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La sorella perduta
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La sorella perduta
E-book397 pagine6 ore

La sorella perduta

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Info su questo ebook

Un grande successo del passaparola ai primi posti nelle classifiche di tutto il mondo

Numero 1 del Sunday Times

Autrice del bestseller internazionale Il profumo delle foglie di tè

1930. Belle Hatton si è imbarcata verso un’eccitante nuova avventura lontano da casa. Si esibirà con la sua splendida voce in un hotel in Birmania dove la attendono notti scintillanti e sofisticati ammiratori. La sua vita sarebbe perfetta, se l’ossessione per un mistero del passato non continuasse a tormentarla. Alla morte del padre, infatti, Belle ha trovato un ritaglio di giornale tenuto nascosto per venticinque lunghi anni. Nell’articolo si parla di come gli Hatton fuggirono da Rangoon alla morte della loro bambina, Elvira. Belle desidera scoprire che cosa accadde alla sorella che non sapeva di avere, ma quando inizia a fare domande i pettegolezzi e le maldicenze sembrano rendere molto difficile la strada verso la verità. Soltanto Oliver, uno scanzonato giornalista americano, si offre di aiutarla. Ma qualcosa le dice che non può fidarsi di lui… Mentre le rivolte esplodono e la fitta rete di bugie comincia a farsi più pressante, Belle riuscirà a capire a chi può concedere la sua fiducia? 

Ai vertici delle classifiche in Italia e Inghilterra
Un’autrice tradotta in 25 lingue

Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Dinah Jefferies racconta epoche e Paesi lontani attraverso appassionate eroine. Una narrativa tutta al femminile.»
Il Corriere della Sera

«Un bestseller internazionale.»
la Repubblica

«Seducente e romantico, capace di rendere l’autentica atmosfera del luogo e del periodo, la Jefferies ha fatto centro.»
Sunday Mirror

Dinah Jefferies
è nata in Malesia e si è trasferita in Inghilterra all’età di otto anni. La Newton Compton ha pubblicato il suo romanzo di esordio La separazione, il bestseller Il profumo delle foglie di tè, che è stato l’ebook più venduto nel 2016, e La figlia del mercante di seta, entrato nella classifica della narrativa straniera subito dopo l’uscita. Dopo il successo di Il silenzio della pioggia d’estate e Il segreto del mercante di zaffiri, torna in Italia con La sorella perduta.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2019
ISBN9788822732972
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    Anteprima del libro

    La sorella perduta - Dinah Jefferies

    2325

    Titolo originale: The Missing Sister

    © Dinah Jefferies 2019

    Original English language edition first published

    by Penguin Books Ltd, London

    The author has asserted her moral rights

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Tessa Bernardi

    Prima edizione ebook: giugno 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3297-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    Dinah Jefferies

    La sorella perduta

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Nota dell'autrice

    Ringraziamenti

    1

    Rangoon, Birmania, 1936

    Belle raddrizzò la schiena, tirò indietro i capelli rosso ramato e fissò l’orizzonte con il cuore che le palpitava per l’emozione, mentre la nave cominciava il suo progressivo avvicinamento al porto di Rangoon. Da non credere. La città dove i sogni diventavano realtà, ancora una sagoma misteriosa in lontananza, ma che iniziava a mettere a fuoco man mano che la nave solcava le acque. Il cielo, di un azzurro scandalosamente brillante, sembrava più sconfinato di quanto avesse il diritto di essere, e il mare, quasi blu scuro nei punti più profondi, rifletteva una superficie liquida talmente lucente che Belle riusciva quasi a specchiarcisi. Persino l’aria luccicava, come se dall’umidità che si alzava dal mare il sole avesse creato minuscoli cristalli volteggianti. Le barchette che punteggiavano le acque beccheggiavano tra le onde, e Belle rise vedendo gli uccelli marini scendere in picchiata e battibeccare, lanciando versi striduli. Non era infastidita dal rumore che, anzi, rafforzava in lei la sensazione di vivere qualcosa di profondamente diverso. Aveva anelato a lungo alla libertà di viaggiare, e adesso lo stava facendo davvero.

    Con un ronzio nelle orecchie, inspirò a fondo, come se volesse assorbire ogni particella di quel momento glorioso, e per qualche minuto chiuse gli occhi. Quando li riaprì, restò a bocca aperta. Non era stato il porto, con le sue gru altissime, i mercantili carichi di tek, le voluminose petroliere, i vaporetti e i piccoli pescherecci ammassati all’ombra delle imbarcazioni più grandi, a tenerla avvinta. Né gli imponenti edifici bianchi in stile coloniale che si stavano delineando davanti a lei. Perché, svettando dietro tutto questo, un’enorme struttura dorata sembrava galleggiare sopra la città. Sì, galleggiare, come sospesa, come se uno spaccato di un paradiso inimmaginabile fosse sceso in terra. Rapita dall’oro che scintillava sullo sfondo del cielo color cobalto, Belle non riusciva a distogliere lo sguardo. Poteva mai esistere qualcosa di più affascinante? Capì, senz’ombra di dubbio, che si sarebbe innamorata della Birmania.

    Il caldo, invece, era opprimente: non un caldo secco, ma una specie di caldo umido che le restava appiccicato ai vestiti. Certamente diverso, ma si sarebbe abituata sia a quello che all’aria con il suo odore di salmastro, di bruciato, che le chiudeva la gola. Si sentì chiamare per nome e si girò di tre quarti fino a vedere Gloria, la donna che aveva conosciuto sul ponte durante la traversata, appoggiata al parapetto con un cappello da sole rosa a tesa larga. Belle fece per darle di nuovo le spalle, ma Gloria la chiamò ancora. Poi agitò la mano coperta dal guanto bianco e le andò incontro.

    «Allora», risuonò la sua voce tagliente e raffinata, infrangendo i sogni a occhi aperti di Belle. «Che te ne pare della pagoda Shwedagon. Impressionante, non trovi?».

    Belle annuì.

    «Rivestita d’oro vero», disse Gloria. «Tipi strani, i birmani. L’intera città è costellata di templi e pagode dorate. Non si riesce a camminare senza inciampare in un monaco».

    «Penso che debbano essere persone splendide se hanno creato qualcosa di tanto meraviglioso».

    «Come ti ho già detto, le pagode sono ovunque. Dunque, il mio autista ci sta aspettando sul pontile. Ti darò un passaggio fino al nostro albergo, il meraviglioso Strand Hotel. Affaccia sul fiume».

    Belle osservò la pelle attorno agli occhi scuri e profondamente infossati della donna e, non per la prima volta, cercò di indovinare quanti anni avesse. Si contavano numerose rughe, ma aveva quello che in genere veniva definito un bell’aspetto. Più avvenente che bella, con un naso marcatamente aquilino, zigomi cesellati e capelli scuri e lucenti, raccolti con eleganza alla base del collo da cigno… ma, per quanto riguardava l’età, si potevano soltanto azzardare delle ipotesi. Era molto probabile che avesse abbondantemente passato i cinquanta.

    Gloria aveva parlato con l’aria di chi si sente padrone della città. Una donna con una reputazione da mantenere e un viso all’altezza del compito. Belle si chiese che aspetto dovesse avere senza quel mascherone di trucco applicato con maestria, le sopracciglia disegnate con cura e le labbra da stella del cinema. Non si sarebbe sciolto con quel caldo?

    «A volte mi fermo allo Strand se faccio tardi la sera, come infatti farò stanotte, anche se naturalmente ho una casa di proprietà nella Valle Dorata», stava dicendo.

    «La Valle Dorata?». Belle non riuscì a nascondere la sua curiosità.

    «Sì, la conosci?».

    Lei scosse la testa e, dopo un momento di esitazione, decise di non dire nulla. Non era tenuta a conoscere la zona, no? Semplicemente, non era pronta a parlare con una persona che conosceva appena. «No, mai sentita», rispose. «Ma mi piace il nome».

    Gloria le rivolse uno sguardo interrogativo e Belle, malgrado si fosse prefissata di non farlo, si sorprese a ripensare al passato. Era trascorso un anno dalla morte di suo padre, e non era andata bene. L’unico lavoro che aveva trovato era nella libreria di un amico, ma ogni settimana spulciava l’ultimissima edizione di «The Stage» non appena arrivava in negozio. E poi, gioia infinita, aveva trovato un annuncio nel quale si cercavano artisti per alcuni alberghi prestigiosi a Singapore, Colombo e Rangoon. L’audizione si era tenuta a Londra, dove si era trattenuta per due giorni in estenuante e angosciosa attesa finché non aveva ricevuto notizie.

    Belle si era documentata. Aveva scoperto che Rangoon era sotto il dominio britannico dal 1852 e si era sviluppata a partire da un piccolo villaggio di capanne con i tetti di paglia fino a diventare una vasta città e un porto fiorente, dei quali adesso avrebbe fatto parte. Mentre Gloria le indicava gli imponenti uffici governativi, le abitazioni private e i negozi, Belle pativa il caldo asfissiante dell’auto e sentiva il desiderio di scendere e sentire l’aria sulla pelle. Gloria aveva ragione. I monaci con le tonache color zafferano erano ovunque e girovagavano per le strade, e c’erano anche alcune donne, per quanto coperte da capo a piedi di rosa sbiadito.

    «Suore», disse Gloria, chiaramente poco colpita. «Monaci e suore buddisti. Anche se le suore sono abbastanza rare».

    Gloria proseguì dicendole che lo Strand era stato il primo quartiere sviluppato dai britannici e che, insieme al caseggiato di Phayre Street, era il posto migliore dove fare affari. A Belle importava ben poco. Ci sarebbe stato tempo per esplorare. Le uniche cose che voleva in quel momento erano una bella bibita rinfrescante e sentire la terraferma sotto i piedi.

    «Phayre Street ti piacerà», aggiunse Gloria. «Prende il nome dal primo Alto Commissario della Birmania. Corre parallela al fiume, proprio come lo Strand. È fiancheggiata da alberi della pioggia e, cosa più importante, è lì che si trovano tutti i gioiellieri e i mercanti di seta».

    Belle non parlò, ma si passò una mano sulla fronte, dove alcune goccioline di sudore già le imperlavano l’attaccatura dei capelli.

    «Eccoci arrivate», stava dicendo Gloria mentre il viaggio giungeva a conclusione e l’autista si fermava davanti a un portico elegante, con due grandi palme che crescevano su entrambi i lati in tutto il loro splendore. «Dio onnipotente, corriamo a cercare un ventilatore, però».

    Due facchini silenziosi andarono a recuperare i loro bagagli e, quando raggiunsero le massicce porte a vetri, un portiere con il turbante si inchinò e le tenne aperte per farle passare. All’interno, nell’atrio dal soffitto alto, c’era una piacevole frescura.

    «Adoro vedere il luccichio del fiume attraverso il bambù di fronte all’albergo», disse Gloria mentre si voltava verso le porte. «Guarda».

    Belle guardò.

    «Sospetto che ti daranno una delle stanzette sul retro, nel nuovo ampliamento, oppure all’ultimo piano. Gira voce che vogliano coprire la piscina per costruire altre stanze, sai com’è, ma non è ancora successo, e spero non lo facciano mai».

    Tirò fuori un pacchetto di Lambert & Butler dalla borsetta di pelle di coccodrillo e offrì una sigaretta a Belle.

    Lei si sfiorò la gola. «Non posso. La voce. Devo preservarla».

    «Ma certo. Che sciocca». Gloria fece una pausa. «Un avvertimento. Io starei alla larga dal porto e dai vicoletti attorno al lungofiume, soprattutto quando cala la sera. È dove vivono i cinesi ed è un vero labirinto di stradine tutte uguali. C’è da mettere a repentaglio la propria incolumità».

    Un ometto basso e piuttosto massiccio, con un’aria zelante, baffetti sottili e una faccia rubizza, marciò verso di loro per dare il benvenuto a Gloria.

    «Signora de Clemente», disse con un inchino ossequioso e un accento, forse del nord, che stava cercando di camuffare. «E la sua incantevole ospite. Chiedo scusa per l’intromissione, ma se la sua accompagnatrice avesse bisogno di assistenza, potrei registrarla subito». Si voltò per sorridere a Belle.

    «Oh, no», replicò lei, ansiosa di chiarire l’equivoco. «Non sono un’ospite dell’hotel. Sono un’artista. Una cantante, per la precisione».

    L’uomo serrò la mandibola e, ignorando Belle, si rivolse a Gloria. «Come ben saprà, signora de Clemente, c’è un ingresso separato per il personale di servizio. Con tutto il rispetto, ma devo chiedere alla sua accompagnatrice di usare quell’entrata».

    Gloria inarcò le sopracciglia e gli rivolse un sorriso garbato, ma gelido. «Tuttavia, signor Fowler, la signorina Hatton non è una servetta. Come artista e, dovrei aggiungere, mia buona amica, gode di certi diritti. Mi aspetto che vengano rispettati». Girò sui tacchi, liquidandolo, e si incamminò impettita verso il bancone della reception.

    Fowler era diventato ancora più rosso in volto e, dopo aver scoccato un’occhiataccia a Belle, le sibilò di seguirlo.

    «Mi dispiace», sussurrò lei, immaginando che il breve scambio di battute non le sarebbe stato di alcun giovamento.

    Dopo averla condotta fuori dall’atrio, l’uomo si fermò e raddrizzò la schiena per ergersi in tutta la sua altezza. «Sono certo che riuscirai a trovare un modo per rimediare. Ricorda, sono l’assistente del direttore e, pertanto, risponderai a me».

    Mentre le parlava, Belle si sforzò di non sorridere di fronte alle sue sopracciglia eccessivamente mobili. Sopracciglia che, senza alcun preavviso, avrebbero potuto strisciare via con aria tronfia e reclamare la loro indipendenza. Si capiva che quell’uomo non avrebbe gradito di diventare oggetto di scherno, così riuscì a evitare di ridacchiare.

    Fowler esibiva un sorriso forzato. «Avere occhi anche dietro la schiena è il mio mestiere. Onniveggente, ecco cosa sono. E, se mi è concesso, direi che non sembri la classica artista».

    Belle si strinse nelle spalle.

    «Allora, da dove vieni? Dalle contee attorno a Londra?»

    «Da Cheltenham».

    «Stessa zuppa. Be’, non so se andrai d’accordo con le altre ragazze. La maggior parte di loro viene dall’East End di Londra. Spero che non ti considererai troppo brava per questo lavoro».

    Lei corrugò la fronte. «Le altre?»

    «Le ballerine». Fowler inarcò le sopracciglia e la squadrò con attenzione. «Qua darsi troppe arie e credersi chissà chi non ti porterà lontano».

    «Spero di riuscire a integrarmi», disse lei, desiderando che se ne andasse e rallegrandosi quando l’uomo fece un passo indietro.

    «Be’, non posso perdere altro tempo in chiacchiere», mormorò. Ciò detto, girò l’angolo, salì le tre rampe dell’angusta scala di servizio e si fermò davanti alla prima delle quattro porte dipinte di bianco che erano allineate lungo un corridoio in penombra. «Questa è la tua stanza», disse porgendole una chiave. «La condividerai con Rebecca».

    Condividerla? Perse un pochino di entusiasmo. Ma in fondo, pensò, magari sarebbe stato divertente.

    2

    Belle non conobbe la compagna di stanza fino alla mattina seguente. La sera prima, mentre era sdraiata a letto sfinita, in attesa che la ragazza facesse la sua comparsa, era sprofondata in un sonno dal quale si ridestò solo quando udì un insistente ronzio. Ansiosa di iniziare la sua nuova vita, si alzò di scatto e osservò la finestra, dove un paio di mosche gigantesche – o almeno pensava fossero mosche – stavano sbattendo furiosamente contro il vetro. Senza pensarci due volte, scostò la coperta sottile, appoggiò i piedi a terra e si sporse per aprire la finestra.

    La piccola camera all’ultimo piano era dipinta di bianco sporco e arredata con due letti singoli – uno, quello sotto la finestrella che aveva appena aperto, chiaramente era già occupato. Di conseguenza, Belle aveva dormito nell’altro. Una sola cassettiera, una piccola scrivania e l’armadio costituivano il resto della mobilia. Tuttavia, quando aprì l’anta dell’armadio per appendere un po’ delle sue cose, lo trovò pieno zeppo dei vestiti della compagna di stanza.

    Alla bacinella nell’angolo, si lavò la faccia e sperò che la sua carnagione pallida non si trasformasse in un ammasso di lentiggini sotto l’inclemente sole birmano. Il suo aspetto interessante – gli occhi verde mare, il viso ovale e simmetrico, la bocca grande e il naso dritto – le permetteva di spiccare in mezzo alla folla e le aveva fatto comodo durante l’audizione per quel lavoro. Ancora in camicia da notte, si spazzolò i capelli, probabilmente il suo tratto distintivo migliore, e pensò a quelli di sua madre, un pochino più scuri dei suoi, anche se Belle non sapeva quanto fossero attendibili i suoi ricordi. Era passato così tanto tempo.

    Dato che la compagna di stanza era ancora assente, riaprì l’armadio, chiedendosi se i vestiti potessero fornirle qualche indizio sulla personalità della ragazza. C’era una quantità spaventosa di seta rossa e lucente, e tirò fuori un abitino succinto per ispezionarlo meglio.

    La porta si spalancò e qualcuno irruppe in camera.

    Belle si voltò e vide una ragazza bionda, né troppo alta né troppo bassa, che la stava guardando in cagnesco con le mani sui fianchi, appena oltre la soglia.

    «Ti piace, eh?», domandò.

    «Sì, è carino», rispose Belle e, decisa a non lasciarsi scoraggiare dall’atteggiamento ostile della ragazza, le rivolse un grande sorriso.

    «Carino? È incantevole, per la miseria. Ho risparmiato un mese intero per comprarlo, quindi, se non ti dispiace, preferirei che non ci mettessi le tue manacce sopra».

    Belle esitò. «Scusami. Io…».

    La ragazza socchiuse gli occhi. «Meglio mettere le cose in chiaro fin dall’inizio».

    «Sì, naturalmente. È solo che mi stavo chiedendo dove appendere la mia roba».

    La bionda adocchiò l’enorme baule di Belle. «Accidenti, ti sei portata tutta la casa là dentro?».

    Belle fece spallucce. «Era di mio padre», mormorò senza un vero motivo.

    «Rebecca», disse la ragazza, poi le tese la mano.

    Gliela strinse. «Annabelle… ma tutti mi chiamano Belle».

    «Io sono una ballerina», aggiunse Rebecca. «Siamo in quattro».

    Belle annuì e studiò con attenzione l’aspetto trasandato della ragazza: il trucco sbaffato che le incorniciava i grandi occhi azzurri, il nasino all’insù, le labbra carnose dipinte di rosso e un vestito di cotone aderente che faceva ben poco per nascondere le sue forme voluttuose.

    «Tu devi essere la nuova cantante. Spero vivamente che tu sappia cantare. L’ultima era proprio un’inetta, piangeva sempre, brutta come il peccato e pure di mano lesta. Ha preso e se n’è andata portandosi via i miei orecchini preferiti, e che cavolo».

    «Sentiva nostalgia di casa?»

    «E io che ne so? E comunque, che me ne frega? Spero che tu non sia una piagnucolona». Fece una pausa e scrutò il viso di Belle in cerca di segni di debolezza. «Prima volta lontana da casa?»

    «No. Ho vissuto a Parigi e a Londra».

    La ragazza annuì. «E da dove vieni?»

    «West Country. Cheltenham».

    «Roba da aristocratici».

    Belle sospirò. Sarebbe sempre andata così? Forse avrebbe dovuto mentire e dichiarare che veniva da Birmingham. Ci aveva lavorato per un breve periodo.

    «Hai famiglia?», chiese Rebecca.

    Lei scosse la testa.

    «Sei fortunata. Casa nostra brulica di bambini e io sono la più grande. Voglio bene a ciascuno di loro, è ovvio, ma non vedevo l’ora di andarmene».

    «Magari verranno a trovarti?».

    Rebecca rise. «È improbabile. Non abbiamo soldi. Siamo poveri in canna».

    «Ah».

    «Comunque sia, basta che non ti impicci degli affari miei. La ragazza che ti ha preceduta veniva da Solihull e si credeva superiore a tutte noi. Se c’è una cosa che non riesco a tollerare… A ogni modo, ora vorrei schiacciare un pisolino. Tu stai uscendo?»

    «In realtà speravo di disfare le valigie».

    «In realtà speravi, eh?», ripeté, scimmiottando l’accento di Belle. «Be’, d’accordo. Ma adesso dammi un paio d’ore per riposare gli occhi. Puoi farlo dopo».

    «Va bene, ma devo lavarmi e vestirmi prima di uscire».

    La ragazza si limitò a fare spallucce.

    «Ti ho aspettata in piedi», disse Belle. «Mi sembrava un tantino scortese andare a dormire senza averti conosciuta. Dove sei stata ieri notte?».

    Rebecca si picchiettò la narice. «Meno ne sai, meno è probabile che tu vada a dirlo in giro».

    «Oh, per l’amor del cielo…».

    «Quindi non sei una che fa la santarellina?».

    Belle si sentì offesa. «Certo che no».

    «Vedremo. Il bagno è qua di fronte. Ma devi sbrigarti se lo devi usare. È in comune tra tutte e cinque e l’acqua calda finisce in fretta».

    Belle rischiò di strozzarsi per la sorpresa quando, all’improvviso, una lucertola lunga una trentina di centimetri si arrampicò su per il muro e sparì dietro l’armadio emettendo uno strano verso disumano.

    Rebecca rise. «Vivono qua dentro e ti tengono sveglia la notte. Si vedono anche degli insetti, più grandi di quelli che abbiamo a casa, e qualche volta uno strano scoiattolo».

    «Dentro la stanza?».

    La ragazza si limitò a togliersi il vestito e, dopo averlo lasciato cadere sul pavimento, a infilarsi a letto soltanto con l’intimo. Neanche un istante dopo, proprio mentre Belle stava per aprire la porta e andare in bagno, Rebecca tirò su la testa.

    «Gran bei capelli, e scommetto che è naturale quel rosso», disse, poi si voltò dall’altra parte, dandole le spalle.

    Belle sorrise tra sé e sé. Forse, alla fin fine, condividere la stanza con Rebecca non sarebbe stato poi così male.

    Il giorno precedente, poco dopo il suo arrivo, il signor Fowler, sprizzando presunzione da ogni poro, le aveva fatto fare un giro dell’albergo. Dall’atrio dell’entrata trionfale con le sue pareti specchiate, i divanetti di pelle scura, i pavimenti di parquet lucido e i tavolini da caffè in vetro, l’aveva condotta nelle sfarzose sale da pranzo. Lampade con i paralumi di seta rosa pastello punteggiavano la sala e raffigurazioni della Birmania abbellivano le pareti, insieme a ritratti di compassati uomini bianchi con le loro donne ingioiellate. I tavoli erano già apparecchiati con le tovaglie di damasco lavate e stirate.

    Aveva mormorato la giusta quantità di parole ammirate per dargli soddisfazione e, in realtà, era rimasta davvero colpita, ed era più che felice di lavorare lì. Le aveva mostrato altri settori, dicendole che l’hotel era stato completamente ristrutturato nel 1927. «Certo, all’epoca io non c’ero».

    «Da quanto lavora qui?»

    «Non da molto», aveva risposto lui, accantonando la domanda e proseguendo: «Il nostro è l’albergo più comodo e moderno di Rangoon. Abbiamo persino un ufficio postale e una gioielleria I.A. Hamid & Company».

    A seguire, erano entrati in una stanza arredata con gusto che, le aveva detto, fungeva da sala colazioni, mentre nel pomeriggio veniva usata come sala da tè. Belle aveva dato un’occhiata alle sedie di vimini e alla raffinatezza dell’ambiente. Era grazioso, aveva pensato, con un’atmosfera più rilassata rispetto alla sontuosa sala da pranzo. Erano famosi per il loro tè delle cinque, aveva spiegato lui con una punta d’orgoglio nella voce.

    «A volte avanzano delle torte per il personale», aveva aggiunto con un sorriso magnanimo, neanche fosse lui in persona a elargire quei dolci avanzati.

    Poi erano arrivati alle dispense, quindi a una grande cucina dal soffitto alto che apriva su una stanza più piccola dove il personale consumava i pasti, e alla fine avevano concluso con la sala concerti dello Strand, che era stata costruita dietro l’ampliamento, con un camerino per le ragazze e un piccolo giardino sul retro.

    «Prima contavamo su orchestre, corpi di ballo e cantanti esterni. I musicisti e le artiste in loco sono un’aggiunta recente. Dobbiamo ancora vedere se può funzionare».

    «Sono soltanto gli inglesi ad alloggiare qui?».

    Fowler aveva annuito, per poi aggiungere: «Be’, e gli scozzesi. Un sacco di scozzesi».

    «E le persone che lavorano qui? Sono tutti britannici?»

    «Certo che no. Abbiamo dei ragazzi indiani in cucina e hai già visto il portiere».

    «Nessun birmano?».

    Lui aveva scrollato il capo. «Ai birmani, quelli di bassa estrazione sociale, intendo, non piace lavorare».

    «Per nessuno?»

    «Per noi».

    «Oh».

    «Ci sono parecchi birmani con un livello d’istruzione più alto negli uffici governativi».

    Lì, nell’edificio principale, le aree comuni erano straordinariamente fastose. Non appena erano tornati nell’atrio, Belle aveva indicato la passatoia di velluto della grande scalinata che conduceva ai piani superiori, ma lui aveva scosso la testa. «Camere per gli ospiti, suite e salottini privati», aveva detto. «Non hai motivo di andare lassù». E le era subito venuta una gran voglia di andare a vedere.

    Accorgendosi dell’espressione curiosa che aveva assunto, Fowler aveva aperto una porta a vento che conduceva in un corridoio buio. Una volta varcata la soglia, le aveva preso la mano destra e le aveva poggiato l’altra sulla spalla sinistra. Belle si era divincolata dalla sua stretta mentre lui cercava di spingerla indietro. «A volte capita che una ragazza fortunata abbia la possibilità di vedere una stanza libera di tanto in tanto, sai, tra l’arrivo di un ospite e l’altro, se capisci cosa intendo. Signorina Hatton, sarai una di quelle ragazze fortunate?».

    Belle aveva fatto un passo indietro per allontanarsi da lui. «Ne dubito, signor Fowler».

    Lui aveva inclinato la testa e socchiuso leggermente gli occhi prima di dire: «Be’, questo è da vedere, non pensi?».

    Non era preoccupata. C’erano stati uomini come lui in passato.

    A quel punto, con tutta la giornata libera che, a quanto pareva, le era stata data per avere la possibilità di ambientarsi e, in generale, di orientarsi prima di una prova impegnativa fissata per l’indomani, decise di esplorare la città. Quando uscì dall’albergo, rivolse un cenno del capo al portiere con il turbante e sbatté le palpebre a causa della nube di polvere che le fece bruciare gli occhi. Superò la sede di uno spedizioniere, seguita da un vistoso ufficio postale rosso, ma poi cambiò idea, si rigirò e si incamminò nella direzione opposta.

    Inspirò l’aria pesante, piena di misteriose fragranze orientali. Chissà cosa può avere un profumo così intenso, si chiese. Poi si fermò ad ascoltare le campane del tempio che risuonavano da ogni direzione. Per strada, la moltitudine di risciò, biciclette, automobili e pedoni la costringeva a scansarsi frequentemente. A giudicare dalle tante lingue diverse che udiva – tra le quali sia l’hindustani che il birmano, e naturalmente l’inglese – la città doveva essere popolata da una grande varietà di razze. Gli indiani sembravano indaffarati ed energici, i cinesi ansiosi di vendere le loro mercanzie, ma erano i birmani ad affascinarla. Gli uomini fumavano sigari spuntati e giravano la testa al suo passaggio, mentre le donne, vestite con abiti di seta rosa immacolata, erano minute e belle come bambole. Portavano i capelli raccolti in una stretta crocchia, con un fiore appuntato da un lato, ma rimase sorpresa nel vedere che si impiastricciavano il viso con uno spesso strato di unguento giallognolo. Estasiata dalla dolcezza dei sorrisi che le rivolgevano, ricambiava a sua volta. Era affascinata dal fatto che sia gli uomini che le donne indossassero gonne e casacche corte – aveva già scoperto che la gonna era chiamata longyi – anche se la versione femminile era più drappeggiata sui fianchi. Notò anche che quasi tutti gli uomini indossavano dei turbanti rosa, mentre le donne portavano spesso uno scialle di seta trasparente attorno alle spalle.

    Più avanti, un leggero odore di acque di scolo si confondeva con i caratteristici profumi speziati che provenivano dalle varie bancarelle e dai chioschi dei commercianti. Belle si fermò a un incrocio e sentì il rumore delle ruote rinforzate dei gharri trainati dai cavalli – che non erano altro che antiquati palanchini su ruote da prendere a nolo – e si meravigliò di come passato e presente coesistessero su quelle strade. Subito dopo, svoltò a sinistra in Merchant Street.

    Lungo Strand Road e oltre, la presenza di edifici britannici dominava la città, ma Belle desiderava qualcosa di più entusiasmante rispetto a quei monumenti al colonialismo. Girò a destra e oltrepassò lo sfarzoso palazzo dell’Alta Corte di Giustizia, dove credeva avesse lavorato suo padre, poi girò di nuovo e, restando senza fiato, scorse ciò che cercava. Quella doveva essere la cosiddetta pagoda Sule, più piccola della pagoda Shwedagon che aveva visto dalla nave. Lieta di essersi imbattuta in quella piccola apparizione dorata e lucente nel pieno centro di Rangoon, circondata dall’andirivieni e dai rumori delle attività quotidiane, si fermò a guardare. Il portiere dell’albergo le aveva detto che aveva 2.200 anni e che era sempre stata il cuore pulsante della vita sociale della città.

    Mentre la rimirava, l’oro brillava e scintillava allettante, ma, frastornata dal caldo torrido, Belle dovette distogliere lo sguardo. Non si era ricordata di prendere un cappello o un parasole e, quando le mosche presero a ronzarle attorno al viso, le scacciò e cercò un posto dove bere qualcosa. I chioschetti del tè che fiancheggiavano le strade non sembravano troppo invitanti, quindi dove poteva andare? Guardò di nuovo in giro e vide Gloria uscire da Rowe & Co., un grande magazzino rosso e crema con una torretta angolare, balconcini stondati all’ultimo piano e finestre riccamente lavorate. Belle la chiamò agitando una mano.

    3

    Diana, Cheltenham, 1921

    Alla fine, ho ricevuto una lettera da Simone. Sono talmente felice che potrei mettermi a ballare in mezzo alla stanza. Penso ai suoi dolci occhi ambrati, ai capelli biondo chiaro e alla pelle color pesca; e ricordo, anche, che ci siamo divertite come pazze. La moglie del mio medico nonché mia migliore amica in Birmania, anche se mi comunica notizie tristi – è ovvio che lo siano, dal momento che suo marito Roger è morto – dice che tornerà a vivere in Inghilterra. Da qualche parte nell’Oxfordshire, che non è tanto lontano. Corro da basso, prendo le forbici da giardinaggio e un canestro dal piccolo vestibolo sul retro della casa e faccio un salto fuori, sollevando un attimo il viso – amo sentire il sole sulla pelle – prima di tagliare qualche rosa per la sala da pranzo.

    Rievoco la brillantezza dei fiori in Birmania e la mia vita laggiù, la mia vita! Piena di emozioni e risate. I cocktail, le cene e quelle sfarzose feste in giardino che andavano avanti per tutta la notte. La pura gioia di un abito di seta parigina che mi sfiorava la pelle, e il mio caro marito che mi stringeva talmente forte da farmi sentire la regina del mondo. Poi, dopo aver bevuto troppo champagne, osservavamo le lanterne rosa e arancioni fluttuare nell’aria mentre il cielo diventava indaco poco prima dell’alba.

    Ma, oh, il giardino, con i suoi fiori profumati e le enormi fronde degli alberi, dove le scimmie si dondolavano dai rami. Vederle faceva ridere entrambi, vicini e stretti in un abbraccio, giovani – be’, io lo ero – e così tanto innamorati. E il

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