Il poeta in affari veniva da molto lontano: Romanzo, sèguito di Disperato erotico fox
Di Bruno Osimo
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Sia il titolo del romanzo, sia i titoli dei 60 capitoletti, sono tratti dalla canzone di De Gregori.
Arturo, che nel romanzo precedente avevamo visto alle prese con un indesiderato divorzio e col conseguente trasferimento da Genova a un paesino del Levante, in questo romanzo, ormai stabile nella sua nuova sistemazione, riceve un invito di lavoro e deve partire per la Romagna. Contemporaneamente, assiste all'abbandono di un cane, che lui adotterà col nome di Lupogrigio, come nelle fiabe russe.
La trasferta in Romagna lo distoglierà dalla sua routine quasi perfetta sulle colline del Levante...
Per i capitoli sono stati usati esclusivamente numeri primi: per questo il sessantesimo capitolo porta il numero 277.
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Anteprima del libro
Il poeta in affari veniva da molto lontano - Bruno Osimo
Bruno Osimo
Il poeta in affari veniva da molto lontano
Toccante con fuga
Romanzo, sèguito di Disperato erotico fox
copyright © Bruno Osimo 2020
Bruno Osimo è un autore/traduttore che si autopubblica
La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing
ISBN 9788898467563 per l’edizione cartacea
ISBN 9788898467426 per l’edizione elettronica
Contatti dell’autore-editore-traduttore: osimo@trad.it
Il poeta in affari veniva da molto lontano
2. Proprio dove la strada si divide
«Gentile Professor Sacerdoti,
abbiamo avuto il suo nominativo da una nostra allieva, Teresa Traverso, che frequenta qui presso l’Università di Berlino l’Istituto di italianistica come collaboratrice part time. Come ogni anno nella prima metà di settembre a Cervia organizziamo un corso di scrittura e traduzione poetica. Stavamo cercando un docente per un laboratorio di versificazione, e la signorina Traverso ci ha raccontato delle sue interessanti lezioni su canzone e poesia, davvero eccentriche per la didattica liceale e certamente in linea con quello che interessa a noi.
«Facciamo parte del circuito di istituti educativi Madre Miriam da I’rushalàyim, e a Cervia abbiamo una scuola di specializzazione in scrittura poetica creativa...»
Arturo è in bagno mentre legge questa lettera, e arrivato a questo punto riprende in mano la busta e guarda la carta intestata: una corona con sette gigli sorretta da una bacchetta e da due esse simmetriche, di color bronzo. Anche sulla bacchetta è una esse, che fa assomigliare il tutto al simbolo del dollaro.
Ad Arturo sembra impossibile che Teresa, fino all’altroieri la bambina che lo interrompe mentre lui sta lavando le tazze del tè, che appanna il vetro della finestra e circola in infradito da brivido in mezzo ai rovi, ora possa fungere, ancorché casualmente, addirittura da tramite per un lavoro. Quanto tempo è passato da quando preparava la maturità e si sganasciava dalle risate quando le dicevo che tra canzone e poesia non c’è differenza? Sembrano pochi mesi… Dopo la separazione – o forse è semplicemente l’età? – la concezione del tempo si è molto appiattita.
Arturo si lava, si asciuga bene le mani per non inumidire la busta (che è scritta con inchiostro stilografico – e la porta di là riprendendo a bere il suo tè. Questa offerta di lavoro gli dà un’agitazione viscerale: se già a Genova davanti alla sua classe spesso è intimidito e non si sente all’altezza, figuriamoci in un istituto specialistico di livello universitario. Sente il cuore che gli batte più forte del solito – gli sembra di sentirne il rumore – e un’accelerazione del metabolismo, sudore alle ascelle e sulle mani.
L’ansia lo soffoca, ha bisogno d’aria.
La lettera nella mano destra, la busta vuota nella sinistra, si ritrova a camminare nel prato in salita verso le rovine della chiesa di San Satiro. Mentre incede sul prato, cerca di evitare di pestare i fiori, anche se è impossibile, perché è pieno. Evita le violette, sia quelle viola che quelle bianche, e per il resto fa quello che può: l’erba d’altra parte poggia su uno strato soffice e compatto e, quando Arturo ritrae il piede dopo ogni passo, la superficie calpestata rimbalza elastica verso l’alto come se fosse un materasso ad acqua di tartan molliccio.
Ha la mente occupata da un continuo concatenarsi di pensieri, da Cervia rimbalza ai Servitori di Miriam da I’rushalàyim, dai Servitori di Miriam da I’rushalàyim al liceo di Genova, dal liceo di Genova a Emma, da Emma a Teresa, da Teresa alla nonna, dalla nonna all’orario dei treni. La sua agitazione però non è del tutto una sofferenza, è più ambivalente: se da un lato è spaventatissimo e gli viene voglia di rifugiarsi nella routine che faticosamente sta riuscendo – mai abbastanza per lui – a ricrearsi dopo la separazione, dall’altro il fatto che qualcuno lo chiami a insegnare qualcosa che ha attinenza con la poesia – un’attività che finora ha sempre considerato privata – e con il mondo universitario gli dà quella sensazione di farfalle nella pancia che ha indubbi aspetti solleticanti.
Quindi la poesia l’ha sempre considerata privata? E allora come mai l’ha inserita nelle lezioni che faceva a Teresa? Evidentemente – si accorge adesso – Teresa l’ha sùbito percepita come proveniente dal mondo di Emma, e il mondo di Emma è sùbito stato per lui qualcosa di appartenente alla sua sfera intima. O forse Arturo non riesce a porre limiti precisi tra la sua figura professionale di insegnante e la sua figura umana? Ci sono tracimazioni reciproche tra le due istanze? Forse.
Questo stato d’animo di concentrazione e in un certo senso di discorso autosufficiente è bruscamente interrotto dal colpo di una portiera che sbatte e da una sgommata, che sembrano provenire da dietro l’orizzonte, oltre le rovine, dove passa la provinciale, rumori secchi che lasciano il posto a un guaito prolungato e a uno scalpiccìo forzato. Arturo si mette a camminare di lena e in quattro balzi – col fiatone – arriva alle rovine da dove vede, legato al tronco gigantesco del corbezzolo che ombreggia l’ex sagrato, un cane grigio dal pelo lungo che tira verso la strada tendendo la corda a cui è legato dal collo e rischiando di strozzarsi. Evidentemente sta tirando nella direzione verso cui è partita l’automobile che ha sgommato, e meno male che l’hanno legato se no si sarebbe messo a rincorrerla.
Arturo già s’immagina questo lupo grigio che corre sulla strada delle automobili al galoppo restando indietro rispetto alla velocità dell’automobile che lo ha scaricato e che riesce a non farsi investire prima da un camion, poi da un ape, ma poi viene travolto da un’automobile... lo strazio successivo Arturo lo pensa con un brivido nella spina dorsale che gli produce una scossettina discendente, come un terremoto che lo costringe, al termine, a fare come una piccola involontaria sculettata.
Arturo si avvicina con cautela, chinandosi e chiamando «Lupogrigio... Lupogrigio...» e protendendo la mano col palmo verso l’alto, come per comunicare «vengo in pace». Lupogrigio distoglie per un attimo lo sguardo dalla macchina-che-non-c’è-più e lancia un’occhiatina ad Arturo, senza considerarlo molto, come se in lui vedesse un proprio cospecifico, un altro abbandònico abbandonato – e quindi poco interessante –, e poi riprende a fissare lo spazio di vuoto emotivo e fisico dietro la curva.
Arturo lo accarezza sulla schiena con la destra, cercando di allentare la trazione della corda sul collo inserisce la sinistra tra collo e corda, poi comincia a palpeggiargli il collo alla ricerca di un microchip, che non sente. Finalmente, con cautela slega il nodo intorno al corbezzolo gigante cresciuto ad albero, con le foglie leggermente scosse dai tiramenti di Lupogrigio, e si passa la corda precauzionalmente tre o quattro volte intorno alla mano, dicendo:
«Andiamo, Lupogrigio!»
Arturo s’incammina verso la casa di Emma, e il cane lo segue poco convinto, continuando a girare il muso verso la curva della perdita, però lo segue, senza mai fermarsi però ad annusare né a fare pipì, come se si sentisse non un libero cane a passeggio, ma un prigioniero in traduzione.
Emma esce in cortile e va incontro ad Arturo, visibilmente scosso, che ha la corda in una mano e un foglio quasi accartocciato nell’altra.
«Cosa succede?»
«Hanno abbandonato questo cane legandolo al corbezzolo della chiesa. Ho sentito un rumore di automobile che si allontanava in fretta, sono andato a vedere e c’era lui...»
«Ha l’aria intelligente».
«Bisogna vedere se ha il microchip...»
«Cos’è?»
«È una cosa obbligatoria per i padroni dei cani: per evitare abbandoni e smarrimenti, bisogna fargli mettere sottopelle un piccolo circuito elettronico contenente le informazioni di base sui proprietari, che si può leggere dall’esterno».
«Ah non sapevo. Qui la gente che ha i cani mica lo fa. E come si legge, o cìp?»
«Bisogna portarlo dal veterinario».
«Portiamolo dalla dottoressa Salamini, è quella dove porto le gatte per farle sterilizzare. Andiamo sùbito però, che dopo c’ho da fare».
Mentre sono sulla panda, con Lupogrigio che si barcamena nel bagagliaio a ogni scossone per non finire col muso contro il vetro, Emma chiede ad Arturo cos’è quella lettera accartocciata che tiene ancora in mano. Arturo sembra riaversi da un’assenza, si guarda la mano e appoggia foglio e busta sulle gambe lisciandoli come se le sue mani fossero ferri da stiro.
«Quando ho trovato Lupogrigio, ero uscito sul prato distrattamente mentre stavo leggendo questa lettera, volevo venire da te per leggertela e chiederti un consiglio, ma chissà perché, chissà trascinato da quale forza, mi ero messo a camminare verso est anziché verso nord. E così mi sono ritrovato in cima alla collina che dà su San Satiro e ho visto Lupogrigio. Mi offrono un lavoro in Romagna, ma io penso di rifiutare...»
Meglio sùbito incanalare – con questa aggiunta finale – il discorso su questa offerta verso un ipotetico ma pronto rifiuto, anche per far capire a Emma che non ha nessuna intenzione di farsene abbandonare, che è disposto a resistere a qualsiasi lusinga nel campo della carriera pur di conservare ciò che ha sul piano delle relazioni.
Lupogrigio – a giudicare dal suo comportamento nel bagagliaio – sembra abituato ai viaggi in auto – anche se forse in uno spazio più confortevole della dura realtà pàndica – perché si dimostra relativamente tranquillo.
«Chiedere un consiglio a me, ma io cosa vuoi che ci capisca delle tue faccende di lavoro… Dopo