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Non dirmi che è solo un gioco
Non dirmi che è solo un gioco
Non dirmi che è solo un gioco
E-book187 pagine2 ore

Non dirmi che è solo un gioco

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Info su questo ebook

Sedici anni di calcio, di tifo e di vita.
La crescita personale, le emozioni e ti travagli di un bambino che attraversa l’infanzia e l’adolescenza fino a ritrovarsi uomo; accompagnato in tutti quegli anni da una passione travolgente: la Juventus.
Urla, risa, abbracci… Pianti di gioia e dolore…
Un amore che accompagna Mikael dal giorno della sua Prima Comunione: era il 5 maggio 2002.
LinguaItaliano
Data di uscita27 apr 2020
ISBN9788835814801
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    Anteprima del libro

    Non dirmi che è solo un gioco - Simone Nasso

    gioco

    1 - Un giorno speciale

    Tutto iniziò così, nel giorno della mia Prima Comunione.

    Mia madre mi stava premurosamente sistemando il saio bianco, mentre ansiosa richiamava i miei fratelli all’ordine.

    «Henry, Sarah, sbrigatevi che fra dieci minuti si parte!»

    Papà era già andato a tirar fuori la macchina dal garage e, con la serenità che lo contraddistingueva, stava attendendo il nostro arrivo.

    «Stefania, riesci a stare calma almeno oggi che è un giorno di festa?» disse mio padre non appena ci vide aprire la portiera.

    «Certo Gaetano, tu fai sempre tutto facile. D’altronde è mezz’ora che sei qui a non fare nulla come sempre» replicò duramente la mia mamma. «Io mi sveglio tutte le mattine alle 6, mi preparo in fretta e furia e porto i ragazzi a scuola. Sto in ufficio fino alle 16 e torno a casa a fare le pulizie, preparo la cena per quattro persone, cinque giorni su sette, da quasi vent’anni a questa parte. Io sono stufa, Gaetano!»

    «Guarda che in questa casa non lavori mica solo tu» rispose papà, con un tono così tranquillo da far innervosire ancor di più la mamma. «Tu finisci di lavorare alle 16? Io alle 18. Non vedo dove siano tutte queste differenze tra me e te.»

    «Davvero non le vedi? O forse mi stai solo prendendo per il culo? Tu, tutti i santi giorni, arrivi a casa e ti butti sul divano e fino al mattino dopo non fai più nulla. Tranne che mangiare e lamentarti in continuazione del tuo lavoro.»

    Avrete già capito che non siamo proprio la famiglia del Mulino Bianco, ma d’altronde, chi può dire veramente di esserlo? In tutto ciò, io, mio fratello e mia sorella eravamo seduti sui sedili posteriori dell’auto e, ormai abituati a vivere certe scene, parlavamo tra di noi come se niente fosse. Entrambi continuavano a rivolgermi domande, utili a comprendere il mio stato d’animo di quel giorno e, nonostante mio fratello Henry avesse 21 anni e mia sorella Sarah 18, in quel preciso momento sembravano due bambini.

    «Allora Mikael, come ti senti? Sei emozionato?» iniziò Sarah.

    «Cerca di non inciamparti all’altare» proseguì Henry con la solita ironia che lo caratterizzava.

    Non è che me ne freghi così tanto, pensai tra me e me. Proprio perché non eravamo mai stati una famiglia particolarmente religiosa, il catechismo mi era sempre apparso come un semplice obbligo imposto dai miei genitori. Nulla di più.

    «Mi sento bene» risposi. «Mi dispiace tantissimo, però, che non ci sia Adriano.»

    «Dispiace tanto anche a me, ma in cucina non poteva proprio sostituirlo nessuno. La domenica, nei ristoranti, è davvero un casino» replicò mia sorella, giustificando l’assenza del suo fidanzato.

    Tra le discussioni dei miei genitori e le nostre conversazioni, arrivammo finalmente a destinazione. La cerimonia si sarebbe svolta in una bellissima Chiesa nella periferia di Torino, città nella quale abbiamo sempre vissuto. Dopo un attimo di perlustrazione, per vedere se qualche parente fosse ancora fuori ad aspettarci, decidemmo di entrare.

    «Guarda, lì c’è zia Tina, e lì zio Alfredo» esclamai entusiasta verso mia mamma, che aveva di nuovo il volto sereno e pieno di gioia.

    «Papà, guarda lo zio Carlo come è agitato. Non riesce nemmeno a star fermo al suo posto, ma che cos’ha?»

    «Mi sa che è nervoso per oggi pomeriggio, Mikael» rispose mio padre, senza aggiungere altro.

    A dirla tutta, anche mio fratello non mi sembrava la persona più tranquilla del mondo, e pure altri parenti dei miei amici apparivano nella sua stessa situazione, ma la cerimonia stava per cominciare e, di conseguenza, non mi sembrava proprio il caso di indagare sulle motivazioni di quel nervosismo generale, ma era chiaro che c’era qualcosa che li preoccupava.

    Che belli che siamo, tutti col saio bianco e la collanina con la croce di legno, tutti uguali , pensai guardando i miei compagni di catechismo. «Il prete aveva proprio ragione», bisbigliai nell’orecchio di Gianluca, il bambino seduto vicino a me. «Anche quel ricco sfondato di Giuseppe, ora è come tutti noi. Sono due mesi che si vanta della maglia firmata comprata per il giorno della Comunione e oggi non ha potuto metterla. Ben gli sta» continuai, pur senza ricevere risposta.

    Gli lanciai una gomitata. «Ma mi stai ascoltando o sto parlando da solo?»

    «Sì, Mikael, ma ho paura che le suore mi sgridino», rispose finalmente il mio amico.

    «Niente da fare, sei sempre il solito fifone.»

    La cerimonia religiosa era appena finita, avevamo abbastanza tempo a disposizione per raggiungere il ristorante in centro. Nulla ci impedì di vivere con estrema calma i consueti rituali successivi alla cerimonia, caratterizzati da continue foto e da baci di parenti visti, nel migliore dei casi, due o tre volte nella propria vita.

    Nonostante ciò, quella sensazione di ansia generalizzata, già intravista durante l’ingresso in Chiesa, stava progressivamente aumentando: vedevo mio fratello e mio zio, un po’ in disparte, discutere tra loro gesticolando come indemoniati. Avrei voluto raggiungerli per comprendere il motivo di tutto quel fermento ma non riuscivo a liberarmi dall’abbraccio di mia zia, una morsa che sembrava soffocarmi anche a causa di quel caratteristico profumo dolciastro che mi permeava le narici, quasi anestetizzandole.

    Quel giorno era il 5 maggio 2002.

    2 - L’inizio di tutto

    Se non siete appassionati di calcio, probabilmente questa data non vi dirà nulla e l’unica cosa che vi affiorerà alla mente è l’ode di Alessandro Manzoni, scritta in occasione della morte di Napoleone Bonaparte.

    Mio zio Carlo, senza ombra di dubbio uno dei più agitati tra tutti i presenti, dopo aver letto sul mio volto una normale preoccupazione per il clima teso che si stava venendo a creare, finalmente riuscì ad avvicinarsi e, con un atteggiamento da telecronista sportivo mi spiegò ciò che sarebbe accaduto alle 15 di quel pomeriggio.

    All’ultima giornata di campionato ben tre squadre avevano ancora la possibilità di vincere lo scudetto: l’Inter (69 punti), la Juventus (68 punti) e la Roma (67 punti).

    I nerazzurri, dopo anni di inutili spese folli, avevano finalmente in mano il proprio destino e in quel fatidico giorno del giudizio erano ospiti della Lazio, la quale si presentava a quella sfida decisiva senza ambizioni e soprattutto priva di numerosi titolari. Come se non bastasse, i tifosi bianco-celesti in caso di vittoria della propria squadra avrebbero rischiato, seppur con percentuali non molto elevate, di vedere nuovamente i cugini romanisti festeggiare il tricolore. Un rischio che nessun laziale voleva correre. In virtù di tutto ciò, la società di Massimo Moratti era pronta a giocare la partita della vita in uno Stadio Olimpico a tinte nerazzurre.

    La Juventus di Marcello Lippi, seconda in classifica era invece impegnata nella trasferta di Udine, con la consapevolezza che purtroppo il proprio destino sarebbe stato in mani altrui. Nonostante altre società considerassero prestigioso un eventuale secondo posto, alla Juventus vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.

    Ecco perché l’umore tra i tifosi non era dei migliori.

    La situazione più drammatica prima di quegli ultimi novanta minuti che avrebbero messo la parola fine alla stagione 2001/2002, era quella vissuta dalla Roma di Fabio Capello la quale, per mantenere il tricolore sulla propria maglia, avrebbe non solo dovuto battere il Torino allo stadio Delle Alpi, ma anche sperare una doppia vittoria casalinga di Lazio e Udinese. In aggiunta a tutto ciò, un eventuale terzo posto, per qualsiasi squadra, avrebbe significato il mancato accesso diretto alla fase a gironi di Champions League.

    Nella mia famiglia, sono praticamente tutti juventini. Mio nonno mi diceva sempre che, al nostro primo antenato, avevano dipinto il cuore di bianco e nero e che, quella passione, si era così tramandata di generazione in generazione.

    «Che figata, zio! Un motivo in più per festeggiare» dissi io, non essendo un esperto di calcio e non avendo pienamente compreso quanto fosse improbabile che la squadra di famiglia vincesse quel campionato.

    «Ah, l’ottimismo dei bambini» rispose mio zio, guardandomi con gli occhi di chi, più che a una Prima Comunione, sembrava stesse andando a un funerale. «Questo è l’anno dell’Inter, nipotino mio. Non ti immagini nemmeno quanto mi dispiaccia che la tua festa verrà ricordata come una giornata storica per i nerazzurri.»

    Non capivo. Perché tutto questo pessimismo? Perché era così scontato il finale di quel campionato?

    Vedendomi ancora così perplesso, mio zio si avvicinò nuovamente a me e, dimostrando di possedere una pazienza quasi illimitata, stilò una dettagliata lista di motivazioni per le quali, quel giorno, lo scudetto sarebbe inevitabilmente finito sulle maglie dei giocatori dell’Inter.

    Il mio entusiasmo si spense in un attimo.

    Ma che sfiga, pensai. Da quanto mi aveva raccontato mio zio, questi non vincevano un campionato da decenni ma, a causa di un beffardo destino, erano pronti a rovinare la mia Prima Comunione. Ancora un ultimo dubbio, però, mi affliggeva.

    «Zio! Zio!» urlai correndo verso di lui, che aveva appena abbandonato la conversazione, per avvicinarsi alla sua auto «Ma se il destino del campionato è già deciso, come mai siete tutti così agitati?»

    Si abbassò per guardarmi negli occhi, mi mise una mano sulla spalla e disse: «Passione e speranza. Non perderle mai, caro.» Sorrise.

    Saliti in macchina mio fratello Henry tirò fuori a sorpresa dal taschino della giacca una piccola sciarpa della Juventus, da lui considerata un vero e proprio portafortuna. Mio padre, invece, pur essendo juventino, non era un gran praticante; ma in fondo lui era così un po’ in tutto: si professava cristiano ma non andava mai a messa, diceva di voler mandare tutti i politici a casa ma poi non andava a votare, si definiva tifoso della Juventus ma non era mai informato sull’andamento delle partite. Il classico italiano medio che vuole parlare di tutto, non conoscendo quasi nulla.

    Nel pur breve tragitto che divideva la Chiesa dal ristorante, non si parlò d’altro. Mia madre a quel punto si preoccupò poiché la quasi certa vittoria dell’Inter avrebbe rovinato una festa che si era impegnata a preparare nei minimi dettagli da mesi.

    Quando arrivammo al ristorante una brutta sorpresa fece letteralmente raggelare il sangue a una buona parte degli invitati: non c’era nessun televisore. Negli occhi dei tifosi più accaniti si poteva facilmente leggere sconforto, tristezza e, in alcuni, anche un pizzico di rabbia.

    «Lo sapevo che avrei dovuto starmene a casa» disse un amico di famiglia. «Io non ci volevo nemmeno venire», proseguì un mio cugino. «Sto prete che ha messo le comunioni proprio oggi sarà sicuramente del Toro», aggiunse, in maniera ironica (forse nemmeno troppo), uno dei miei zii più anziani.

    C’era un’unica soluzione a questo dramma sportivo che si stava lentamente consumando: la cara e vecchia radio che, da qualche anno, era stata progressivamente accantonata e superata dai nuovi contratti stipulati tra la Lega Calcio e le varie televisioni a pagamento.

    Non mi ero mai interessato al calcio prima di allora ma quella giornata era diversa: era come se, per osmosi, avessi attratto su di me la passione e i sentimenti di chi mi stava attorno, di coloro che aspettavano l’arrivo delle 15 come un bambino aspetta l’arrivo della prima neve stagionale.

    Dopo tanta attesa, ansia, preoccupazione e un’infinità di emozioni totalmente contrastanti, il fatidico momento era finalmente arrivato. Io, mio fratello, alcuni zii e i miei tre cugini ci alzammo da tavola e, con passo veloce, ci indirizzammo verso il parcheggio esterno del ristorante. Per prima cosa, due miei zii avvicinarono le loro rispettive macchine, in modo tale da poter seguire insieme la trasmissione radiofonica Tutto il calcio minuto per minuto.

    Non ricordo quasi cosa mangiammo quella domenica al ristorante, ma non ho dimenticato una parola di quell’incredibile radiocronaca.

    «Gentili ascoltatori, buon pomeriggio dallo studio centrale di Saxa Rubra. Ultima giornata del campionato di Serie A. Novanta minuti di attesa ed emozioni. Da Roma, per Lazio-Inter, Riccardo Cucchi e Bruno Gentili. Da Udine, per Udinese-Juventus, Livio Forma e Giuseppe Bisantis. Da Torino, per Torino-Roma, Giulio Delfino e Mauro Carafa.» Con queste parole, Alfredo Provenzali dava ufficialmente il via a quell’ultima giornata di campionato, teoricamente dal finale già scritto.

    Questa sensazione negativa venne immediatamente confermata dall’inviato presente a Roma: «Né Juve, Né Roma. Inter campione. Questo è lo striscione che campeggia in Curva Nord pseudo laziale.»

    Tutto era così clamorosamente assurdo. Persino i tifosi laziali avevano dato vita a un vero e proprio gemellaggio con quelli nerazzurri. Solo novanta minuti separavano l’Inter dalla conquista di quello scudetto, che appariva come una vera e propria formalità.

    Le partite, però, erano cominciate e, nonostante tutto, nei nostri occhi si poteva ancora facilmente vedere una sana e indissolubile speranza. D’altronde, ripensandoci, lo stesso Sigmund Freud affermava che nulla può la ragione, contro la passione.

    Dopo solo novanta secondi dall’inizio del match di Udine, la Juventus trova il vantaggio grazie a una perfetta incornata di Trezeguet, sulla quale nulla può il portiere avversario. La nostra esultanza fu gioiosa ma, allo stesso tempo, contenuta: faceva un certo effetto essere già al comando della classifica dopo così poco tempo dal fischio d’inizio.

    Nove minuti dopo, la Vecchia Signora trova il raddoppio, grazie a un perfetto diagonale di Del Piero. Una rete che sembra già chiudere il match. Ora sapevamo che, questa partita, a meno di clamorosi ribaltoni, poteva essere tranquillamente archiviata e che, da quel momento, ci saremmo dovuti concentrare principalmente su ciò che stava accadendo a Roma. C’erano, infatti, ancora ottanta minuti che ci separavano da quel sogno che, fino a qualche ora prima, sembrava quasi utopia.

    Anche i cronisti di Radio Rai la

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