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Arancione
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E-book273 pagine2 ore

Arancione

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Davide è sempre stato un calcolatore apparentemente cinico, in realtà affetto da Sindrome di Asperger.

Luca, suo fratello gemello, è invece tanto sensibile quanto nervoso... e normodotato.

I genitori non si erano mai resi conto che il figlio più fragile non era quello cui davano più attenzioni.

Avevano tolto i pericoli.

Tolto gli ostacoli.

Involontariamente avevano tolto Luca.

La vita dei due gemelli scorre parallela in due città vicine e distanti, divisa da un confine silenzioso, quello che Luca decide di recintare per sopravvivere.

Solo la vita, la vita di una donna, avrebbe costretto i due fratelli a riconfrontarsi.

La vita di una donna, Laura... Incinta di uno dei due.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2020
ISBN9788831667630
Arancione

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    Anteprima del libro

    Arancione - Marco Perino

    Da­vi­de

    - Fra il Lilla e il Viola -

    Pri­ma che il se­no fac­cia ma­le, pri­ma di mal di te­sta e nau­sea e ci­clo che non ar­ri­va e...

    Una don­na lo sa.

    Sa quel­lo che un uo­mo non po­trà mai ca­pi­re!

    Ma­le­det­ti uo­mi­ni!

    Com­pra il te­st al su­per­mer­ca­to.

    Al­li­nea­ti sul­lo scaf­fa­le ce ne so­no di di­ver­se mar­che e prez­zi.

    Quel­lo con in co­per­ti­na un bel pan­cio­ne, in­dos­sa­to da una mam­ma di al­me­no trent’an­ni con un sor­ri­so sma­glian­te?

    Scar­ta­to!

    Non c’è pro­prio nien­te da ri­de­re.

    Pren­de in ma­no una con­fe­zio­ne che è lì nel mez­zo a far­si i ca­vo­li suoi, una fo­to del co­so bian­co e blu che avreb­be avu­to in ma­no e fra le gam­be do­po l’ac­qui­sto.

    Da­van­ti un sem­pli­ce ‘te­st di gra­vi­dan­za ra­pi­do’, e die­tro po­che ri­ghe:

    ‘ri­le­va la pre­sen­za di go­na­do­tro­pi­na co­rio­ni­ca uma­na (hCG), che com­pa­re nell’uri­na già all’ini­zio del­la gra­vi­dan­za’.

    Co­se che ave­va già let­to quan­do fre­quen­ta­va Fa­bio, e un ri­tar­do ave­va fat­to pre­sa­gi­re il peg­gio.

    Ri­ma­ne­re gra­vi­da di un trom­ba­mi­co non era il mas­si­mo, ma for­tu­na­ta­men­te il ri­tar­do ri­sul­tò es­se­re sem­pli­ce­men­te ta­le.

    Fa­bio non l’avreb­be più vi­sta... e non gliel’avreb­be più vi­sta!

    En­tra in ca­sa, to­glie la giac­ca ve­lo­ce­men­te, sfi­la la con­fe­zio­ne del co­so bian­co e blu dal­la bor­set­ta.

    Apre il ter­zo cas­set­to e pren­de un ba­rat­to­li­no di ve­tro vuo­to, quel­lo che una vol­ta con­te­ne­va zaf­fe­ra­no.

    Do­po po­chi se­con­di è se­du­ta in ba­gno.

    Leg­ge bre­ve­men­te le istru­zio­ni.

    Svi­ta il tap­po al ba­rat­to­li­no e lo riem­pie di so­stan­za gial­lo­gno­la.

    Non ri­cor­da nem­me­no va­ga­men­te la pol­ve­re che con­te­ne­va in ori­gi­ne.

    Im­mer­ge l’ora­co­lo bian­co e blu nel li­qui­do cal­do.

    Un pen­sie­ro va­go e lon­ta­no: la se­con­da me­dia.

    Le­zio­ne di ar­ti­sti­ca. Me­sco­la­re blu e gial­lo per ot­te­ne­re il ver­de.

    Nes­sun ver­de da os­ser­va­re qui, ora, nel ces­so.

    Una li­nea ver­ti­ca­le, fra il lil­la e il vio­la, com­pa­re su­bi­to.

    Se fos­se so­lo una vor­reb­be di­re che... No.

    Ec­co­la l’al­tra, sot­ti­le, più chia­ra, che qua­si ha ver­go­gna a far­si ve­de­re, pa­ral­le­la e ine­so­ra­bi­le.

    L’ora­co­lo ha par­la­to.

    Ma­le­det­ti uo­mi­ni!

    - Vibrazioni -

    L’aria è cal­da e friz­zan­te al­lo stes­so tem­po.

    Im­per­cet­ti­bi­li pe­li lo rag­giun­go­no sul vi­so, e il lo­ro leg­ge­ro ac­ca­rez­za­re ri­sve­glia ri­cor­di sbia­di­ti di ta­ras­sa­co, il fio­re più dif­fu­so del­la pri­ma­ve­ra.

    Il fio­re gial­lo che per ma­gia del­la na­tu­ra di­ven­ta un pap­po, un ciuf­fo di pe­li bian­chi, da sof­fia­re ad­dos­so ai bam­bi­ni nel­le pri­me gior­na­te do­ve si gio­ca all’aper­to.

    Il fio­re gial­lo che lo avreb­be fat­to star­nu­ti­re sen­za in­ter­ru­zio­ne.

    Ap­pe­na sce­so dal­la mac­chi­na i suoi sen­si re­gi­stra­no il pro­fu­mo di er­ba ta­glia­ta.

    Il pro­fu­mo fre­sco e ver­de cer­ca pe­rò di di­ri­ger­si al pa­la­to, e poi al­la go­la; se ini­zia a star­nu­ti­re non la smet­te più e al­lo­ra ad­dio con­cen­tra­zio­ne, ma so­prat­tut­to, ad­dio con­trol­lo to­ta­le.

    In spal­la la sac­ca con il suo pre­zio­sis­si­mo ca­ri­co: l’ar­co da tren­ta­cin­que lib­bre con i suoi sei pro­iet­ti­li dal­le pen­ne aran­cio­ni, il pa­ra­brac­cio e l’im­man­ca­bi­le pa­ra­di­ta in cuo­io; non sa­reb­be tor­na­to a ca­sa per una ba­na­lis­si­ma al­ler­gia.

    Ave­va già in­dos­sa­to un buon an­ti­sta­mi­ni­co pri­ma di tra­va­sa­re il caf­fè dal­la mo­ka da due al­la sua taz­za pre­fe­ri­ta, vi­zio a cui per nul­la al mon­do avreb­be ri­nun­cia­to.

    L'ef­fet­to si sa­reb­be fat­to sen­ti­re in tren­ta mi­nu­ti, il tem­po del caf­fè e del suc­co mo­no­do­se al­la pe­ra pre­so con la can­nuc­cia, e il tem­po che ri­ma­ne­va nell’at­te­sa del ta­xi, che sa­reb­be pas­sa­to a pren­der­lo a bre­ve in piaz­za Duo­mo, a un quar­to d’ora di cam­mi­no.

    Il suo ap­par­ta­men­to, al se­con­do pia­no, in un cor­ti­le in­ter­no di via Bel­let­ti Bo­na, era in pie­no cen­tro di quel­lo che era sem­pre sta­to il suo mon­do, Biel­la, ma al­lo stes­so tem­po era suf­fi­cien­te­men­te lon­ta­no dal­le stra­de traf­fi­ca­te de­gli ora­ri di pun­ta.

    La po­si­zio­ne del­la via gli per­met­te­va pas­seg­gia­te so­li­ta­rie vi­ci­no a via Ita­lia, la via pe­do­na­le, sen­za mai per­cor­rer­la ve­ra­men­te.

    Non ama­va pas­seg­gia­re in mez­zo al­la gen­te.

    Non ama­va in­con­tra­re co­no­scen­ti, es­se­re sa­lu­ta­to e do­ver sa­lu­ta­re.

    Pre­fe­ri­va ar­ri­va­re al Duo­mo pas­san­do da piaz­za I Mag­gio, vi­ci­no al tea­tro So­cia­le.

    Per­cor­re­va poi la bre­ve via de la Sal­le sbu­can­do in via San Fi­lip­po, do­ve svol­ta­va a de­stra nel­la par­te stret­ta di via dei Se­mi­na­ri.

    La stra­da si ri­sol­ve­va nel­la piaz­za do­ve si sa­reb­be se­du­to ad aspet­ta­re la mac­chi­na.

    La aspet­ta­va se­du­to sem­pre al­la so­li­ta pan­chi­na, quel­la al­la si­ni­stra ri­spet­to all’in­gres­so del se­mi­na­rio.

    Se era oc­cu­pa­ta sta­va in pie­di lì di fian­co, fi­no ai so­li­ti due col­pi di clac­son di Mau­ri­zio, che mai si sa­reb­be per­mes­so di chia­ma­re ta­xi­sta... era Mau­ri­zio.

    Gior­no in­so­li­to per ar­ri­va­re al­la strut­tu­ra del Ce­das, die­tro al gran­de sta­bi­li­men­to Lan­cia di Ver­ro­ne. Lo si ca­pi­va dal po­steg­gio pie­no di mac­chi­ne.

    Di so­li­to il sa­ba­to era pra­ti­ca­men­te vuo­to, ma og­gi, mar­te­dì ven­ti­quat­tro Apri­le, era uno di quei gior­ni che fa­ce­va da spar­tiac­que nei cen­tri com­mer­cia­li fra chi si go­de­va un pon­te e chi no, ed evi­den­te­men­te qui c’era­no mol­ti chi no.

    La mac­chi­na po­steg­gia fra il cir­co­lo sul­la de­stra e i cam­pi da ten­nis sul­la si­ni­stra.

    Da­vi­de scen­de e si po­si­zio­na a fis­sa­re il ba­ga­glia­io in un mo­do edu­ca­to e im­pa­zien­te che all’ini­zio met­te­va a di­sa­gio Mau­ri­zio;

    il suo im­pa­ra­re in fret­ta sen­za fa­re do­man­de, il con­vi­ve­re di­scre­to con i ge­sti in­con­sue­ti di que­sto fi­da­to clien­te, gli ave­va ga­ran­ti­to l’ap­pal­to.

    Una vol­ta sca­ri­ca­ta la mac­chi­na non oc­cor­re­va al­tro.

    Sa­pe­va a che ora do­ve­va tor­na­re a pren­der­lo.

    Sa­pe­va che il più del­le vol­te non l’avreb­be né sa­lu­ta­to né rin­gra­zia­to, ma pa­ga­to re­go­lar­men­te... sem­pre.

    Do­po aver at­tra­ver­sa­to il pra­to che co­steg­gia ten­nis e cal­cet­to, Da­vi­de rag­giun­ge il ten­do­ne bian­co, sot­to cui im­pe­ra il lun­go ta­vo­lo per la pre­pa­ra­zio­ne dell’at­trez­za­tu­ra.

    Ci so­no an­che gli al­tri.

    Il mae­stro, si­gno­ri, si­gno­re, ra­gaz­zi, ra­gaz­ze, e qual­cu­no di nuo­vo, co­me sem­pre.

    Il mae­stro è buo­no. Ama que­sta di­sci­pli­na e ama far­la pro­va­re per la pri­ma vol­ta a chi vi si vuo­le av­vi­ci­na­re con cu­rio­si­tà.

    Il mae­stro è buo­no. Sa che si sa­reb­be mes­so nel la­to cor­to del ta­vo­lo, a de­stra, da so­lo. Sa che nien­te e nes­su­no lo avreb­be di­strat­to, e sa che nien­te e nes­su­no do­ve­va pro­va­re a di­strar­lo.

    Il mae­stro è buo­no. Non lo ha mai man­da­to a cor­re­re e a ti­ra­re cal­ci al­la pal­la nel cam­pet­to vi­ci­no per sca­ri­car­si.

    Ave­va già ca­pi­to che, co­me il ti­ro con l’ar­co, an­che lui, Da­vi­de era im­plo­si­vo e non esplo­si­vo.

    Lo ave­va im­pa­ra­to nel cor­so de­gli ul­ti­mi cin­que an­ni.

    Il mae­stro è buo­no. Vuo­le be­ne a que­sto ar­cie­re che ar­ri­va da so­lo, sta da so­lo, e ha sem­pre il cap­pel­lo da pe­sca­to­re ver­de scu­ro, re­ga­la­to dal pa­dre, ca­la­to in te­sta.

    In cin­que an­ni lo ave­va vi­sto pas­sa­re dall’ar­co scuo­la al suo mo­del­lo da ses­san­tot­to pol­li­ci col mi­ri­no ros­so.

    In cin­que an­ni lo ave­va vi­sto pas­sa­re, ma in fon­do, mai ri­ma­ne­re.

    Lui era lì, da so­lo, con il suo ar­co.

    Gran­di ru­mo­ri di pic­co­li ae­rei, ri­sol­ve­va­no de­col­li e at­ter­rag­gi nel pic­co­lo ae­ro­por­to di Cer­rio­ne, al­la si­ni­stra ri­spet­to al­la stri­scia ri­gi­da bian­ca, sul pra­to:

    la li­nea di ti­ro.

    Si po­si­zio­na­no tut­ti per qual­che ti­ro di pro­va.

    Tut­ti ver­so il ber­sa­glio di ven­ti­cin­que me­tri al­la de­stra.

    A una de­ci­na di me­tri, da so­lo, Da­vi­de ti­ra a quel­lo di si­ni­stra.

    Ti­ra so­lo a quel­lo di si­ni­stra. Lo san­no. Non si la­men­ta nes­su­no.

    Tre frec­ce per vol­ta.

    Po­si­zio­na i pie­di a no­van­ta gra­di ri­spet­to al­la di­re­zio­ne del ber­sa­glio, che non cer­ca né con lo sguar­do né col cor­po. E’ con­cen­tra­to sul­la po­si­zio­ne, sul con­trol­lo, sull’ese­gui­re cor­ret­ta­men­te tut­to quan­to ha im­pa­ra­to dal mae­stro, pa­ro­la per pa­ro­la, le­zio­ne do­po le­zio­ne, ri­pe­ten­do sen­za mai an­no­iar­si i mo­vi­men­ti.

    In­coc­ca la pri­ma frec­cia, e fi­nal­men­te sol­le­va l’esten­sio­ne del suo brac­cio si­ni­stro, l’ar­co, e gi­ra len­ta­men­te a si­ni­stra per mi­ra­re...

    ‘Sol­tan­to il ca­po.

    La stra­da per ar­ri­va­re al ber­sa­glio è so­lo ret­ti­li­nea, e que­sta stra­da sa­rà con­di­zio­na­ta dal­la spin­ta, dal­la tra­zio­ne e dal ri­la­scio...’

    Da­vi­de non sen­te tut­te le frec­ce già ar­ri­va­te a ber­sa­glio al­la sua de­stra. Non sen­te il vo­cia­re de­gli al­tri ar­cie­ri.

    Da­vi­de non sen­te che la sua te­sta, e il ri­cor­do del­la vo­ce del mae­stro, con la stes­sa in­fles­sio­ne del pri­mo gior­no, con la stes­sa pun­teg­gia­tu­ra

    ‘...se fai un la­vo­ro ben fat­to di an­co­rag­gio...’

    ruo­ta leg­ger­men­te l’avam­brac­cio si­ni­stro spin­gen­do con fer­mez­za il suo ar­co...

    ‘...nel mo­men­to del­la tra­zio­ne ai fi­ni del­la mi­ra...’

    in­di­ce me­dio e anu­la­re del­la ma­no de­stra si ag­gan­cia­no al­la cor­da

    ‘...la ma­no de­ve sta­re mor­bi­da, è la pun­ta del­le di­ta che de­ve es­se­re ri­gi­da...se ti­ri con l’in­di­ce la frec­cia va al­ta, con l’anu­la­re va bas­sa’

    ti­ra la cor­da

    ‘...se vuoi far cen­tro de­vi fa­re un ge­sto tec­ni­co per­fet­to, nel­le spal­le, nei mu­sco­li, nel re­spi­ro...’

    le spal­le so­no al­li­nea­te, la cor­da è al­li­nea­ta al na­so, al men­to, all’oc­chio che mi­ra

    ‘...al ri­la­scio de­vi ave­re un con­trol­lo to­ta­le, al­tri­men­ti la frec­cia va do­ve vuo­le...’

    con­trol­lo to­ta­le

    ‘...quan­do scat­ta il clic­ker bi­so­gna mol­la­re...scat­ta quan­do si è ar­ri­va­ti all’al­lun­go, in set­te o ot­to se­con­di al mas­si­mo e…’

    con­tem­po­ra­nea­men­te le tre di­ta ri­la­scia­no la ten­sio­ne del­la cor­da

    ‘...quan­do la frec­cia par­te il brac­cio si­ni­stro de­ve ri­ma­ne­re im­mo­bi­le, men­tre il de­stro se ne va in­die­tro per­ché non ha più nul­la da trat­te­ne­re... a quel pun­to...

    ...ac­ca­rez­za­ti la guan­cia quan­do ri­la­sci!’

    Pro­prio co­me al­lo­ra, con suo pa­dre.

    An­da­va­no in stra­de de­ser­te, in ora­ri da sie­sta.

    Fi­ne­stri­no giù, e vai... se­con­da, ter­za, sor­ri­si e quar­ta.

    «Vai pia­no. Stai an­dan­do be­ne».

    Non ce la fa­ce­va a non met­ter­la, la quin­ta... e su­bi­to quel ru­mo­re, ag­gres­si­vo, av­vi­sa­glie di un mo­to­re con de­sti­no rot­ta­ma­zio­ne…

    «Da­vi­de, la fri­zio­ne, va la­scia­ta do­po aver cam­bia­to, non pri­ma!»

    … e quel­la ca­rez­za, sul­la guan­cia, pro­prio co­me al­lo­ra.

    ‘...e dal­le vi­bra­zio­ni sul brac­cio, a quel pun­to uno sen­te se ha fat­to l’azio­ne pu­li­ta op­pu­re no; se ac­cen­tua­ta c’è sta­to un er­ro­re nel ri­la­scio...’

    La frec­cia nei pri­mi ot­to, die­ci me­tri si as­se­sta, va via co­me un ser­pen­te.

    Poi un ru­mo­re sor­do...

    ...e non c'è più. Non c'è più nul­la.

    Non c’è più un pol­li­ne che pos­sa far­lo star­nu­ti­re.

    Non c’è più un fio­re gial­lo che di­ven­ta pe­lo bian­co che sia tra­spor­ta­to da al­cun ven­to.

    Con­trol­lo.

    Nes­su­na vi­bra­zio­ne ac­cen­tua­ta.

    Da­vi­de non os­ser­va il ber­sa­glio do­po aver ti­ra­to la pri­ma frec­cia.

    Non guar­da do­ve ha ti­ra­to.

    Os­ser­va la po­si­zio­ne del suo cor­po, le sue sen­sa­zio­ni, ascol­ta i suoi mu­sco­li, il suo re­spi­ro.

    In­coc­ca la se­con­da e poi la ter­za frec­cia.

    Spin­ta, tra­zio­ne, ri­la­scio.

    ‘...ac­ca­rez­za­ti la guan­cia quan­do ri­la­sci...’

    Ap­pog­gia l’ar­co nel ca­val­let­to, e si di­ri­ge ver­so il ber­sa­glio per ri­pren­der­si le frec­ce, le sue tre frec­ce, igna­ro che in mez­zo al vo­cia­re al­la sua de­stra il mae­stro lo os­ser­va­va, e ave­va os­ser­va­to le tre frec­ce con­fic­car­si nel­la zo­na gial­la del ber­sa­glio.

    Non ave­va più in­si­sti­to, nes­su­na ga­ra per Da­vi­de, non ne vo­le­va sa­pe­re e non ave­va mai ca­pi­to per­ché, ma quei gial­li in par­te, in pic­co­lis­si­ma par­te, era­no an­che me­ri­to suo.

    Da­vi­de ri­ma­ne sem­pre e so­lo per tre ore, e non im­por­ta quan­te vol­te ti­re­rà.

    Non ti­ra mai tut­te e sei le frec­ce del­la sua fa­re­tra. Sem­pre e so­lo tre.

    Pri­ma di tor­na­re a Biel­la si con­ce­de sem­pre la me­ren­da con gli al­tri ar­cie­ri; l’uni­co pic­co­lo ri­tua­le di grup­po a cui non si è ne­ga­to.

    Con un tor­cet­to in ma­no, se­du­to da­van­ti al ten­do­ne, sen­te due vi­bra­zio­ni in ra­pi­da suc­ces­sio­ne; que­sta vol­ta non c’en­tra­no nul­la con l’ar­co.

    Estrae dal­la ta­sca dei pan­ta­lo­ni il suo smart­pho­ne.

    Lo sbloc­ca.

    So­no le di­cias­set­te e do­di­ci.

    Scor­re ve­lo­ce­men­te la se­con­da pa­gi­na di quat­tro.

    Ve­de un pic­co­lo 2 in ros­so so­pra un’ico­na ver­de e bian­ca.

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    LAU­RA 11.42

    Ho bi­so­gno di par­lar­ti

    LU­CA 11.44

    Mi ha scrit­to Lau­ra. Co­me fai a...

    Ad­dio con­trol­lo to­ta­le.

    - Una Volta Forse -

    Lu­ca fa una leg­ge­ra pres­sio­ne ver­so il bas­so, sfi­la il gan­cio di si­cu­rez­za e os­ser­va il por­tel­lo­ne nu­me­ro tre ar­ro­to­lar­si ver­so l’al­to apren­do la vi­sta all’ester­no.

    Un cie­lo gri­gio a per­di­ta d’oc­chio si sta­glia ap­pe­na fuo­ri dal por­tel­lo­ne, lon­ta­no dai con­tor­ni ben de­li­mi­ta­ti da stri­sce gial­le del ma­gaz­zi­no.

    Un leg­ge­ro sen­so di li­ber­tà ar­ri­va ai pol­mo­ni che ini­zia­no a in­spi­ra­re... nien­te.

    Gli oc­chi han­no il­lu­so il cer­vel­lo.

    E’ sol­tan­to un al­tro mu­ro, una tren­ti­na di me­tri ol­tre, che de­li­mi­ta il con­fi­ne fra il pe­ri­me­tro del­lo sta­bi­le e la zo­na di tran­si­to dei ca­mion.

    Av­vi­ci­na il trans­pal­let.

    Non ha fret­ta.

    Da­van­ti a lui, fra il fin­to cie­lo gri­gio e il ban­ca­le di le­gno col­mo di car­to­ne, il com­pat­ta­to­re.

    Uno di quei mac­chi­na­ri che

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