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L'età dell'oro dell'impero romano
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L'età dell'oro dell'impero romano
E-book635 pagine7 ore

L'età dell'oro dell'impero romano

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Info su questo ebook

Il trionfo di Roma in tre secoli di storia

Da Adriano a Costantino

Le innovazioni, le strategie e le battaglie che hanno segnato il successo di un grande impero

L’età d’oro dell’impero romano è durata circa due secoli e mezzo, dal regno di Adriano (117 d.C.-138 d.C.) fino alla morte di Giuliano l’Apostata (363 d.C.): una storia incredibile, densa di colpi di scena, improvvise successioni di imperatori e repentini cambiamenti di strategie politiche e militari. Nonostante le tante contraddizioni e le difficoltà interne, Roma durante questo lungo periodo fu sempre in grado di affrontare i tanti nemici – tra cui i Parti, i Germani, i Persiani, i Goti – e di proteggere i confini dell’impero. Kulikowski descrive con grande precisione e minuziosità tutti gli aspetti connessi alla vita dell’impero romano: dalla complessa gestione delle diverse province alla capacità d’integrazione culturale dei nuovi territori conquistati, dai mutamenti nell’amministrazione e nell’organizzazione dello Stato alla suddivisione dei ruoli all’interno dell’esercito. Fu in definitiva un periodo contrassegnato da molte fasi di crisi e da problematiche persistenti, in cui l’impero, un organismo più che vitale, riuscì sempre a risollevarsi, divenendo una tra le potenze più celebrate della storia. 

Due secoli che hanno trasformato l’impero in leggenda

«Il professor Kulikowski è una guida eccellente per comprendere quel periodo di grandi cambiamenti.»
Wall Street Journal

«Arguto e ben documentato.»
BBC History Magazine

Roma non è mai stata raccontata così
Michael Kulikowski
Insegna storia alla Penn State University. È un esperto del periodo imperiale romano e della tarda antichità. Tra le sue numerose pubblicazioni Late Roman Spain and Its Cities e Rome’s Gothic Wars: From the Third Century to Alaric. Collabora regolarmente alla «London Review of Books».
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2017
ISBN9788822714855
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    Anteprima del libro

    L'età dell'oro dell'impero romano - Michael Kulikowski

    514

    Titolo originale: The Imperial Triumph

    Copyright © Michael Kulikowski, 2016

    First published in Great Britain in 2016 by PROFILE BOOKS LTD

    The moral right of the author has been asserted.

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Valentina Cabras e Micol Cerato

    Prima edizione ebook: novembre 2017

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1485-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Michael Kulikowski

    L’età dell’oro dell’impero romano

    Da Adriano a Costantino

    Le innovazioni, le strategie e le battaglie che hanno segnato il successo di un grande impero

    Indice

    Introduzione

    1. I primi anni di Adriano

    2. Gli ultimi anni e la successione

    3. Pace e guerra a metà del secolo

    4. L’ultimo degli Antonini

    5. Settimio Severo e i suoi rivali

    6. Il regno di Severo

    7. I Severi successivi

    8. Storia dell’Eurasia e dell’Impero romano

    9. Da Gordiano iii a Valeriano

    10. Valeriano e i generali

    11. L’ultimo degli imperatori-soldati

    12. Diocleziano, Costantino e la creazione del basso Impero romano

    13. Il fallimento della tetrarchia

    14. Costantino e Licinio

    15. La struttura dell’Impero prima e dopo Costantino

    16. L’impero di Costantino

    17. I figli di Costantino

    18. Costanzo, Giuliano e l’impero a venire

    Ringraziamenti

    Gli imperatori romani da Augusto a Giuliano

    Re persiani da Ardashir a Sapore II

    Approfondimenti

    Bibliografia

    Tavole fuori testo

    Note sulle tavole fuori testo

    Mappe

    169784.jpg169712.jpg169672.jpg169633.jpg169527.jpg169484.jpg169445.jpg

    Per Ellen e David

    Introduzione

    Roma è nata nell’Italia centrale come un normale villaggio sul fiume Tevere forse mille anni prima dell’inizio della nostra storia. Per secoli non si è distinta dai villaggi vicini ma, nel

    IV

    secolo a.C., iniziò a espandersi aggressivamente nel resto della penisola. I suoi capi erano magistrati eletti ogni anno dai cittadini, i cui voti venivano pesati per dare ai ricchi e potenti una voce decisiva nei risultati. Il sistema era, per certi versi, rappresentativo dei desideri dei cittadini, e praticamente ogni anno l’esercito si metteva in marcia, guidato da due consoli eletti, per combattere contro un nemico. La conquista accelerò nel

    III

    secolo a.C., e un centinaio di anni dopo Roma era diventata la superpotenza incontrastata del Mediterraneo. Allo stesso tempo, tuttavia, la costituzione repubblicana iniziò a sgretolarsi mentre i generali rivali iniziavano ad assumere il controllo del potere. La repubblica venne indebolita da decenni di guerra civile e, alla fine dell’ultimo secolo a.C., la macchina traballante che era il governo repubblicano venne sostituita dal governo di uno: Augusto, il primo imperatore romano.

    Augusto, così conosciuto dal 27 a.C. in poi, era nato Ottaviano, pronipote e figlio adottivo di Giulio Cesare, il primo dittatore repubblicano ad aver tentato di governare da solo. Cesare venne ucciso per quella presunzione, ma la repubblica non venne ripristinata e le guerre che seguirono il suo assassinio, nel 44 a.C., furono addirittura più feroci di quelle che l’avevano preceduto. Quando terminarono, nel 31 a.C., il mondo romano era esausto, le sue estese province erano state campi di battaglia per tre generazioni. L’autocrazia venne accolta come alternativa a ulteriori conflitti civili, e la costituzione repubblicana, rappresentativa ma complicata e instabile, sparì per sempre. Augusto morì in età molto avanzata, e quando successe erano in pochissimi a ricordare il mondo prima del suo governo. Si proclamò princeps, il primo uomo dello Stato romano, anziché re o imperatore. Quella concessione placò gli animi dei senatori, il corpo di ex magistrati che erano sempre stati abituati a dominare lo Stato. Ma il potere che in effetti deteneva e la sua straordinaria longevità permisero ad Augusto di trasformare il governo romano.

    In genere, gli storici fanno una distinzione tra repubblica e impero sotto Augusto, dunque tra la Roma governata da magistrati eletti e quella governata da un solo autocrate, ma in realtà la repubblica possedeva già un vasto impero in Europa e nel Mediterraneo. Questo impero romano repubblicano era governato dagli stessi romani a beneficio dell’Italia – dove la maggior parte dei cittadini romani viveva – e della città di Roma, la più grande conurbazione che il mondo avesse mai visto. La rivoluzione augustea cambiò gradualmente le cose. L’amministrazione repubblicana delle province, in particolare dopo la loro conquista, era spesso incostante e improntata all’avidità, anche quando portava nuove infrastrutture e opportunità economiche. Sotto il governo degli imperatori, divenne invece più stabile. I capi, i cittadini e i nobili che governavano le popolazioni indigene dell’impero erano liberi di conservare la loro autorità locale ad alcune condizioni, in particolare: dovevano mantenere la pace, ai cittadini romani doveva essere consentito di gestire i loro commerci indisturbati, e le casse dello Stato dovevano essere mantenute piene. Questo era il patto che le élite locali avevano accettato con entusiasmo, dai capi clan dell’Europa occidentale ai consigli delle città greche fino ai dinasti delle province orientali. Tutti loro, insieme ai loro sudditi, impararono a compiacere i governatori romani, e in molti casi a vivere come romani. L’entusiasmo delle élite locali nei confronti del governo imperiale, e della pace che esso aveva portato, è senza dubbio il principale motivo del successo dell’espansione romana.

    Augusto e i suoi successori fecero molto più che premiare la cooperazione: accettarono anche molti uomini delle province tra i ranghi dei cittadini romani, e questo fu importante. Nessun altro Stato dell’antichità fu così generoso nel concedere i privilegi di cittadinanza come lo fu Roma sotto gli imperatori. Anziché renderla esclusiva per una cerchia ristretta, gli imperatori accordavano la cittadinanza frequentemente: a volte a singoli uomini che conoscevano di persona, a volte a città privilegiate, a volte a intere regioni dell’impero. Questo significava che da una parte all’altra dell’impero c’erano uomini che detenevano i medesimi diritti legali dei cittadini romani. Davanti alla legge erano uguali in qualsiasi parte dell’impero, e i loro beni e diritti erano validi indipendentemente dalla giurisdizione in cui vivevano o si trovavano. Nota in questo senso è la storia dell’apostolo Paolo, il quale, in pericolo a causa di un processo indetto da autorità giudee ostili, invocò la propria cittadinanza romana e fece spostare il caso a Roma. Questo internazionalismo della cittadinanza romana era forse il suo valore più grande.

    Nel corso del

    I

    secolo d.C., l’impero si trasformò da un insieme di territori sudditi sfruttati da Roma e dall’Italia in un mosaico di province con culture diverse, tutte soggette all’imperatore romano e sempre più popolate da cittadini romani delle province: iberici e galli, saraceni e siriani, traci e greci ‒ questi e molti altri popoli si ritenevano, al di là della loro identità culturale, romani. Quest’identificazione diventò più profonda e più forte nei secoli che tratteremo: i romani delle province saranno parte integrante della storia politica dell’impero. Anche gli abitanti di Roma resteranno importanti, soprattutto la massa della popolazione urbana conosciuta come plebe. Quando Augusto impose l’autocrazia, la plebe scambiò il proprio diritto di partecipazione formale alla politica e di scelta dei suoi governanti con la pace, la prosperità e lo sfarzo: quello che Giovenale, autore satirico, definì «panem et circensem» era ciò che teneva buona la popolazione. Si trattava di un accordo che la plebe poteva accettare, ma non era cosa facile per l’imperatore. Educare la popolazione urbana non implicava solo il denaro, ma anche il metterci la faccia. Un princeps che ingannava la plebe per ottenere sostegno o attenzione personale poteva aspettarsi tumulti nelle strade.

    Per dare un senso alla nostra narrazione, bisogna prendere in considerazione non solo il senato imperiale, la plebe urbana e i cittadini romani delle province, ma anche il modo in cui tutti questi soggetti, insieme all’imperatore e all’esercito, si adattarono al sistema di governo dell’impero, alla sua costituzione non scritta. Essa era deliberatamente ambigua, perché Augusto era estremamente riluttante a mostrare il suo reale potere. Il senato, i cui membri avevano governato un tempo la repubblica e le sue province, accettò l’autocrazia del nuovo princeps non solo perché aveva portato la pace, ma anche perché aveva eretto una facciata di deferenza verso i vecchi princìpi repubblicani. I senatori continuavano a ricoprire cariche dei tempi della repubblica ‒ questore, edile, console ‒ anche se non potevano più competere liberamente per ottenerle, e restavano ancora fondamentali per l’amministrazione dell’impero. Mentre gli ultimi brandelli di repubblica svanivano, e coloro che avevano vissuto i suoi ultimi decenni morivano, l’élite cittadina accettava il teatro politico che aveva celato la realtà del governo individuale. Più sorprendente è che accettasse anche la successione ereditaria.

    Il mito della fondazione della repubblica verteva sulla deposizione dell’ultimo re – Tarquinio il superbo, presumibilmente nel

    VI

    secolo a.C. – e l’instaurazione di un governo senatorio in cui magistrati eletti ricoprivano l’incarico per un solo anno. Il termine rex, re, rimase un grave insulto nella politica repubblicana fino alla fine: il timore che Giulio Cesare potesse proclamarsi re fu una delle principali giustificazioni per il suo assassinio. Ma nonostante Augusto si mostrasse scandalizzato del modo in cui il suo potere veniva descritto, né lui né i suoi sudditi misero in dubbio la realtà della successione ereditaria, esattamente come se gli imperatori fossero dei veri e propri monarchi. Augusto lasciò lo Stato nelle mani di suo figlio adottivo Tiberio (dal 14 al 37 a.C.), dando vita così alla dinastia Giulio-Claudia, dai nomi dei due clan repubblicani da cui discendevano. Altri tre membri di quella famiglia successero a Tiberio. Quando la linea di discendenza maschile Giulio-Claudia terminò, nel 68 d.C., ci fu un breve intermezzo di guerra civile prima che il vincitore, Flavio Vespasiano (al governo dal 69 al 79 d.C.), creasse una nuova dinastia imperiale che chiamiamo Flavia. Così facendo, dimostrò che l’impero poteva andare avanti senza la famiglia che lo aveva fondato, e che gli imperatori potevano essere nominati al di fuori di Roma, dall’esercito e nelle province. Questa rivelazione fu ciò che lo storico Tacito chiamò «arcanum imperii», il segreto del potere. Significava che altre famiglie potevano perpetuare l’autocrazia giulio-claudia vincendo sul campo di battaglia.

    Il passaggio a una nuova dinastia gettò le basi di un potere imperiale più trasparente. Vespasiano fu prima proclamato imperatore dalle legioni delle province dell’Est in un colpo di Stato, ma poi fu acclamato dal senato e dal popolo di Roma, il che legittimò la sua ascesa al potere. Più significativamente, il senato diede a Vespasiano una serie di poteri di magistrato che erano stati esercitati dalla dinastia Giulio-Claudia. Essi contraddistinguevano il princeps da chiunque altro, e rappresentavano il fondamento del suo diritto di agire. Ricalcavano i poteri che al tempo della repubblica i magistrati eletti avevano esercitato durante il loro mandato, il loro accentramento nelle mani di una sola persona era ciò che dava agli imperatori la loro autorità. Due erano i poteri più importanti. Il primo era l’imperium proconsolare: sotto la repubblica, i consoli erano andati a governare le province come proconsoli, "coloro che agivano al posto (pro) dei consoli" di Roma. Queste figure gestivano la politica estera, amministravano la legge e la giustizia ed esigevano obbedienza da parte di cittadini e no; si trattava degli stessi poteri esercitati a Roma dai consoli in carica un anno. Ciò che rese diverso l’imperium proconsolare di Augusto e dei suoi successori fu la sua estensione: in fatto di imperium proconsolare, il princeps aveva un potere maggiore rispetto a quello di qualsiasi governatore delle province, il che rendeva ogni sua decisione legge in qualsiasi parte dell’impero. Il secondo dei due poteri imperiali fondamentali era parimenti radicato nella storia repubblicana. Il princeps deteneva una perpetua tribunicia potestas: al tempo della repubblica conferiva al tribuno diritto di veto sulle leggi nella città di Roma e il comando sui cittadini all’interno dei sacri confini della città. Come l’autorità consolare, la tribunicia potestas sotto la repubblica era esercitata per un solo anno durante il quale un uomo aveva l’incarico di tribuno. Ma sotto gli imperatori, nessuno tranne il princeps aveva la tribunicia potestas, e nel suo caso era perpetua.

    Con il voto per conferire a Vespasiano la tribunicia potestas, il senato confermò che c’erano cose che il princeps aveva in virtù della sua posizione e non della sua persona, e che i poteri detenuti da Augusto potevano essere esercitati da qualcuno che non facesse parte della sua famiglia. Ma non significava stabilire le modalità attraverso cui si potesse diventare imperatore; voleva soltanto dire che chiunque fosse riuscito a farsi riconoscere come imperatore ‒ per ereditarietà, colpo di Stato o vittoria militare ‒ si sarebbe ritrovato inevitabilmente a esercitare quei poteri. Ma l’ambiguità restava, perché la diceria che Augusto avesse ripristinato la repubblica rese impossibile stabilire con precisione cosa conferisse a un imperatore romano il potere di governare. Per secoli, soldati, senatori e popolo erano stati i tre elementi indispensabili per fare di un uomo un imperatore, ma l’equilibrio tra queste forze non era mai stato chiaro né soggetto a regole formali trasparenti. La successione dinastica divenne la norma, ma non si trasformò mai in legge: l’impero era di fatto un’autocrazia, spesso con successione ereditaria, ma non fu mai una monarchia ereditaria.

    L’esercito, finora solo menzionato, fu cruciale nel creare e distruggere gli imperatori, esattamente come lo furono il senato e i cittadini. I soldati erano professionisti che godevano di privilegi che li distingue vano dalla maggior parte della popolazione dell’impero, dunque sia dai cittadini di Roma che dagli abitanti delle province. Il favore delle truppe doveva essere costantemente mantenuto perché, in definitiva, il successo dell’autocrate imperiale dipendeva proprio da quello: era la lealtà dei soldati, in particolare dei grandi eserciti delle province di Britannia, Germania, Balcani, Anatolia e Siria, a proteggere il princeps dalle sfide. Ancora più importante fu la lealtà della guardia pretoriana, l’esercito personale dell’imperatore acquartierato a Roma, che era inevitabilmente letale quando il sovrano la scontentava. Tuttavia, i bisogni delle truppe erano generalmente prevedibili, così come lo erano quelli della plebe romana.

    Le élite ‒ i senatori in particolare ‒ causavano all’imperatore molti più problemi, perché dovevano essere gestiti come individui, non rabboniti come gruppo. Per amministrare l’impero, l’imperatore faceva affidamento su un’oligarchia composta da ricchi patrizi ‒ i senatori ‒ e ricchi senza titoli ‒ gli equestri. La componente senatoriale durante l’oligarchia si rafforzò: ricoprire determinate magistrature conferiva lo status di senatore, che rimaneva a una famiglia per tre generazioni, anche se una particolare generazione non aveva ricoperto incarichi. Un senatore aveva bisogno di una fortuna minima di un milione di sesterzi per mantenere il proprio status (un cittadino mediamente poteva vivere bene con circa mille all’anno), e molti senatori potevano vantare entrate che superavano tale cifra. Considerata questa esclusività, le famiglie dei senatori tendevano a comportarsi come una classe a sé rispetto al resto della società, l’ordo senatorius, anche se, proprio in virtù del collegamento con il denaro, non fu mai un circolo chiuso.

    I cittadini ricchi che avevano un patrimonio consistente potevano scegliere di aspirare alla magistratura, iniziando dall’incarico di questore, che di fatto conferiva un’adesione partecipativa al Senato. Questi cittadini ricchi appartenevano a un secondo gruppo all’interno della più vasta oligarchia romana: l’ordine equestre, o ordo equester (il nome risale all’inizio della storia romana e si riferiva a uomini che possedevano abbastanza denaro da poter servire nella cavalleria). Al contrario dei senatori, che avevano bisogno di mantenere magistrature specifiche per confermare il loro status, agli equestri era sufficiente possedere un patrimonio minimo di 400.000 sesterzi. Si diventava equestre per quello che si era, non per quello che si faceva, e si restava equestre che si richiedesse un incarico o no. Durante l’impero di Adriano, da cui prenderemo le mosse nel prossimo capitolo, l’ordine dei senatori e quello equestre costituivano un’élite governativa internazionale, le cui file aumentavano ogniqualvolta a un popolo delle province veniva concessa la cittadinanza romana: i non cittadini ricchi diventavano automaticamente equestri romani, e a quel punto potevano ambire a un posto in senato se lo avessero voluto. Nel tempo, fu l’elemento equestre che finì per predominare, detenendo sempre più cariche attraverso cui l’impero veniva amministrato. Ma il punto fondamentale è che la flessibilità con cui l’élite dirigente cooptava nuovi membri al suo interno assicurò più stabilità al regime oligarchico; stabilità senza la quale gli imperatori non potevano governare.

    Ecco perché, nelle pagine che seguono, non possiamo limitarci a esaminare le figure dell’imperatore o della famiglia imperiale, e non possiamo evitare di presentare molti grandissimi (e spesso lunghi)nomi romani: generali e burocrati, finanzieri e oratori, i quali resero potente l’impero, anche se erano semplici pedine che conosciamo per la lunga serie di cariche e poteri che detenevano. Le loro motivazioni, così come le loro personalità, vengono spesso dimenticate. Escluderli dalla storia, come a volte succede, serve a semplificare le cose in un modo che inganna il lettore e distorce la realtà del passato; senza riferimenti a questi oligarchi, con i loro nomi complicati e le loro complicate carriere, la storia imperiale diventa un mondo fantastico in cui contano solo l’imperatore e la sua famiglia. Questi ultimi contano, naturalmente, ma l’oligarchia è altrettanto importante: l’autocrazia poteva funzionare soltanto grazie al consenso e all’appoggio dei suoi oligarchi.

    Era una relazione di mutuo rafforzamento che possiamo comprendere solo in parte, perché le nostre fonti sui diversi periodi della storia imperiale romana sono qualitativamente e quantitativamente variabili. Per questo motivo, possiamo narrare alcune epoche in maniera molto più dettagliata rispetto ad altre: la metà del

    II

    secolo e la fine del

    III

    , per esempio, sono quelle più lacunose, mentre il periodo che va dalla fine del

    II

    all’inizio del

    III

    sono ben documentate. Ma c’è un altro problema per quanto riguarda le fonti. Quasi tutti i resoconti che abbiamo sono opere di senatori o di autori che si identificavano con il loro rango. Per questa ragione tendono a concentrarsi sulle personalità di singoli imperatori e sull’impatto che questi avevano sul senato e sulla stessa Roma. Gli imperatori Caligola e Nerone furono terribili con i senatori e con il senato, perciò erano considerati tiranni, nonostante l’ultimo fosse molto popolare nella maggior parte dell’impero. Poi c’era il modello positivo del civilis princeps, che imitava Augusto comportandosi come un cortese primo senatore tra pari. Le fonti storiche di questa élite, quindi, tendono a collocare ogni imperatore in una categoria o nell’altra. Ad esempio, il figlio del buon Vespasiano, Domiziano, seguì la terribile strada di Caligola e Nerone; mentre Vespasiano e Traiano furono educati e rispettosi e perciò ricordati con affetto. Dal momento che questi resoconti si concentrano perlopiù sul carattere dell’impero, bisogna consultare anche altre fonti, in particolare l’ampio numero di inscrizioni su pietra, per scoprire come migliaia di individui altrimenti sconosciuti presentavano le loro vite e le loro carriere al mondo. Quando lo facciamo, scopriamo quasi sempre che la personalità dell’imperatore, e il modo in cui gli strati superiori della società romana percepivano il suo governo, aveva davvero poca rispondenza con le fortune dell’impero nel suo complesso.

    Ciò era vero già sotto la dinastia Giulio-Claudia, e ancora di più quando il nostro resoconto inizia, nell’anno 117, con la morte dell’imperatore Traiano e l’ascesa del suo lontano congiunto Adriano. Per comprendere il regno di Adriano, che in tanti modi determinò la storia dinastica di tutto il

    II

    secolo, dobbiamo descrivere brevemente gli eventi dell’epoca di Traiano e le sorti degli uomini ai vertici dell’impero. Vespasiano e i suoi figli furono i primi imperatori a non essere di Roma: erano infatti discendenti di italici a cui era stata concessa la cittadinanza romana durante l’ultimo secolo della repubblica, e la famiglia era composta in parte da senatori e in parte da equestri. Questo era insolito. La dinastia Giulio-Claudia discendeva da due importanti clan di senatori della vecchia repubblica, e questo contribuì al loro senso di legittimità e potere. Ma sotto il governo dinastico, la vecchia distinzione tra cittadini di Roma e cittadini italici perse via via significato, dal momento che questi ultimi raggiunsero posizioni sempre più importanti nel governo imperiale.

    Quando Vespasiano salì al potere, qualcuno storse il naso per i provincialotti con i quali sembrava gradire intrattenersi, ma nessuno ritenne che le sue origini lo rendessero inadatto a governare. E sotto la sua dinastia Flavia, lo stesso processo di livellamento iniziò a interessare anche i territori al di fuori della penisola. Le élite delle province del Sud e dell’Est della Spagna e della Gallia meridionale, discendenti di veterani dell’epoca repubblicana stabilitisi nelle province che avevano conquistato, iniziarono a entrare in senato in numero sempre maggiore. Un gruppo di senatori ispanici aveva già iniziato a formarsi alla corte di Nerone, mentre i senatori provenienti dalla Gallia Narbonense erano talmente integrati nell’aristocrazia italica che, com’è noto, è difficile distinguere i due gruppi con le fonti di cui disponiamo. Le élite italiche avevano visto le proprie prospettive migliorare sotto la dinastia Giulio-Claudia, così come alla gente delle colonie capitò sotto i Flavi. Con la fine della dinastia Flavia, l’importanza che le élite coloniali avevano acquisito divenne chiara.

    Il figlio minore di Vespasiano, Domiziano, fu assassinato nel settembre del 96. Non ci fu una guerra civile come quella che seguì il suicidio di Nerone, l’ultimo della dinastia Giulio-Claudia, nel 68. Invece, il senato agì in fretta e nominò imperatore Marco Cocceio Nerva. Era anziano, rispettato e senza figli, e la sua carriera affondava le radici nel regno di Nerone. I colleghi senatori lo amavano e si fidavano di lui, ma era impopolare tra la plebe e la guardia pretoriana; inoltre era debole e indeciso. Le truppe alla frontiera divennero irrequiete. Sembrava solo una questione di tempo prima che uno dei grandi condottieri organizzasse un colpo di Stato come quello che aveva fatto cadere Nerone e dato inizio alla guerra civile. La voce si diffondeva, ma i mesi passarono senza che nulla del genere accadesse. Dobbiamo immaginare che la congiura abbia avuto luogo a porte chiuse, perché quello che successe davvero rimase un mistero. Ciò che sappiamo è che, apparentemente dal nulla, nel 97 d.C. Nerva annunciò l’adozione di un potente generale, Marco Ulpio Traiano. Si trattava di un ispanico di Italica, in Betica, la ricca provincia meridionale in cui si trovava la città di Cordŭba (l’attuale Cordova). L’adozione ebbe l’effetto desiderato, cioè calmare le truppe con un uomo che erano felici di chiamare imperatore. Anche il senato era soddisfatto, e Traiano fece del suo meglio per essere un modello di civilis princeps; l’antitesi di Domiziano, un imperatore che egli aveva comunque servito lealmente.

    Di lì a poco Nerva morì ‒ di morte naturale, a quanto pare ‒ e, una volta divenuto imperatore, Traiano (che regnò dal 97 al 117) si rimise al senato dove possibile, dando una considerevole discrezionalità ai suoi membri e ai governatori provinciali. Siamo fortunati a possedere la raccolta di lettere di Gaio Plinio Cecilio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Giovane, la cui corrispondenza con Traiano ci apre una finestra nel rapporto tra l’imperatore e il senatore. Plinio è deferente, fin troppo preoccupato di non prendere decisioni che possano scontentare il princeps. Traiano, dal canto suo, è fin troppo paziente davanti all’indecisione del suo governatore, alle sue continue richieste di consigli sia su questioni poco rilevanti sia più serie. Il princeps sa che la premura e la tolleranza sono necessarie quando si scrive a un proprio pari. E il princeps sa anche che le sue istruzioni contano. Continua a ricordare a Plinio di condividere il genuino interesse per le province che lui stesso prova, di lasciarle vivere in pace, di farle smettere di aggredirsi l’un l’altra.

    Traiano fu sempre ricordato come optimus princeps, il miglior imperatore, e non solo perché adulava l’amor proprio dei senatori. Si preoccupava della sicurezza dei suoi sudditi e aveva portato nuova gloria al nome di Roma, combattendo una feroce guerra sul Danubio contro il re della Dacia, Decebalo, ed espandendo il territorio dell’impero nei Carpazi, dove creò tre nuove province. Questi territori transdanubiani diedero a Roma il controllo sulle importanti miniere della Transilvania e resero possibile sorvegliare i re barbari a est e a ovest dei Carpazi. La conquista della Dacia rese Traiano un propagator imperii, qualcuno che aveva esteso i confini dell’impero, cosa molto rara. Per tutte queste ragioni, l’epiteto optimus non gli fu attribuito postumo, ma gli venne dato in vita ‒ un aggettivo associato all’imperatore così di frequente da sembrare parte del nome.

    Il quadro si complicò in seguito a causa dell’ambiguità della successione dell’impero. Traiano non aveva figli ed esitò per designare un successore: l’optimus princeps avrebbe rivelato apertamente la sua autocrazia con un simile atto. Allo stesso tempo, la mancanza di un piano di successione chiaro poteva condurre a un disastro, come gli avvenimenti che seguirono il regno di Nerone avevano già dimostrato. Inoltre, se non veniva designato un erede legittimo, il popolo avrebbe speculato e l’odio tra le fazioni si sarebbero esacerbato, con conseguenze imprevedibili. Traiano alla fine giunse a un compromesso, essendo poco propenso a rinunciare al privilegio di essere il primo tra i pari. Aveva un parente stretto, Publio Elio Adriano, il figlio di una cugina da parte di madre e frutto dei matrimoni intrecciati tra le élite coloniali ispaniche. Il padre di Adriano, Publio Elio Afro, era morto nell’86 d.C., e a quel punto il giovane Elio Adriano e sua sorella maggiore, Elia Domizia Paolina, divennero i pupilli di Traiano. Le fonti ci dicono che Adriano fu trattato come un figlio dall’imperatore per tutta la vita, in altre parole anche prima che vestisse la toga virilis, la toga della virilità, che segnava il passaggio dall’infanzia all’età adulta per un maschio romano.

    Traiano poi avvicinò ulteriormente gli Ulpii e gli Elii facendo sposare Adriano con Sabina (la nipote della sorella Marciana). Le nozze erano il modo in cui le élite romane si reggevano, in un mondo in cui l’aspettativa di vita era bassa e c’era un’alta mortalità puerperale. Il matrimonio di Adriano e Sabina fu importante, ma lo fu anche quello di Domizia Paolina con l’importante generale Lucio Giulio Urso Serviano, i cui discendenti sarebbero stati alla ribalta politica durante il

    II

    secolo. Traiano coprì le donne della sua famiglia di onori, imitando Augusto, il quale aveva fatto lo stesso con sua moglie Livia. Perciò a Plotina, la moglie di Traiano, fu dato il titolo di augusta, così come alla sorella Marciana, e da allora in poi le donne anziane della famiglia imperiale furono chiamate con questo appellativo. Quando Marciana Augusta morì, nel 112, fu divinizzata dal senato, e dopo Traiano conferì il titolo di augusta a sua figlia Matidia. Adriano era dunque sposato con la figlia di una augusta e nipote della divinizzata diva Marciana.

    Mentre tutto questo sembrava identificare Adriano come erede legittimo di Traiano, ci furono però degli ostacoli. L’imperatore non aveva concesso privilegi speciali al giovane consanguineo nel cursus honorum (letteralmente percorso delle cariche svolto dai membri dell’oligarchia romana). Questo cursus honorum prevedeva a un numero di incarichi meno abilitativi e poi a una serie di prestigiosi ruoli che risalivano all’epoca della repubblica: questore, edile, pretore. Coloro che avevano servito come pretori andavano a governare le province e a volte ottenevano la carica di console dopo aver compiuto i quarantaquattro anni. Come per il consolato, ognuna di queste cariche tradizionali richiedeva un’età minima, e veniva imposto un intervallo tra gli incarichi secondo le regole stabilite da Augusto (chiamate lex annalis). Per un uomo era un grande onore assumere un incarico nel primo anno in cui diventava eleggibile per ottenerlo ‒ onore per cui i senatori competevano ‒, ma sotto le dinastie Giulio-Claudia e Flavia i giovani membri della famiglia regnante erano spesso esenti dalla lex annalis, ed era loro permesso di saltare il normale ordine e ricoprire cariche molto prima di coloro che in teoria erano senatori loro pari. Traiano non permise ad Adriano tutto questo. Presumibilmente, l’imperatore voleva dimostrare il suo rispetto per il senato e per le regole a cui tutti i membri dovevano sottostare, ma ciò confuse il popolo. Giravano voci secondo cui Traiano non tenesse in grande considerazione il suo pupillo.

    Fu necessario aspettare l’anno 113 perché lo status di Adriano come probabile erede di Traiano diventasse sicuro, quando fu designato per accompagnare l’imperatore nella campagna militare come legatus pro praetore, sarebbe a dire un comes (compagno) imperiale e consigliere speciale. Nel 113 Traiano, che stava invecchiando, decise di intraprendere un’altra guerra di conquista. Era un uomo irrequieto a cui non piaceva l’inattività e che preferiva la vita sul campo di battaglia. Le sue guerre in Dacia l’avevano coperto di gloria, e il richiamo della guerra a Est era difficile da ignorare. C’erano delle ragioni storiche per quel richiamo, oltre a quelle personali. A est di Roma c’era l’impero partico, l’unico altro Stato organizzato del Mediterraneo e del Vicino Oriente in quel periodo. I romani consideravano i Parti loro grandi nemici almeno dal 53 a.C., quando il grande generale repubblicano Crasso venne ucciso sul campo di battaglia di Carre e diverse legioni romane furono annientate insieme a lui. Da allora, ogni vittoria contro i Parti era stata considerata sia morale che militare, anche se i Parti tendevano a non contraccambiate l’ostilità. Seguire le orme di Alessandro Magno e vendicare finalmente la morte di Crasso era un progetto degno secondo l’opinione dell’optimus princeps.

    La scusa di Traiano fu la rivalità tra i pretendenti al trono partico e l’interferenza dei Parti in Armenia. All’inizio del

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    secolo, l’Armenia era un regno cliente che stava tra due grandi imperi. Era più vicino a quello partico per quanto riguardava la cultura, e la sua dinastia condivideva la religione iraniana dei re Parti. Politicamente, tuttavia, era ormai parte dell’orbita romana e i suoi re venivano tradizionalmente approvati da Roma prima che fosse loro permesso di governare. Ora, il re dei Parti aveva deposto l’incaricato romano in Armenia e aveva investito un nuovo reggente. Ciò diede a Traiano il pretesto che gli serviva e quindi, nel 113, fece partire l’invasione dell’Impero partico con il chiaro intento di conquistarlo e annetterlo a Roma. La vera posizione di Adriano come erede legittimo divenne chiara durante questa campagna.

    L’imperatore aveva sessantuno anni quando la campagna contro i Parti ebbe inizio; era vecchio e non ci si aspettava che sarebbe riuscito a vederne la fine. La campagna fu un successo, almeno in termini militari. L’Armenia fu messa presto in ginocchio, mentre i sovrani si radunavano in massa a nord del Caucaso per giurare obbedienza a Traiano. L’esercito romano allora marciò lungo l’Eufrate, conquistando ogni città che incontrava. La capitale partica, Ctesifonte, cadde, e con questo epilogo Traiano superò tutti i precedenti generali romani. Ma per lui non era abbastanza. Si spinse ancora più a sud, dove l’Eufrate incontra il Tigri e insieme raggiungono il golfo Persico. Lì, Traiano guardò l’orizzonte, lamentando di essere troppo vecchio per seguire il fantasma di Alessandro fino in India. Si sarebbe accontentato di aver messo un nuovo re sul trono dei Parti e di aver sottomesso il grande rivale di Roma.

    L’impresa dell’imperatore non era proprio quello che sembrava. Ancora prima che lasciasse le sponde del Tigri, vicino alla moderna Bassora in Iraq, la politica estera era nel caos. Quasi tutto il territorio conquistato dell’Impero partico, e alcuni dei regni alleati, erano furiosi. Cosa ancor più preoccupante, la diaspora ebraica all’interno delle province romane era esplosa in una ribellione e aveva proclamato un re ebraico, segno di pericolose prospettive messianiche. Secondo la consuetudine romana, una rivolta di tale portata richiedeva rappresaglie feroci. Traiano mandò i suoi migliori comandanti a occuparsi dei giudei, mentre lui stesso passò dalla Mesopotamia per tornare in territorio romano soffocando brutalmente le ribellioni partiche. La sua salute peggiorava, e non sembrava esserci un modo per salvare la situazione, che in Mesopotamia e Armenia sarebbe stata considerata irrecuperabile. Mentre si dirigeva in Asia Minore, le condizioni di Traiano si aggravarono a tal punto da impedirgli di viaggiare. Morì a Selinus, in Cilicia, l’8 agosto del 117. La sua morte non fu resa nota finché Adriano non poté essere informato e presentato ai soldati, che doverosamente lo acclamarono. Con l’ascesa di Adriano, la nostra storia può iniziare.

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    I primi anni di Adriano

    Il regno di Adriano non iniziò bene. La gente credeva, o fingeva di credere, che era alla vedova di Traiano, che l’imperatore dovesse il trono: Plotina non avrebbe dovuto assecondare il desiderio dell’imperatore deceduto. Era vero che Adriano era stato il favorito dell’imperatrice, ma anche che molti senatori si immaginavano migliori successori di Traiano di quanto non lo fosse il pupillo di una vecchia imperatrice. Erano stati fatti nomi alternativi, e Adriano sembrò la scelta peggiore quando cedette le importanti conquiste di Traiano. Con il senno di poi, è chiaro che fossero già delle cause perse, e lo stesso Traiano le avrebbe dovute cedere. Ma Traiano era morto, e la sua memoria venerata; Adriano era vivo e non molto popolare, quindi la colpa ricadde su di lui. La cosa peggiore, però, furono gli omicidi. Non si sa se qualcuno tentò davvero un colpo di Stato, oppure se semplicemente le voci furono prese seriamente; sta di fatto che quattro consoli anziani, uomini che avevano ottenuto la carica e avevano in mano le truppe più vaste dell’impero, vennero condannati a morte prima che Adriano tornasse a Roma dall’Oriente. Lui negò sempre la responsabilità delle esecuzioni, ma nessuno gli credette. Era netto il contrasto con il predecessore, che anche di fronte a vere congiure durante il suo regno aveva mandato in esilio solo due senatori senza giustiziarne nessuno.

    Adriano tornò a Roma con calma e il suo rientro in città non fu salutato con entusiasmo. La plebe era recalcitrante ‒ l’assassinio dei quattro consoli aveva destato scalpore. Adriano dovette distribuire grandi somme di denaro per calmare il popolo, e condonò i debiti a usurai privati e a città che dovevano dei soldi alla tesoreria dell’imperatore, il fiscus (separato dalla tesoreria ufficiale di Stato, che era chiamata aerarium publicum, a volte anche aerarium Saturni in quanto era situato vicino al tempio di Saturno). Organizzò un rogo pubblico dei registri della tasse nel Foro di Traiano, sperando di guadagnarsi un po’ della benevolenza popolare. Doveva ingraziarsi anche il senato, ma non era facile. Dichiarò sotto giuramento di non aver ordinato l’uccisione dei quattro consoli, e fece voto di non punire nessun senatore senza il voto dell’organo che li rappresentava. Ma i sospetti del senato non si dissiparono e Adriano non fu mai visto di buon occhio.

    Fece divinizzare il padre adottivo e seppellire i resti alla base della colonna che Traiano aveva fatto costruire per commemorare le sue vittorie nel Danubio. Questa colonna, alta trenta metri e decorata con un fregio a spirale lungo circa duecento metri che raffigura le guerre in Dacia dell’imperatore, si trova ancora nel foro che porta il suo nome, e resta uno dei monumenti rappresentativi dell’imperialismo romano. L’atto di devozione di Adriano fu di fatto insolito e, per certi versi, sacrilego. Il Foro di Traiano si trovava all’interno del confine sacro tradizionale della città di Roma, il cosiddetto pomerium, in cui erano proibite le sepolture. Anche gli imperatori venivano sepolti al di fuori del pomerium, nel mausoleo di Augusto in Campo Marzio. Come tutte le altre cose che aveva fatto, il gesto di Adriano offese coloro che non lo amavano, per quanto fosse stato in buona fede.

    Adriano prese altre misure per difendere il proprio trono. Destituì uno dei due prefetti del pretorio di Traiano, i capi del governo imperiale e comandanti della guardia pretoriana, e accettò le dimissioni del secondo, un ex centurione fedele a Traiano che sembrò non voler servire sotto Adriano. (Come sottufficiali anziani delle legioni, i centurioni guadagnavano, in genere, il rango di equestri subito dopo il congedo, il che permetteva loro di mantenere le varie cariche dell’amministrazione imperiale, che erano, come la prefettura del pretorio, riservate agli equestri). Al posto dei prefetti di Traiano, Adriano nominò un altro ex centurione, Marcio Turbo – che conosceva Adriano fin dai tempi dell’esercito, e che in quel momento era impegnato a rimettere ordine lungo i confini del Danubio, nelle province della Dacia e della Mesia – e Septicio Claro, equestre di nascita, che conosciamo principalmente come dedicatario della raccolta epistolare di Plinio il Giovane. Infine, Adriano nominò un nuovo ab epistulis, l’ufficiale equestre responsabile di stendere le bozze delle lettere imperiali e delle risposte: l’incarico fu assegnato a Svetonio Tranquillo, famoso per il suo Vita dei Cesari, una serie di biografie di imperatori da Giulio Cesare (considerato, erroneamente, il primo imperatore) a Domiziano, reputata una delle opere più popolari della letteratura latina.

    Altre nomine rivelano quanto le élite coloniali che avevano prosperato sotto i Flavi fossero diventate forze dominanti nel governo. Il prefetto di Adriano (una carica diversa da quella del prefetto del pretorio, incaricato della gestione quotidiana della città di Roma) era infatti il senatore ispanico Marco Annio Vero. La sua carriera risaliva ai giorni di Vespasiano, e sarebbe continuata fino a renderlo uno degli ultimi cittadini della storia di Roma a detenere tre consolati, un privilegio riservato sempre più agli imperatori e ai loro eredi. La figlia di questo Annio Vero, Annia Galeria Faustina, era sposata con un senatore di Nemausus (Nîmes), della provincia della Gallia Narbonense: questo senatore, il cui nome per esteso era Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino, in seguito diventò l’imperatore che conosciamo come Antonino Pio, il quale regnò dal 138 al 161. Nel 121, quando il vecchio Annio Vero fu console per la seconda volta, nacque un altro Marco Annio Vero (nipote del primo), che sarebbe diventato l’imperatore Marco Aurelio (che regnò dal 161 al 180). Queste famiglie intrecciate avrebbero dominato la politica dinastica del

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    secolo.

    Annio Vero e Arrio Antonino, come Adriano, erano diversi rispetto alla vecchia generazione di cui facevano parte uomini come Traiano. Nonostante venissero dalle colonie, e continuassero ad avere parenti e clienti nelle loro terre natie, erano figli dell’Italia, cresciuti a Roma e visitatori occasionali delle province d’origine. Per questo motivo erano anche strettamente collegati alle élite italiche. Un altro degli incaricati di Adriano fu Aterio Nepote, un equestre dell’Umbria che aveva governato l’Armenia tra il 114 e il 117, nel breve periodo in cui era una provincia romana; venne rapidamente promosso a rivestire una serie di cariche e infine fu nominato prefetto d’Egitto, incarico scelto riservato agli equestri e sempre conferito agli uomini più affidabili dell’imperatore. I comandanti delle legioni di Adriano erano un miscuglio di superstiti del periodo di Traiano e di nuovi nomi: il potere traballante del neoimperatore rese essenziale equilibrare il rispetto per la continuità con il bisogno di avere sostenitori leali.

    A volte questa ricerca di sicurezza portò delle innovazioni. Un’inscrizione scoperta di recente, dimostra che in conseguenza delle guerre giudaiche Adriano creò un esercito eccezionale, collocando le legioni romane di Giudea e Arabia sotto il comando di un singolo uomo. Il gesto aveva lo scopo di intimidire la Giudea e impedire che la successiva diaspora sfociasse in una ribellione; anche se fallì, come vedremo presto. L’imperatore inoltre trascorse i primi tre anni del suo regno nella città di Roma, nonostante la sua preferenza per l’Oriente e per i viaggi in generale: da un imperatore del

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    secolo ci si aspettava che si comportasse come un senatore tra i senatori, anche se non era popolare e avrebbe desiderato essere da un’altra parte. Adriano tollerò la necessità di essere presente in senato più a lungo che poté, ma poi viaggiò nel resto del vasto impero allontanandosi da Roma ogni volta che poteva.

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    Asia minore

    Nel 121 andò in Gallia e Germania, lasciando Turbo e Annio Vero a guardia del popolo e del senato. Anche la vedova di Traiano, Plotina, si trattenne in città, vivendo però isolata. Matidia, nipote di Traiano e suocera di Adriano, era morta nel 119 e fu, come la madre Marciana prima di lei, resa diva. Sabina, l’imperatrice, diventò Augusta e viaggiò con l’imperatore: lei e Adriano si detestavano, ma lui temeva che una donna con quell’autorità avrebbe potuto diventare il fulcro di complotti se fosse stata lasciata libera di prendere decisioni a Roma. Anche in viaggio e sotto stretta sorveglianza, Sabina destò dei sospetti in suo marito: alla fine del 122, il prefetto del pretorio Septicio Claro, l’ab epistulis Svetonio e molti altri furono rimossi improvvisamente dai loro incarichi dopo un non precisato colloquio con l’imperatrice. Forse si trattò davvero di un complotto, oppure di un’impudicizia da parte di Sabina (Adriano riservava le sue attenzioni ai giovani uomini), ma in realtà non abbiamo idea di cosa sia davvero successo. Sabina rimase nel seguito imperiale, ma Claro non fu sostituito. Ciò significava che Marcio Turbo, in carica da quando Adriano era andato a Roma la prima volta, sarebbe rimasto l’unico prefetto del pretorio fino agli ultimi anni del regno.

    Adriano trascorse più di un decennio in viaggio, girando per le province del vasto impero. Nel 121, o 122, visitò le province del Danubio superiore, la Rezia e Norico ‒ che ora fanno parte della Svizzera, del Sud della Germania e dell’Austria ‒ e a Norico ispezionò le miniere imperiali, come dimostrano le monete commemorative della visita. Onorò entrambe le province, elevando alcune comunità noriche a municipia ‒ uno status con diritti speciali soggetto alla legge romana ‒ e donando un nuovo teatro alla residenza del governatore a Viruno (vicino all’attuale Klagenfurt), e nella Rezia, elevando a status di municipium anche Augusta Vindelicum (Augusta). Da lì, puntò alla Britannia, probabilmente navigando il Reno fino a Colonia Agrippina, la moderna Colonia, capitale della Germania inferiore (così chiamata perché era molto più a valle rispetto alla Germania superiore). Probabilmente le aree sottosviluppate della Germania inferiore, che comprendevano parte delle moderne Fiandre, furono migliorate da Adriano, e la

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