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Cavalli di razza
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E-book207 pagine2 ore

Cavalli di razza

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Info su questo ebook

Cavalli di razza: 'Bere un bicchiere d'acqua': cosa c'è di più facile e naturale? Eppure un ciclista entra in un bar, chiede un bicchiere d'acqua e... muore. Come in un congegnato effetto domino cadono altre persone, nient'altro che pedine mosse da un potere invisibile.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2019
ISBN9788830616516
Cavalli di razza

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    Anteprima del libro

    Cavalli di razza - Alessandro Damiano

    Capitolo 1

    Estate 2003

    Sabrina prese la pezza gialla dal bancone situato di fronte all’ingresso della Caffetteria Merliani, aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua regolandone la miscelazione del getto per poter bagnare le mani senza scottarsi, né congelarsi.

    Si voltò ed iniziò a pulire la superficie di marmo bianco del bancone, appena sgombrata dalle coppette mezze vuote di snacks salati per gli aperitivi e panna per il caffè.

    Fece una prima passata, poi si girò nuovamente verso il rubinetto di acciaio inox per risciacquare la pezza, si specchiò, per controllare che i capelli ricci castano scuro non si fossero spettinati dall’ultimo controllo. Ripeté quei gesti un paio di volte. Malgrado fosse una calda mattina d’estate, lo specchio le restituiva sempre la stessa immagine ordinata, contornata dai bagliori dovuti al riflesso dei raggi solari, quel giorno particolarmente luminosi, tanto da fornire, anche al seminterrato in cui era il bar più luce del solito.

    Seguì il suo rituale mattutino con grande precisione e, solo quando ripose la pezza, si accorse della presenza del ragazzo vestito da ciclista nella caffetteria. Era un bel ragazzo. Alto, con un fisico asciutto di chi fa spesso sport e non soltanto per mostrarne i risultati. I capelli ondulati di media lunghezza e gli occhi chiari. Aveva l’aria provata, ma sorridente. Si avvicinò al bancone, situato di fronte alle scale dell’entrata, le sorrise e le chiese un bicchiere d’acqua.

    Sabrina rispose al sorriso e prese un bicchiere di vetro dal ripiano sotto al bancone dove, dopo averli lavati, li aveva lasciati Antonella, la ragazza con la quale si alternava nella caffetteria ed alla quale era toccato il turno della sera precedente.

    Riempì il bicchiere d’acqua e lo appoggiò sul ripiano che la divideva dal cliente, mostrandogli nuovamente i propri bianchissimi denti.

    Un bel sorriso per un bel ragazzo…

    Il silenzio del ragazzo la scoraggiò e Sabrina rimandò quel pensiero nel posto da cui era uscito.

    Eppure stamattina Venere era in Sagittario…

    L’uomo bevve con una incredibile foga, probabilmente dovuta alla fatica del giro in bici e dal caldo, ma Sabrina vi scorse qualcosa di sinistro. L’uomo posò il bicchiere sul bancone, con un’espressione molto diversa da quella che aveva entrando nella caffetteria. Chiese di bere ancora. Per quanto possibile, bevve ancora più velocemente di prima. L’acqua gli scorse dagli angoli della bocca e finì sulla maglietta. Posò di nuovo il bicchiere sul ripiano di marmo e, con un gesto scoordinato della mano, invitò Sabrina a versare altra acqua.

    Sabrina, notato il cambiamento di espressione sul viso dell’uomo, sentì crescere il senso di inquietudine. Cercò con lo sguardo qualcuno nella caffetteria che stesse notando la scena e che potesse tranquillizzarla e solo allora si rese conto che, oltre ai clienti, mancava anche il proprietario, che di solito era alla cassa.

    Sabrina versò ancora acqua nel bicchiere dell’uomo. Questi la bevve, ma una grande quantità gliene finì addosso. Senza proferire parola, il ragazzo, lo sguardo perso nel vuoto, con un cenno se possibile più scoordinato del precedente, ringraziò Sabrina e la salutò, lasciandola con una sensazione di sollievo.

    Il ciclista percorse claudicante il tragitto verso l’uscita, ma Sabrina, che non vedeva l’ora di tirarsi fuori da quella situazione imbarazzante, non se ne avvide. L’uomo salì a fatica i tre gradini che dividevano la saletta dalla porta d’ingresso ed uscì. Fece alcuni passi verso la sua bicicletta, ma non riuscì a raggiungerla. La sua respirazione divenne faticosa e rumorosa. Si portò la mano destra al petto, nel vano tentativo di aiutarsi a prendere aria. Un passante gli si avvicinò e gli chiese qualcosa che il ciclista non comprese, ma senza ottenere alcuna risposta. Quando vide il volto del ciclista, si rese immediatamente conto di cosa stesse per accadere e provò a parlargli di nuovo, per stimolarne una reazione qualsiasi, ma, proprio in quell’istante, l’uomo si accasciò al suolo senza vita.

    Capitolo 2

    Primavera 1644

    Gregorio l’allevatore, giunto alla meta della sua passeggiata, esitò qualche istante prima di attraversare la pesante porta di legno della farmacia. Poi, con un discreto sforzo, la spinse e si trovò davanti alla giovane figlia del proprietario. La ragazza era in piedi, dietro al bancone di legno levigato, tinteggiato con la stessa tonalità di marrone della porta e di tutti gli inserti dello stesso materiale di quella bottega.

    «Buongiorno signorina».

    La ragazza rispose con un sorriso. Gregorio si aggiustò i capelli radi e scoloriti con un gesto istintivo.

    «Signorina, c’è suo padre?»

    «È andato a casa di un paziente e tornerà fra...»

    La frase della ragazza fu interrotta proprio dall’ingresso di suo padre, che riconobbe immediatamente l’uomo vicino al bancone.

    Lo aveva incontrato alcune sere prima. L’orario di chiusura delle botteghe, quando ormai le strade sono completamente deserte, favorisce quegli incontri che la luce del giorno renderebbe molto più arditi. Gregorio era entrato con una richiesta ben precisa, la cui risposta attendeva di essere svelata nel laboratorio retrostante il negozio.

    «Buongiorno!»

    Lo salutò, fingendo la solita disinvoltura e Gregorio si voltò nella sua direzione con lo sguardo di chi, malgrado stia tentando di nasconderlo, è in grande trepidazione.

    «Buongiorno a lei, dottore! Ha novità per me?» chiese ostentando una calma che non aveva.

    «Certamente signore, venga nel retrobottega e le darò la medicina per il mal di schiena che mi aveva richiesto. Ho terminato di prepararla proprio stamattina.»

    Superarono insieme il bancone e varcarono la porta che divideva il negozio dal laboratorio in cui venivano preparate le medicine.

    «Pensa tu ai pazienti!» ordinò il farmacista alla figlia. Poi sparì insieme a Gregorio.

    La figlia aveva nuovamente usato il sorriso come risposta. Non di cortesia, ma di tenerezza. Suo padre era solito chiamare pazienti quelli che, per lei, non erano altro che clienti, lo faceva sentire più un medico, che un commerciante. Sua figlia non glielo aveva mai fatto notare, neanche per gioco. Suo padre era un uomo buono, che metteva il suo sapere a disposizione delle persone, con una passione non comune. Non vi era nulla di male in quella piccola dose di vanità.

    Il farmacista e Gregorio l’allevatore si ritrovarono in una stanza ampia, arredata con mobili vecchi ma funzionali, probabilmente appartenenti al precedente arredo della casa del farmacista. La credenza, accostata alla parete opposta alla porta d’ingresso della stanza, era piena di ampolle e brik, strumenti di un mestiere che quell’uomo praticava da trent’anni e che stava provando ad insegnare a sua figlia, malgrado il suo scarso interesse.

    Il farmacista si avvicinò alla credenza, aprì un cassetto e ne tirò fuori una piccola boccetta di vetro, contenente un liquido trasparente che, a qualsiasi occhio distratto, sarebbe sembrata acqua.

    L’aprì, l’annusò e la porse al cliente.

    «Guardi ed annusi! Nessun colore e nessun odore!»

    Il temporaneo moto d’orgoglio del farmacista si spense al sopraggiungere del senso di colpa.

    «Siamo sicuri che funzionerà?»

    «Potrei giocarmi le mie abili mani! Dopo sarà libero di fare della sua vita quel che riterrà più opportuno. In ogni caso, se non dovesse andare tutto come previsto, potrà tornare e le darò io personalmente il denaro necessario per andare via da Napoli. Ho un amico a Mantova che…»

    Gregorio lo interruppe con un gesto della mano, più per non dover pensare a cosa sarebbe accaduto in caso di fallimento del suo piano, che per la fretta di andare via.

    «La ringrazio. A proposito, dottore, per il compenso…»

    Il proprietario della farmacia impedì all’uomo di proseguire oltre.

    «Per le medicine sperimentali non prendo compensi e questa, in un certo senso, lo è.»

    Sapere a cosa le servirà, sarà sufficiente per non dormire per i prossimi tre anni. No, non prenderò soldi da lei!

    Il farmacista temette di aver pensato ad alta voce, per qualche istante, finché Gregorio non parlò nuovamente.

    «Come potrò sdebitarmi?»

    «Per esempio non dicendo in giro che gliel’ho fornita io. Se si spargesse la voce, la farmacia si riempirebbe di clienti insistenti con il suo stesso desiderio. Adesso venga.»

    I due percorsero a ritroso la strada tra il negozio ed il laboratorio e Gregorio si ritrovò nuovamente davanti alla grande porta di noce. Il farmacista salutò l’uomo, del quale sperò di non sapere più nulla.

    «Grazie ancora e a presto, anche se con un lavoro come il mio, non è la frase più felice da usare!»

    Cercò di sdrammatizzare ma, tra di loro, calò di nuovo il silenzio. Il suo animo da uomo di scienza riemerse per un attimo e fu sul punto di spiegare bene gli effetti del preparato, ma si trattenne. Si limitò a sorridere ed ascoltare la voce di Gregorio, oramai di spalle.

    «Grazie dottore.»

    Quando Gregorio fu fuori dal negozio, la figlia del farmacista pose al padre la domanda che aveva in mente fin dal momento in cui quell’uomo, così timoroso, si era presentato in bottega.

    «Papà, cosa ti aveva chiesto quel paziente?»

    «Solo una semplice medicina per il mal di schiena. È entrato nessuno, nel frattempo?»

    «No.»

    Rispose la ragazza delusa.

    «Chi era?»

    «Quello è Gregorio l’allevatore

    «Lo dici come se fosse l’unico. Qui è pieno di allevatori.»

    «Un tempo i suoi cavalli erano i più veloci in assoluto. Poi si è dovuto arrendere alla dura realtà del fatto che la passione non paga i debiti.»

    Capitolo 3

    Estate 2011

    Sono seduto su uno scoglio a guardare il mare freddo e poco ospitale di Buncrana, nella Repubblica d’Irlanda.

    Questa cittadina di mare della costa occidentale di Inishowen, piena di tradizioni culturali locali ed immense spiagge dorate, è molto diversa da quelle italiane. Qui le spiagge non sono attrezzate, non ci sono campi da calcio saponato o da beach volley, perché nessuno verrebbe mai qui in costume e scarpe infradito. Qui fa freddo, anche se siamo in piena estate.

    Alle mie spalle c’è la caffetteria dalla quale sono appena uscito per prendere un po’ d’aria. Sul tavolo vicino alla finestra, di fronte al mare, dove ero seduto, ho inciso le mie iniziali, quelle della donna che ho amato di più al mondo e la data di oggi. Poi sono uscito.

    Il mio viaggio è iniziato con quella incisione. Non ho ancora ben chiara la ragione per cui l’ho intrapreso, né so cosa stia davvero cercando. L’unica cosa sicura è l’itinerario da seguire e che ho solamente un mese di tempo per farlo. Sono da solo. Ho scelto di partire ad agosto perché sapere che altri milioni di persone, in questo periodo, sono in vacanza, mi aiuta a sentirmi meno strano.

    Sono atterrato ieri sera a Dublino e stamattina, quasi all’alba, ho preso un treno destinato alla stazione centrale della cittadina dal nome impronunciabile più vicina a questo posto.

    Ho noleggiato un’auto con la quale ho raggiunto questa spiaggia. In un primo momento avevo pensato di atterrare a Londra, soggiornarvi un paio di giorni e poi venire a Buncrana, ma ho sentito di dover fare così. Quando venni qui la prima volta, la mia ragazza mi convinse a non passare per la capitale del Regno Unito. Farlo adesso mi sarebbe sembrato come approfittare della sua assenza.

    Avrai molte occasioni per andare a Londra, ma a Buncrana potresti non andarci mai più.

    La sua faccia da furbetta annientò ogni mia capacità di reazione e decisi di accontentarla. Il tempo si è preso la libertà anche di smentirla, perché oggi sono qui per la seconda volta.

    Guardo questo cielo lievemente velato attraverso il quale il sole a malapena rende tiepida l’aria di questo posto austero e mi sorprendo di essere davvero tornato qui. La prima volta mi chiesi come mai avessimo scelto di andare in un posto di mare dove non sarebbe stato possibile bagnarsi in agosto. Non per noi del sud Europa, almeno.

    Fisso ancora per qualche istante quell’acqua gelida, pensando che stavolta sarà davvero l’ultima. Rientro nella caffetteria per recuperare le mie cose, mi risiedo per qualche istante ed osservo, compiaciuto, la mia opera di intarsio.

    Sono sicuro che nessuno mi abbia notato mentre la eseguivo perché nella caffetteria, dall’aspetto decisamente poco inglese, ci sono solamente altre due persone, una signora attempata che sorseggia il suo thè e non distoglie lo sguardo da Vanity Fair ed il proprietario, completamente immerso in The Sun, come un sub intento a fare snorkeling.

    Mi alzo e, solo allora, quest’ultimo distoglie lo sguardo dal quotidiano che regge tra le mani. Mi osserva per un istante ed ho l’impressione che stia pensando che sto andando via senza passare per la cassa. Infilo la mano in tasca e ne estraggo lo scontrino. Quando glielo mostro, lui mi guarda con un’espressione di stupore. Di solito i clienti, da queste parti, pagano dopo aver consumato, non prima: sono troppo abituato alle caffetterie italiane.

    Sorrido e mi avvio verso l’auto, una Lancia Delta nera, che ho parcheggiato non lontano.

    Domani mattina passerò per Londra. Voglio fare un giro in centro, prima di prendere il volo per la Croazia.

    Capitolo 4

    Inverno 1982

    Matteo si svegliò sudato e stremato da una notte piacevolmente intensa.

    Di fianco a lui, lo splendido corpo nudo di Maria, abbandonato al sonno, faceva bella mostra di sé.

    La sera precedente, Matteo era uscito dalla sala convegni del Marriott Hotel di Buenos Aires stanco ed annoiato dalla maratona di diapositive che gli esperti ambientali sul trattamento dei rifiuti industriali avevano lungamente e verbosamente descritto. Il casuale incontro con Maria aveva costituito un’ottima alternativa ad una fiacca serata davanti ai programmi prime time della televisione nazionale argentina.

    Una volta entrato nel bar dell’albergo, situato di fronte alla sala convegni, chiedere un Martini gli era sembrata la cosa più stravagante da fare.

    Maria, nascosta dal suo sorriso bianchissimo, messo in risalto dalla pelle olivastra del volto, aveva risposto che non lo aveva.

    «Un Southern Comfort?»

    «Purtroppo neanche questo, signore.»

    «Allora un Jack Daniels?»

    «Mi dispiace, signore, non abbiamo molti alcoolici qui.»

    Matteo, accertata la ridotta disponibilità dell’hotel, si era arreso

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