma è infatti quello di raccontare gli aspetti meno noti, caratteristici – e misteriosi, appunto – della città, localizzando i luoghi e quindi le storie a essi collegati. Per fare ciò si è scelto di dividere il libro seguendo l’ordine tradizionale dei diversi rioni e quartieri. Inevitabilmente si è dovuto procedere a una selezione del vastissimo materiale disponibile.

    Roma è un argomento che non si finisce mai di studiare, offre sempre spunti inediti. La sua storia, trimillenaria, non ha eguali al mondo. Ogni volta la città è rinata dalle sue ceneri e anche nei periodi bui o di oblio ha continuato a produrre incredibili quantità di storie, di vita, di patrimonio culturale che solo in parte sono oggi memoria collettiva e che meritano di essere riscoperti, sia da chi abita la Capitale, sia da chi la ama o vuole semplicemente visitarla.

    Il lato misterioso e segreto di Roma è preponderante: come è noto, esso ha affascinato nei secoli le menti più illustri d’Europa ma spesso – paradossalmente – non chi risiedeva nella città ed era abituato a convivervi. Una caratteristica antropologica, questa, che sembra appartenere ai romani da sempre, come notò e raccontò nei suoi diari, tra gli altri, Stendhal, dopo aver visitato l’Urbe nel 1810.

    Proprio la forzata convivenza tra il mare di rovine di un’epoca grandiosa e irripetibile – durata un intero millennio – e il succedersi di una storia più recente edificata sui dogmi della cristianità – e sul potere bimillenario del papato – hanno fatto fiorire a Roma, molto più che in ogni altra parte del mondo, leggende, curiosità, tradizioni, misteri e segreti, codici, intrighi ramificati e complessi, radicati nei primordi della città, giunti fino ai giorni nostri – al Novecento, al nuovo millennio – e di fronte ai quali la vecchia Roma si presenta con il suo bagaglio carico, forse perfino ingombrante, per fare i conti con le sfide della modernità.

    Eppure conoscere Roma, e conoscere i misteri e i segreti di Roma, ci appare come l’unico e più prezioso viatico possibile per affrontare queste sfide con la sicurezza di poterle vincere.

    I RIONI

    Immagine

    Nella pagina precedente: M.F. Calvo, Pianta di Roma al tempo di Servio Tullio, 1527.

    I. MONTI                                              Immagine

    Il sacello della papessa Giovanna

    La leggenda del papa donna che riuscì a ingannare tutti i suoi contemporanei e a insediarsi sul trono di Pietro, anche se per poco, la conoscono bene tutti i romani. È una storia che prese corpo durante il Medioevo e la cui popolarità continuò ininterrotta nel corso dei secoli.

    Ma pochi sanno che nel rione Monti esiste una testimonianza tangibile di questa vicenda straordinaria, che pur essendo nata nel Medioevo si riferisce a fatti (presunti o veri) avvenuti intorno all’850 d.C. La memoria storica di questo episodio si trova ancora nelle forme di una vecchia edicola fatiscente, di fronte alla quale migliaia di romani passano tutti i giorni senza conoscere lo stranissimo segreto che custodisce.

    Ricapitoliamo brevemente la vicenda, per come ci è stata tramandata: nel IX secolo d.C., dalla città tedesca di Magonza (l’antica Moguntiacum e l’odierna Mainz, in Renania) arrivò a Roma una graziosa giovinetta la quale, vestendo sempre abiti maschili, fu da tutti ritenuta un uomo. Intrapresa la carriera ecclesiastica, data la sua eccezionale cultura, i suoi irreprensibili costumi ed essendo benvoluta da tutti, salì rapidamente la scala gerarchica, tanto che dopo la morte di papa Leone IV (855), all’unanimità venne eletta al soglio di Pietro.

    Dopo circa due anni e mezzo di esemplare pontificato (tutti ovviamente continuavano a crederla un uomo), avvenne l’irreparabile: la sacra truffa fu smascherata nel modo più scandaloso ed evidente possibile.

    Accadde infatti – secondo la leggenda – che un giorno, nel corso di uno dei tradizionali cortei che si snodavano dal Vaticano (luogo dell’incoronazione) al Laterano (luogo della nomina e di residenza dei papi in quel periodo), superato il Colosseo e imboccata secondo consuetudine la via dei Santi Quattro, mentre percorreva l’angusta curva di via dei Querceti (entrambe ancora esistenti), il papa donna cadde rovinosamente da cavallo e tra lo stupore generale diede alla luce un bambino!

    Ci sono numerose riproduzioni grafiche della leggenda, che da questo punto in poi si distingue in due versioni differenti, entrambe sorte tra il Millecento e il Trecento. Secondo alcuni la papessa morì proprio in questa circostanza. Secondo altri fu relegata in un convento per espiare la sua colpa e il figlio avrebbe continuato a vivere (divenendo perfino vescovo).

    Sul luogo esatto della caduta, ovvero quel tratto di via dei Querceti, sono tutti d’accordo: non a caso fu ribattezzato vicus Papisse. Ma che valore e che validità ha questo racconto? Esistono basi storiche su cui fondarlo?

    Assai poche a dir la verità: la leggenda narra infatti che la papessa (il cui vero nome sarebbe stato Giovanni, o meglio Giovanna Anglico), succedette a Leone IV e che il suo pontificato durò circa due anni e mezzo.

    Noi sappiamo invece con assoluta certezza che dopo Leone IV (centoduesimo papa, morto il 17 luglio dell’855 d.C.), venne eletto Benedetto III, il cui pontificato durò tre anni, fino all’858.

    Questa leggenda, dunque, non ha alcun fondamento storico. Ma ebbe una così grande diffusione che fu ripresa perfino da Boccaccio (non nel Decameron, ma nel De mulieribus Claris, cioè dopo il fatidico incontro del 1362 in cui il monaco inviatogli dal certosino Pietro Petroni gli predisse morte imminente e dannazione eterna se non avesse rigettato i suoi scritti e cambiato subito vita) e da Petrarca.

    Inoltre, quella della papessa, generò un’altra storia, molto più pervicace, che fu raccontata per lungo tempo: i prelati, quando alla fine del IX d.C. si resero conto di essere stati ingannati da quella donna (che per di più alla fine si era rivelata una poco di buono), dovettero studiare un meccanismo infallibile perché un fatto simile non si ripetesse. Cioè bisognava preventivamente accertarsi del sesso della persona prescelta.

    Furono quindi realizzati – così malignava una certa tradizione – due scranni forati, sui quali veniva fatto sedere il candidato. Il cardinale più giovane era incaricato di eseguire una verifica con le proprie mani, tastando sotto i sedili (così si raccontava in epoca medievale e con un linguaggio più disinvolto). Se la constatazione risultava positiva, proclamava trionfante agli astanti: «Habet!». Solo a quel punto, intonando in coro il Te Deum nel gaudio generale, i cardinali portavano a termine l’elezione.

    Poiché non risulta dalle storie che il cardinale deputato a quella verifica abbia mai pronunciato un deluso «Non habet», è evidente che il sistema escogitato tenne sempre lontane le malintenzionate.

    Notate bene che qui non stiamo parlando di una storiella licenziosa e di basso impero, ma di una leggenda che fu creduta vera per secoli e secoli e che si basava sull’effettiva usanza dei papi appena eletti (ricordiamo che l’elezione avveniva in Laterano e non a San Pietro) di sedersi, al termine del conclave, su due seggiole antiche romane, identiche, realizzate con quel buco centrale di cui abbiamo parlato.

    Gli scranni in porfido rosso, perfettamente uguali e preziosissimi, sono ancora oggi conservati, uno nei Musei vaticani, nel cosiddetto Gabinetto delle Maschere, e l’altro al Museo del Louvre (dopo essere stato sottratto dagli stessi Musei vaticani nel corso della rapina napoleonica).

    Ma cosa significava quel gesto dei papi di sedersi su un’antica sedia ginecologica d’età romana?

    Il papa neo-eletto non vi posava normalmente, ma con l’osso sacro spostato in avanti, verso il bordo della sedia, in corrispondenza del foro. Proprio per simulare l’atto di una donna partoriente.

    Anche se oggi questo rito potrebbe sembrare assurdo, si ripeté invariato per secoli.

    L’uso delle due seggiole da parto fu introdotto, a quanto pare, dalla seconda metà del IX secolo, allo scopo di gestualizzare fedelmente il concetto di mater ecclesia (cioè della maternità della Chiesa).

    All’inizio, in quell’epoca, la simbologia era ben chiara a chiunque, per cui non destò meraviglia che il papa assumesse un atteggiamento femminile. Ma con l’andare dei secoli l’altissimo senso teologico si smarrì. E non fu più compreso. Di conseguenza, in epoca medievale, quanti assistevano all’ormai strana cerimonia, non capendone più l’altissimo simbolismo originario, ma volendo trovare una spiegazione, crearono la storia della papessa. Una storia che rovesciò i termini della questione, insinuando che le sedie forate fossero state inventate dopo l’inganno di quella donna allo scopo di accertare il sesso del candidato. Ma non è tutto: alcune scene scabrose della donna partoriente – mater ecclesia – sono addirittura scolpite nel simbolo per eccellenza della cristianità, cioè la basilica di San Pietro. Non è semplice notarle se non si conosce la storia. Si trovano infatti ai piedi del monumentale baldacchino, al centro della basilica, eretto dal Bernini tra il 1625 e il 1633 su precise direttive di Urbano VIII, il quale volle esprimere in esso proprio il concetto della mater ecclesia.

    Il baldacchino, come si sa, è interamente in bronzo, tranne i quattro basamenti che furono costruiti in pietra (marmo bianco di Carrara e alabastro fiorito) per concretizzare l’espressione evangelica: et super hanc petram edificabo ecclesiam meam.

    Se si fa attenzione, si scoprirà che sulle facciate dei quattro basamenti marmorei furono affissi otto colossali stemmi del pontefice (le famose api barberiniane) e una serie di sei volti di donna (dal secondo al settimo basamento) immortalati nelle varie fasi del parto.

    Per raffigurare scene così realistiche Bernini avrebbe tratto ispirazione dal travagliato parto di una nipote del papa, Giulia Barberini. Il risultato è una riproduzione eccezionalmente naturalistica, a partire dalla figura dell’angolo di sud-est, fino al felice epilogo con l’angioletto visibile nell’angolo di nord-est.

    Il sacello di via dei Querceti, all’angolo con via dei Santi Quattro – a due passi dalla chiesa di San Clemente e da quella dei Santi Quattro Coronati, e a un paio di centinaia di metri di distanza dal Colosseo – appare come un’edicola rettangolare, protetta da una vecchia inferriata, sulle cui mura scrostate è visibile ancora l’intonaco rosso porpora e al cui interno sono custoditi degli affreschi, seppur molto rovinati. Presenta anche una piccola iscrizione, ma purtroppo non è riferita alla papessa.

    Questo luogo, grazie agli studi di molti autori, tra cui Cesare D’Onofrio, è stato identificato come il punto in cui il corteo papale, proveniente dal Colosseo per fare ritorno in Laterano dopo l’incoronazione a San Pietro, faceva le sue devozioni e riprendeva il lungo tratto della via Maior (l’odierna via di San Giovanni in Laterano).

    Ma perché la leggenda fa coincidere proprio questo punto con l’episodio della caduta da cavallo e del parto scandaloso della papessa?

    Perché, circostanza veramente strana, questo antichissimo sacello devozionale (di simili a Roma, in corrispondenza dei bivi, se ne trovano numerosi), dedicato alla Vergine, era collocato in una piccola via intitolata a una donna della ricca famiglia dei Papa (i signori della zona) e proprio in quel punto vi era una casa, come risulta da innumerevoli documenti dell’epoca, intestata a Giovanni Papa!

    Insomma, bisognerebbe leggere tutta la storia, che sembra un romanzo, e si capirebbe come la leggenda popolare – che voleva a tutti i costi interpretare a suo modo (malizioso) un rito inspiegabile – prese spunto da molti particolari reali per plasmarli in un racconto fiorito nei secoli, arricchendosi di innumerevoli dettagli generazione dopo generazione.

    L’antichissimo ritratto del Salvatore nel mosaico

    della basilica di San Giovanni in Laterano

    Tra le varie meraviglie romane che al visitatore offre la basilica lateranense – la prima cristiana fondata a Roma per volere di Costantino imperatore, dopo la vittoria di ponte Milvio nell’ottobre del 312 d.C. – merita una particolare attenzione il grande, immenso catino absidale completamente rivestito di tessere musive.

    Questo mosaico è stato rifatto più volte nel corso della storia, a causa delle vicissitudini che hanno segnato la vita della basilica (saccheggi, incendi, danneggiamenti vari). La sua porzione più antica è quella raffigurante il Salvatore, che campeggia proprio al centro dell’abside: un ritratto moderno e misterioso servito da modello per tutta la successiva iconografia del volto di Cristo nella storia dell’arte pre e post medievale.

    Il ritratto viene citato più volte negli antichi testi che descrivono la basilica.

    È vero che, nel corso dei grandi lavori di restauro di San Giovanni in Laterano effettuati dal papa francescano Niccolò IV (1227-1292) nel 1291, vi fu anche un parziale rifacimento del mosaico, compresa la scena dell’abside, ma il busto del Cristo Salvatore non fu toccato.

    L’episodio è anche attestato da un’iscrizione che si legge tuttora al di sotto della figura principale, dove, con la data del 1291 si precisa come si sia fatto «riporre integralmente nel mosaico il sacro volto nello stesso luogo là dove per la prima volta miracolosamente apparve (apparuit) al popolo romano allorché questa fu consacrata».

    A questa fa eco un’altra iscrizione del medesimo tipo, nell’ambulacro attorno all’abside: «Infine quel venerabile volto (facies) di Dio che per primo risplendé dinanzi agli occhi degli uomini, ricollocò integro nello stesso luogo dove era sempre stato».

    Un accenno fugace a questa immagine era già stato fatto, del resto, in un officium dedicationis della fine del X secolo: «Allorché per la prima volta fu consacrata a Roma una chiesa pubblica ed apparve (apparuit) al popolo romano l’immagine del Salvatore raffigurata sulla parete»¹.

    Qualche dettaglio in più si trova poi nella descrizione della basilica lateranense di Giovanni Diacono, databile intorno al 1180, dove si legge che, consacrata il 9 dicembre da papa Silvestro, fu la prima chiesa aperta al pubblico, «e l’immagine del Salvatore infissa alla parete fu quella che apparve (apparuit) visibile per la prima volta a tutto il popolo romano».

    Dai vari testi sopra citati appaiono due elementi di grande interesse: il verbo apparuit (apparve) e la struttura del volto del Salvatore che, per quanto inserito nell’insieme, costituisce un piccolo mosaico a sé.

    Immagine

    Sappiamo infatti – anche da altre descrizioni fatte in loco nel Settecento e ampiamente confermate dai restauri (infelici) effettuati dal Vespignani del 1876 – che il ritratto del Salvatore è formato da tessere musive poste sulla superficie di una tavoletta di travertino (di dimensioni pari a 75x105 cm), la quale a sua volta è infissa (infixa) nel catino dell’abside.

    Tanto singolare realizzazione lascia chiaramente intendere quanto antico e venerato fosse quel volto, cui fa degno commento il comune denominatore apparuit, in seguito volutamente interpretato in senso metafisico.

    Tale immagine, infatti, testimonierebbe un miracolo avvenuto proprio nel luogo ove sorge la basilica lateranense, ovvero l’apparizione del volto di Cristo, ma in merito non vi sono fonti certe. Certo è invece che questa misteriosa apparizione doveva avere a che fare con l’imperatore Costantino (e con sua madre Elena, che insieme a papa Silvestro fu la commendataria materiale della costruzione delle prime basiliche cristiane di Roma e quindi anche di San Giovanni in Laterano), sui cui lineamenti fu modellato il volto di Cristo. L’imperatore, del resto, dopo la visione della via Flaminia, sposò una quasi totale identificazione con il fondatore del cristianesimo che gli era apparso in sogno prima della battaglia decisiva: basti pensare che per il suo cenotafio, a Costantinopoli, immaginò un grande sepolcro con tredici loculi, dodici – sei per lato – destinati ad accogliere le spoglie o le reliquie degli apostoli di Cristo e il tredicesimo, quello centrale, destinato ad accogliere proprio i suoi resti mortali: quelli dell’imperatore che aveva per primo cristianizzato l’impero romano, e con esso l’intero Occidente.

    Villa Aldobrandini, la villa nascosta

    e il dipinto più bello del mondo

    C’è una villa a Roma, una villa un tempo fastosa e oggi un po’ fatiscente, che con il tempo è divenuta quasi invisibile nel tessuto della città e che pochi romani conoscono. Eppure, quella che un tempo fu forse la residenza più blasonata di Roma è oggi un parco pubblico ed è situata proprio nel cuore della vecchia città, incastonata tra il colle del Quirinale e lo splendore dei Fori.

    Eretta nel Cinquecento da Carlo Lombardi per la famiglia dei Vitelli e donata nel Seicento da Papa Clemente VIII (nato Ippolito Aldobrandini) al nipote Pietro, la villa era stata costruita su ruderi romani risalenti al II secolo d.C., resti di palazzi imperiali attigui alle terme di Costantino, lungo il percorso dell’antica via Alta Semita, che attraversava quella parte del colle del Quirinale, esposta verso i Fori, chiamata anticamente Collis Latiaris.

    La preziosa villa degli Aldobrandini, nell’originale assetto conferitogli dagli architetti di Clemente VIII. per almeno due secoli ospitò le più incredibili collezioni d’arte del mondo, formate dai capolavori di Giovanni Bellini, Leonardo, Veronese, Giorgione, Tiziano, Tintoretto. Ma alla fine dell’Ottocento la decadenza della famiglia e soprattutto i lavori di ristrutturazione urbanistica della zona ne modificarono radicalmente l’aspetto: fu praticamente tagliata in due dall’apertura di via Nazionale (con l’abbassamento del livello stradale). Ora resta solo un belvedere sopraelevato e alberato che si affaccia quasi a strapiombo su largo Magnanapoli e via Panisperna, risultando quasi invisibile, anche perché l’unico accesso alla villa, oggi, è quello di via Mazzarino (a parte una ripida scalinata su via Nazionale) attraverso il quale è possibile riconoscere le imponenti strutture romane (in particolare quelli che furono i magazzini) del II e III secolo a.C. su cui la villa era edificata.

    Il panorama che si gode dal terrazzo sopra via IV Novembre è mozzafiato ed è uno dei più belli della città, anche se pochissimi romani lo conoscono.

    Ma la storia di questo edificio è legata anche a un preziosissimo dipinto che fece parte della collezione per lungo tempo e che addirittura dalla villa e dalla famiglia proprietaria prese il nome: si tratta di quel meraviglioso affresco romano del I secolo d.C. conosciuto in tutto il mondo come Le nozze Aldobrandini.

    La celebre pittura, una porzione di affresco alta un metro e lunga circa due metri e mezzo, fu miracolosamente ritrovata intatta sul muro di una stanza romana durante gli scavi effettuati nel 1601 presso la chiesa di San Giuliano Ospitaliero, all’Esquilino, purtroppo oggi andata distrutta.

    L’opera, che rappresentava una scena misteriosa con dieci personaggi allineati in gruppi di tre, probabilmente un fregio, fu riconosciuta subito come eccezionale e acquistata dal cardinale Cinzio Aldobrandini, che la portò nella villa in allestimento a Magnanapoli.

    Della collezione degli Aldobrandini divenne in poco tempo il pezzo più conosciuto, eccellente, che richiamava nobili visitatori da tutta Europa, fin quando papa Pio VII nel 1820 non lo acquistò per la cifra di diecimila scudi e lo sistemò nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nella cosiddetta Sala dei Sansoni, dove si trova ancora oggi.

    Le nozze Aldobrandini esercitarono per secoli un fascino inimitabile – al punto che Rubens le definì «il più bel dipinto del mondo» – insito nella scena enigmatica rappresentata e nell’eleganza misteriosa delle figure. Di queste, le celebri tre poste al centro, secondo le analisi critiche oggi più accreditate, rappresentano un’allegoria del matrimonio, con la sposa a capo velato che viene consolata da un’altra figura femminile seminuda (Venere) mentre ai piedi del letto un giovane discinto e con la testa coronata di alloro le osserva (è Imene, il dio delle nozze). Ma gli atteggiamenti delle altre figure,

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