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Le grandi religioni
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E-book388 pagine5 ore

Le grandi religioni

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Info su questo ebook

Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo

Introduzione di Giovanni Filoramo

Traduzioni di Franco Paris e Lucio Angelini

«Le pagine della storia del mondo sono tutte lordate dai sanguinosi racconti delle guerre di religione. Solo con la purezza e le buone azioni dei seguaci si può difendere la religione, mai con la contrapposizione a chi professa altre fedi». Con questo messaggio di pace e di rivolta contro la guerra e l’oppressione, Gandhi approcciò lo studio delle grandi religioni, ricorrendo all’idea della non-violenza come obbligatorio passe-partout per trovare una sottesa unità tra un credo e l’altro. Le lettere, gli articoli apparsi su diversi giornali e riviste, i discorsi pubblici e gli scritti vari di Gandhi raccolti in questo volume disegnano un quadro completo e di estrema chiarezza del pensiero del Mahatma sulla religione e propongono le più salienti riflessioni del profeta della non-violenza riguardanti le principali fedi religiose e le strade da percorrere per giungere finalmente al dialogo fra i popoli.

«Il mondo, e perciò anche noi, non può fare a meno dell’insegnamento di Gesù più di quanto non possa rinunciare a quello di Maometto e delle Upanishad. Considero tali dottrine complementari tra loro, nessuna valida in modo esclusivo. Il loro significato reale, la loro interdipendenza e interrelazione devono esserci ancora rivelati. Non siamo che mediocri rappresentanti delle nostre rispettive fedi, cui contravveniamo più spesso di quanto non crediamo.»

Mohandas K. Gandhi

nacque a Porpandar, in India, nel 1869. Dal 1893 fino al 1914 visse in Sudafrica, dove lottò per i diritti civili della comunità indiana, sperimentando quei metodi non-violenti che lo avrebbero reso celebre in tutto il mondo. Tornato in India, lanciò la grande campagna di disobbedienza civile contro le autorità inglesi che, dopo oltre venticinque anni, portò il Paese all’indipendenza. Il Mahatma (Grande anima) morì nel 1948, vittima di un fanatico indù. Oltre a La mia vita per libertà e a Il mio credo, il mio pensiero in volumi singoli, e il volume unico Il potere della non-violenza, di Gandhi la Newton Compton ha pubblicato anche Le grandi religioni. Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2012
ISBN9788854143968
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    Anteprima del libro

    Le grandi religioni - Mohandas Karamchand Gandhi

    397

    Titolo originale: Hinduism, traduzione dall’inglese di Franco Paris;

    Buddhism and Theosophy, Christianity, M.R.A. and Islam,

    traduzione dall’inglese di Lucio Angelini

    Prime edizione ebook: ottobre 2012

    © 2009 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4396-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Mohandas Karamchand Gandhi

    Le grandi religioni

    Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo

    Introduzione di Giovanni Filoramo

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione

    1. Influenze religiose

    Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948), conosciuto per essere stato un leader politico e un riformatore sociale, ma soprattutto la guida del movimento nazionalistico indiano negli anni decisivi tra le due guerre e un campione delle tecniche di non violenza (ahimsa), è stato anche, in realtà, un innovatore e riformatore religioso, che agì consapevolmente per la crescita di un induismo riformato e liberale, in linea con quei movimenti di riforma dell’induismo sorti a partire dall’Ottocento sotto l’influsso, ma anche in reazione al confronto con le spinte modernizzanti indotte dal confronto con l’Occidente.

    Gandhi era nato a Portbandar, città situata nella penisola di Kathiawar, nell’ìndia occidentale, un’area tradizionalmente pluralistica dal punto di vista religioso. Il padre, Karamchand, che apparteneva alla casta dei vaisya – la terza nel tradizionale e rigido sistema indiano, dopo quella dei brahmini o sacerdoti e dei kashatryas o guerrieri – e precisamente alla sottocasta dei modh bania o mercanti, era aperto e tollerante e, come la madre, un devoto della religione vaishnava incentrata intorno al culto di Krishna, anche se non era propriamente osservante; a differenza della madre, Putalibai, una seguace di un culto popolare, dedicato a Pranami, fondato nel XVIII secolo da Mehraj Thakore e influenzato dall’islam. Questo culto rigettava ogni immagine di Dio e, come il movimento che si richiamava al famoso santo indù del XV secolo Narshi Metha, proveniente dalla medesima regione, aspirava a una unione diretta col divino, senza mediazioni rituali o sacerdotali. Questa forma protestante di induismo divenne col tempo tipica della rilettura che Gandhi compì della tradizione induista, rivelandosi una, se non la componente fondamentale del suo atteggiamento religioso e della sua posizione nei confronti delle altre religioni.

    Come egli stesso ricorda nella sua autobiografia¹, la casa del padre era anche frequentata da jaina e musulmani: l’amico dell’infanzia più caro di Gandhi, Methab, era un musulmano, mentre il suo mentore spirituale, Raychandbhai, era un jaina; rientravano in queste conoscenze anche i parsi, una comunità zoroastriana da lungo presente in India. I primi contatti col cristianesimo, non particolarmente positivi, furono con evangelisti missionari. Gandhi scorgeva in loro una ingiustificata superiorità e un altrettanto ingiustificato tentativo di voler sradicare le tradizioni religiose induiste. Soltanto col tempo, attraverso sia la lettura del Nuovo Testamento sia la conoscenza di cristiani devoti più aperti e tolleranti, la sua posizione cambierà.

    Quando Gandhi, all’età di 19 anni, andò a Londra per studiare legge, entrò in contatto con dei teosofisti, e cioè con un movimento esoterico cristiano, la teosofia, che doveva recitare una parte non secondaria nella sua formazione religiosa. Essi gli fecero conoscere la Gita, che divenne il suo testo religioso di riferimento; più in generale, in linea con il ruolo di rinnovamento delle tradizioni religiose induiste e buddiste che la Società teosofica svolse, essi lo spinsero a conoscere più approfonditamente l’induismo, ma anche il buddismo (che Gandhi, insieme al giainismo, considerò come facente parte dell’induismo e non una religione a sé stante). Sempre a Londra, frequentando ristoranti vegetariani dove ebbe occasione di conoscere, oltre ad alcuni teosofisti, anche dei socialisti fabiani e dei cristiani visionari legati a tradizioni esoteriche – un mixing comune nell’Inghilterra vittoriana dell’epoca -, Gandhi iniziò quelle pratiche vegetariane sempre più radicali a cui, col tempo, cercò un fondamento religioso, legandolo all’ahimsa e al satyagraha come ricerca della Verità.

    Tra gli influssi religiosi soggiacenti alla sua particolare concezione di religione due, tra tanti altri in una vita così varia e ricca, meritano ancora di essere ricordati. Quando, nel 1893, Gandhi si spostò in Sud Africa, lavorando inizialmente come avvocato per una ditta musulmana, fu colpito da un monastero trappista che aveva visitato nei pressi di Durban. Seguì la fondazione di una serie di ashrams o centri di ritiro religioso, con l’aiuto di un architetto sudafricano di origine giudaica, Hermann Kallenbach, conosciuto attraverso i circoli teosofici da lui frequentati. Questi centri miravano a mettere in pratica in modo comunitario gli ideali di vita di Gandhi e dei suoi seguaci più fedeli. Uno di questi centri fu intitolato a Tolstoj, in segno di riconoscimento per la profonda influenza che gli ideali pacifisti ed evangelici del grande scrittore russo – con cui Gandhi intrattenne una vivace corrispondenza – avevano avuto su di lui.

    Mentre era in Sud Africa Gandhi conobbe anche C.F. Andrews, un missionario anglicano in India che era diventato un emissario dei leaders indiani nazionalisti e che doveva diventare il suo amico più intimo. Fu grazie ad Andrews che Gandhi conobbe nel 1915 Rabindranath Tagore (1861-1941) che, seguendo la pratica dei teosofisti stabiliti in India, lo soprannominò Mahatma, o grande anima. Tagore, vincitore due anni prima, nel 1913, del premio Nobel per la letteratura, oltre che poeta e scrittore fu anche un filosofo, un pedagogo e, come Gandhi, un riformatore sociale di un India che doveva essere riformata spiritualmente e moralmente, prima che sul piano economico e sociale, se voleva riacquistare la sua indipendenza e recuperare la ricchezza della sua tradizione più autentica. Con altri indù eminenti – molti dei quali Gandhi ebbe occasione di incontrare – egli aveva in comune una concezione religiosa tipica: quella di un induismo visto come una religione onnicomprensiva che, spogliata di alcune forme più deleterie e superstiziose, conteneva gli aspetti migliori delle grandi tradizioni religiose. Una concezione e una via inclusive.

    2. Il pensiero religioso di Gandhi

    Prima di esaminare questa posizione, converrà ricordare brevemente le linee direttrici del pensiero religioso gandhiano. Anche se gli influssi religiosi che egli conobbe furono, come si è visto, molteplici, e anche se occorre evitare il rischio di fare di lui un pensatore sistematico, cosa del tutto aliena alla sua natura, come si evince soprattutto dalla sua autobiografia, ma anche dal fatto che la maggior parte della sua produzione è disseminata in opuscoli e articoli di giornali scritti per venire incontro a situazioni diversissime, nella sua formazione religiosa Gandhi elaborò ben presto alcuni principi-guida a cui doveva rimanere fedele nella sua lunga vita di combattente e ricercatore della Verità. Anche se non si pronunciò mai contro gli aspetti più tradizionali dell’induismo, come l’antropomorfismo delle sue innumerevoli divinità o la miriade di culti locali, essi paiono marginali nella sua vita e nel suo pensiero; dai suoi scritti emerge piuttosto la fedeltà al suo spirito e alle sue dottrine più note, come il dharma, il karma e il samsara. Inoltre egli difese e praticò con costanza la preghiera come forma diretta di comunicazione con il divino.

    La religione, per Gandhi, è essenzialmente moralità: un credente incapace di vivere la sua religione è,per Gandhi, un controsenso. Per questo egli ammira i grandi aestri religiosi, i cosiddetti fondatori, come Gesù o Muhammad, di cui apprezza la coerenza di vita. Lo scopo della vita religiosa, come esemplifica il titolo stesso della sua autobiografia, è la ricerca della Verità, una Verità che coincide con Dio, una Verità che va testimoniata e praticata a costo della propria vita. Per perseguire questo ideale supremo, nel cammino che Gandhi riassunse nel concetto di satyagraha, il mezzo da lui scelto è l’ahimsa, la non-violenza, un antico concetto induista che Gandhi riprese interpretandolo come un’istanza morale a difesa della sacralità della vita, di ogni forma di vita, che per lui coincideva con la Vita e cioè con lo stesso divino, la Legge morale iscritta nel cosmo.

    Per realizzare questo ideale, Gandhi riprese, reinterpretandoli, anche altri concetti della tradizione induista, come tapasya, rinuncia, una forma di ascesi intramondana non scevra di implicazioni sociali e politiche, dal momento che, oltre a servire a fini individuali tradizionali di purificazione, essa doveva servire ad armare il praticante del satyagraha nella sua lotta non-violenta, rendendolo in grado di affrontare la sofferenza e le umiliazioni che essa inevitabilmente comportava; o swaraj, autocontrollo, da intendersi gandhianamente come la ricerca della propria coerenza e integrità, coincidenti col proprio sé morale.

    3. Il pensiero di Gandhi sulle religioni

    A partire da queste premesse dovrebbe ora risultare più chiara la posizione che Gandhi ebbe nei confronti delle differenti religioni. Secondo una linea di pensiero tipica di non pochi riformatori religiosi, e che ha illustri precedenti anche nella storia religiosa dell’Occidente, Gandhi sostiene che «l’anima delle religioni è una sola, anche se racchiusa dentro una moltitudine di forme. Tale anima persisterà fino alla fine dei tempi. I saggi ignoreranno la crosta esterna e vedranno quella stessa anima vivere sotto la varietà degli involucri». L’unità trascendente le varie religioni – un concetto tipico anche di certe tradizioni dell’esoterismo cristiano – è da lui spesso paragonata al tronco di un albero o alla sua radice: soltanto intuendola è possibile superare quei continui conflitti che accompagnano, in forme e gradi diversi, la storia delle grandi religioni². Le varie religioni positive, a partire dall’induismo, non sono che manifestazioni storiche di questa religione, che coincide con la Verità e cioè con Dio: «Una costante della natura umana per la cui piena espressione nessun prezzo può apparire troppo grande e che non dà tregua all’anima finché questa non abbia trovato se stessa, conosciuto il proprio Fattore e apprezzato la vera corrispondenza tra sé e il proprio Fattore». Riprendendo anche in questo caso un’immagine tradizionale, che si può far risalire almeno al pagano Simmaco e al suo conflitto, alla fine del IV secolo, col grande vescovo cattolico Ambrogio, le religioni appaiono a Gandhi come cammini diversi che portano a un’unica mèta³, possibilità concesse da Dio ai vari popoli ai quali sono state rivelate, di per sé dotate tutte di uguale valore per cui perdono di senso i tentativi di valutarle, classificarle e subordinarle le une alle altre⁴: «Credo che nell’altro mondo non ci siano né induisti, né cristiani, né musulmani; che ognuno sia giudicato non secondo la propria etichetta, o professione, ma secondo le proprie azioni, senza riguardo per la professione. Durante la nostra esistenza terrena, invece, ci saranno sempre queste etichette». Secondo questa prospettiva, queste religioni non sono portatrici di una Verità esclusiva, ma di verità parziali e imperfette, storicamente condizionate, che riflettono la stessa imperfezione degli uomini che vi si identificano⁵. Queste verità sono fissate nei loro libri sacri, ognuno dei quali, dalla Bibbia al Corano, è degno di attenzione, e che, di conseguenza, non si escludono ma devono essere integrati da chi ricerca la Verità soggiacente⁶.

    Ne consegue una difesa della tolleranza religiosa, in una prospettiva, tipica anche in questo caso di una certa tradizione induista ripresa e diffusa dalla Società teosofica, che oggi potremmo definire inclusivista o di difesa del pluralismo religioso come possibilità vitale di coesistenza in un mondo non più caratterizzato dal monopolio cristiano: «Propugno la più ampia tolleranza, e lavoro a tal fine. Invito tutti a guardare ogni religione dallo stesso punto di vista di colui che la professa con fervore».

    In questa visione, un ruolo particolare è destinato a recitare l’induismo, almeno come Gandhi lo reinterpretava. La sua storia millenaria dimostrava la sua capacità di accogliere e rispettare le prospettive religiose più diverse, facendole coesistere in modo fecondo: «per me l’Induismo può appagare chiunque. Ogni varietà di credo trova protezione sotto il suo ampio manto ... L’Induismo dice a ognuno di adorare Dio secondo la propria fede o Dharma, per questo vive in pace con tutte le religioni... Il mio Induismo non è settario. Include tutto ciò che a me sembra il meglio dell’islam, del cristianesimo, del buddismo e dello zoroastrismo». Questa capacità di accoglienza era possibile perché, nella particolare rilettura di Gandhi, le co plesse e variegate dottrine di una religione che, non dimentichiamolo, aveva dietro di sé una storia ben più antica di quella dei tre monoteismi abramitici, venivano ricondotte ad alcuni nuclei di fondo: la credenza in Dio, nell’immortalità dell’anima, nella trasmigrazione, nella legge del karma e della moksa (la liberazione finale dal ciclo del samsara) e, naturalmente, nell’ ahimsa. Questo nucleo dottrinale trovava ai suoi occhi l’elemento coagulatore nella protezione della vacca, che Gandhi considerava in certo qual modo il cuore pulsante di vita dell’induismo così come egli era venuto progressivamente reinterpretandolo:

    «Il fatto centrale dell’Induismo è la protezione della vacca. La protezione della vacca, per me, è uno dei fenomeni più meravigliosi dell’evoluzione umana, in quanto porta l’essere umano al di là delle altre specie. La vacca, per me, significa l’intero mondo subumano. L’uomo, mediante la vacca, è spinto a realizzare la sua identità con tutto ciò che vive. La ragione per cui la vacca fu scelta per l’apoteosi per me è ovvia. La vacca, in India, è la migliore compagna. Dispensava abbondanza. Non dava solo il latte, ma rendeva possibile l’agricoltura. La vacca è un poema di pietà. Il mite animale ispira compassione. Per le grandi masse dell’umanità indiana essa è la madre. Proteggere la vacca significa proteggere l’intera creazione muta di Dio ... La protezione della vacca è il dono dell’Induismo al mondo. E l’Induismo vivrà fintanto che ci saranno Indù a proteggere la vacca».

    È, dunque, a partire da questa reinterpretazione dell’induismo – che, non lo si scordi, doveva per Gandhi tradursi in un’azione religiosa coerente e rispettosa delle Leggi rivelate da Dio – che egli si accosta alle altre religioni. E questo, a cominciare dal buddismo, che, come si è già avuto occasione di ricordare, non è per Gandhi, come tendeva a interpretare la scienza delle religioni occidentale, una religione a sé stante, ma parte integrante dell’induismo: «il Buddismo è per l’Induismo ciò che il Protestantesimo è per il Cattolicesimo romano, solo con forza molto maggiore, e un grado d’intensità molto più elevato». Budda, infatti, era stato un predicatore di pace, uno dei grandi Maestri di saggezza che, al pari del Gesù del Sermone della montagna, aveva annunciato il vangelo dell’amore, del regno di Dio interiore: dunque, un riformatore, non un negatore, dell’induismo. Per questo era necessario, come Gandhi non si stancherà di ripetere ai monaci buddisti che egli incontrerà nei suoi viaggi nel Sud-est asiatico, alla ricerca di quella rivitalizzazione di un buddismo da secoli languente promossa in particolare dalla Società teosofica trapiantata in India, che essi ritornassero alle scritture originarie e, soprattutto, a una pratica rispettosa dell’annuncio autentico del Budda. Per Gandhi, infatti, le forme che il buddismo, nella sua straordinaria espansione dalla Cina al Giappone al Tibet, aveva assunto – il cosiddetto buddismo mahayana o del grande veicolo – avevano finito per tradire questo messaggio.

    Il Budda di Gandhi non era, contrariamente alla concezione allora più diffusa, un ateo: egli credeva, infatti, in Dio, o meglio, nello stesso Dio in cui credeva Gandhi, la forza impersonale che permea l’universo, costituendo la base di ogni forma vivente. Da tale equivoco ne era conseguito un secondo, e cioè una errata interpretazione del nirvana. Polemizzando anche in questo caso con una interpretazione nichilista all’epoca circolante, il nirvana non era uno sprofondare nel Nulla, ma solo «completa estinzione di tutto ciò che c’è di vile, di perverso, di corrotto e corruttibile in noi. Il nirvana non è come la nera, mortifera pace della tomba, ma pace vivente, felicità pulsante di un’anima che è conscia di sé, e conscia di avere trovato dimora nel cuore dell’Eterno». Ma il vero contributo del Budda, per il quale ancora una volta egli rientrava a pieno titolo nella tradizione induista, era stato, in linea con la sua concezione di Dio, il rispetto per la vita di tutti gli esseri viventi: per questo Gandhi lo vedeva, al pari di Gesù, come uno dei grandi precursori del suo vangelo della non violenza. Un Budda, in conclusione, che si inseriva, quando non la iniziava, in una catena di maestri di sapienza che arrivava fino allo stesso Gandhi, che a questo punto poteva presentarsi come fedele discepolo di un Maestro ritagliato, per così dire, sulla sua misura. Né ci si stupirà, di conseguenza, che lo stesso Gandhi ironizzi sul fatto che spesso e volentieri – anche in famiglia! – venisse visto come un fedele seguace di questo Budda.

    Su questo sfondo, il modo in cui Gandhi si accosta anche ai tre monoteismi non dovrà più sorprendere. Dietro sollecitazione di un amico cristiano egli aveva letto, già durante il soggiorno londinese, la Bibbia. La lettura dell’Antico Testamento l’aveva o tediato o allontanato: troppo diverso dal suo era il Dio violento delle scritture ebraiche; né in genere l’ebraismo, come i testi che il lettore si accinge a leggere confermano, sembra aver recitato una parte significativa nel suo pensiero. Quanto all’islam, Gandhi dovette conoscere, oltre al Corano, anche altre tradizioni, dal momento che il rapporto tra indiani e musulmani costituì, dopo il suo ritorno in India, sempre più una preoccupazione centrale. Di qui la sua lettura irenica del Corano e dell’azione del Profeta, che egli cercò, a quanto pare inutilmente, di spogliare delle sue più pericolose valenze belliche.

    Diverso, almeno in parte, il punto di vista di Gandhi sul cristianesimo. Da ragazzo egli aveva sentito dire che «diventare cristiani era avere una bottiglia di brandy in una mano e carne di manzo nell’altra». Ciò rimandava al fatto che il cristianesimo, sia nella sua versione cattolica sia in quella protestante, in particolare nella sua variante anglicana, la religione degli inglesi colonizzatori, si era imposto come la religione dei dominatori. Le sue critiche all’impresa missionaria cristiana con la sua violenza distruttrice nei confronti dell’induismo si intrecciano, di conseguenza, con le critiche alla civiltà occidentale con il suo industrialismo e materialismo. Il lettore incontrerà più volte, nelle pagine dedicate al cristianesimo, questo leitmotiv che accompagna i discorsi e le risposte di Gandhi alle numerose e spesso assillanti richieste di missionari cristiani: «Mentre io rafforzo la fede della gente, voi la minate. Il vostro operato, ho sempre ritenuto, sarà tanto più ricco se accetterete per quello che sono le fedi delle persone che venite a servire, fedi che, per quanto rozze, per loro sono preziose». Al pari dei monaci buddisti che rischiavano di dimenticare il messaggio del Budda, anche i missionari sono più volte invitati a ritornare al messaggio di Gesù, un messaggio che doveva essere incarnato nelle loro vite.

    Il Gesù di Gandhi, come già accennato, si iscrive nella catena dei Maestri di sapienza dell’umanità. Il suo non è tanto il Gesù storico, quanto il Gesù ideale del Sermone sulla montagna che egli conobbe da giovane nella sua prima lettura della Bibbia⁷, che predica il vangelo della non ritorsione, del porgere l’altra guancia a chi ti offende, e dunque si iscrive anch’egli, al pari di Budda, nei precursori del vangelo della non-violenza; o il Gesù del vangelo di Giovanni, per il quale lo Spirito soffia dove vuole e la lettera uccide, mentre lo Spirito dà vita. Un Gesù, in conclusione, non lontano dal modo in cui certa teologia liberale, esemplificata al meglio ne L’essenza del cristianesimo di A. Harnack, aveva teso a rileggere eticamente il messaggio gesuano, condensandolo non a caso negli insegnamenti del Sermone della montagna.

    In conclusione, quella che il lettore incontra in queste pagine di Gandhi consacrate alle grandi religioni, spesso legate a circostanze particolari e che dunque conservano talora la vivacità e concretezza delle situazioni che le hanno provocate, è una rilettura etica dei testi fondatori delle religioni universali e dell’insegnamento dei grandi Maestri che ne sono all’origine. Si tratta di un insegnamento che non ha perso in attualità e importanza. Oggi che le religioni sono ritornate a recitare un discusso e discutibile ruolo pubblico, proponendosi a una società occidentale inprofonda crisi morale come portatrici di risorse etiche importanti, l’idea che i valori religiosi potrebbero e, per i rappresentanti di queste religioni, dovrebbero contribuire ad animare la coscienza morale languente della vita pubblica – gli esempi quotidiani sono sotto gli occhi di tutti – e dare significato alle identità sociali in un’epoca globale come quella in cui viviamo, idea cara a un pensatore globale come certo Gandhi fu, è destinata a recitare un ruolo sempre più importante. Accostarsi a questo nodo attraverso la guida del maestro della non violenza costituisce uno dei non pochi elementi di fascino di queste pagine.

    GIOVANNI FILORAMO

    ¹ Gandhi, La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma 2007, p. 43.

    ² «Se guardiamo alle religioni come alle mille foglie di un albero, ci sembrano tutte differenti, ma tutte riconducono a uno stesso tronco. Finché non riusciremo a intuire tale unità di fondo, non sapremo far cessare le guerre condotte in nome della religione, che non riguardano soltanto gli induisti e i musulmani. Le pagine della storia del mondo sono tutte lordate dei sanguinosi racconti delle guerre di religione. Solo con la purezza e le buone azioni dei seguaci si può difendere la religione, mai con la contrapposizione a chi professa altre fedi». «Invero, la religione dovrebbe improntare ogni nostra azione. Qui religione non significa settarismo. Significa credere in un governo moralmente ordinato dell’universo. Essa non è meno reale perché non la si vede. Questa religione trascende l’induismo, l’islam, il cristianesimo, ecc. Non li soppianta. Li armonizza e li sostanzia».

    ³ «Le religioni sono strade diverse che convergono verso uno stesso punto. Che cosa conta se imbocchiamo strade diverse, se arriviamo alla stessa meta?».

    ⁴ «Credo che sia impossibile valutare i meriti delle varie religioni del mondo e, inoltre, credo che cercare di farlo sia inutile e pericoloso. Ma ognuna di esse, a mio giudizio, si invera per sollecitazione di una forza comune: il desiderio di elevare la vita dell’uomo e di darle uno scopo».

    ⁵ «Credo nella fondamentale verità di tutte le grandi religioni del mondo. Credo che ci siano state date tutte quante da Dio, e che ciascuna fosse necessaria al popolo al quale è stata rispettivamente rivelata. Credo, inoltre, che, se solo riuscissimo a leggere le scritture delle differenti fedi dal punto di vista dei loro seguaci, scopriremmo che si potrebbero tutte quante ricondurre a una sola radice e che le troveremmo tutte quante reciprocamente utili».

    ⁶ «Credo che tutte le grandi religioni del mondo siano più o meno vere. Dico più o meno perché sono convinto che qualsiasi cosa la mano umana tocchi, per il fatto stesso che gli esseri umani sono imperfetti, diventi a sua volta imperfetta ... E perciò ammetto in tutta umiltà che anche i Veda, il Corano, la Bibbia siano parola imperfetta di Dio e che sia impossibile per noi, esseri imperfetti quali siamo, sballottati avanti e indietro da una moltitudine di passioni, persino intendere tali parole di Dio nella loro pienezza».

    ⁷ «Vidi che il Sermone della Montagna sintetizzava l’intero Cristianesimo per chi intendeva vivere una vita cristiana. Fu quel sermone a farmi amare Gesù».

    L’INDUISMO

    I. La base morale dell’induismo

    L’origine dell’induismo

    (Da Gandhiji’s Post-prayer Speeches)

    Gandhi poi si rifece ad una domanda che era stata posta da un membro dell’uditorio: che cosa è un Indù? Qual è l’origine della parola? Esiste l’induismo?

    Queste erano domande pertinenti all’epoca. Lui non era uno storico, non rivendicava alcun insegnamento. Però aveva letto, in alcuni libri degni di fede sull’induismo, che la parola «Hindù» non compare nei Veda, e che quando Alessandro Magno invase l’india gli abitanti del paese a Est del Sindhu, che è conosciuto dagli Indiani di lingua inglese come Indus, furono descritti come Hindus. La lettera «S» era diventata «H» in greco. La religione di questi abitanti divenne l’induismo che, come lo conoscevano loro, era la religione più tollerante. Offriva rifugio ai primi Cristiani che fuggivano dalle persecuzioni, così come agli Ebrei noti come Beni-Israil e ai parsi. Era orgoglioso di appartenere a quell’induismo che era onnicomprensivo, fautore della tolleranza. Gli studiosi arii credevano in ciò che loro chiamavano la religione vedica e l’Indostan era d’altronde conosciuto come Aryavarta. Non aveva simili aspirazioni. L’Indostan della sua concezione era più che sufficiente per lui. Includeva certamente i Veda, ma anche molto di più. Non trovava affatto incongruente affermare che poteva, senza intaccare in alcun modo la dignità dell’induismo, rendere pari omaggio al meglio dell’IsIam, del Cristianesimo, dello Zoroastrismo e del Giudaismo. Un simile Induismo vivrà fintanto che splenderà il sole. Tulsidas ha riassunto ciò in un doha: «La pietà è la radice della religione, mentre l’amore del corpo è la radice dell’egoismo».

    Harìjan, 30 novembre 1947 pp. 442-446.

    Chi è Indù

    I.

    (Si riproduce di seguito una domanda con relativa risposta tratta dalla corrispondenza di Gandhi e apparsa sotto il titolo Correspondence-A Catechism.)

    D.: Lei si è sempre definito un «Indù». D’altra parte non è disposto ad accettare le norme dei pandit indù e neanche i loro Shastra in materia di matrimoni tra ragazzi, seconde nozze per le vedove, intoccabilità e così via. Lei dice, in Young India del 26 agosto: «Gli Smriti sono irti di contraddizioni. I versi che ispirano l’autocontrollo non possono essere stati scritti nello stesso periodo e dalla stessa penna che scrisse i versi che stimolano gli istinti brutali dell’uomo». La medesima cosa, suppongo, si potrebbe dire a proposito dei molti Purana degli Indù. Non capisco come mai lei, non riconoscendo l’Autorità di questi libri, possa considerarsi un «Indù» (come lo intendiamo ora), che ha una fede assoluta nelle assurdità e nelle immoralità (avvilenti per il buon senso) predicate da alcuni Purana. Se lei pensa che un Indù non debba necessariamente credere a tutto questo, allora renderebbe un servigio alla verità definendo la religione indù e chiarendo per quale motivo lei debba essere considerato un Indù.

    Non direbbe che un uomo è un «Indù» solo perché si considera tale, anche se poi non segue la dottrina e le imposizioni prescritte dagli Shastra. Pertanto, se volessi definirmi cristiano e dicessi che non è necessario che un vero cristiano abbia fede nella Bibbia o in Cristo, non sarei altro che un simulatore.

    Inoltre visto che lei dissente dagli Indù in materia di Shastra, sarebbe opportuno che spiegasse perché preferisce considerarsi un Indù (malgrado le connotazioni negative di questa parola e il fatto che la parola non compaia neanche negli Shastra degli Indù) e non un «Ario», che già di per sé è un termine migliore. Inoltre i suoi insegnamenti, per quanto concerne l’interpretazione degli Shastra indù, hanno molto in comune con quelli dell’Arya Samaj.

    R.: Mi considero un Indù Sanatanista perché credo nei Veda, nelle Upanishad, nei Purana e negli scritti lasciati dai santi riformatori. Questa convinzione non mi costringe ad accettare come autentica ogni cosa che passa per Shastra. Rifiuto tutto ciò che possa contraddire i principi fondamentali della moralità. Non sono tenuto ad accettare concetti come ipse dixit o le interpretazioni dei pandit. Prima di tutto mi considero un Indù Sanatanista finché la società indù in generale mi accetta come tale. In concreto un Indù è colui che crede in Dio, nell’immortalità dell’anima, nella trasmigrazione, nella legge del Karma e della Moksha, e che cerca di praticare la Verità e Ahimsa nella vita quotidiana, e quindi pratica la protezione della vacca nel senso più ampio e comprende e cerca di agire secondo la legge del Varnashrama.

    Young India, 14 ottobre 1926, p. 356.

    II.

    (Originariamente apparso in Notes sotto il titolo «Hindu and Hinduism»)

    Un corrispondente, lettore paziente e diligente di Young India, scrive:

    In replica al catechismo di An Assistant Executive Engineer nel suo numero del 14-10-1926 in cui lei dice: «In concreto un Indù è colui che crede in Dio, nell’immortalità dell’anima, etc.».

    Leggendo ciò sarei portato a metterla a confronto con i suoi stessi scritti di circa due anni fa. In Young India del 24 aprile 1924, p. 136, lei scrisse: «Se mi chiedessero di definire il credo indù direi semplicemente: la ricerca della Verità tramite mezzi non-violenti. Un uomo può non credere in Dio e continuare a considerarsi un Indù. L’Induismo è la ricerca incessante della Verità» ¹.

    I corsivi, in ambedue le citazioni, sono miei.

    Mi sorprende che il corrispondente non veda la differenza tra le due affermazioni. Una si riferisce ad un Indù in concreto. Negare l’esistenza di Dio non è una caratteristica dell’induismo. Milioni di Indù credono in Dio. Pertanto si può dire: «ci sono Indù che credono in Dio etc.». E poi: «un uomo può non credere in Dio e continuare a considerarsi un Indù». Nel secondo caso ho cercato una definizione esaustiva. Nel primo caso ho dato una spiegazione in generale. Io, quindi, non vedo alcuna contraddizione tra le due posizioni.

    Young India, 28 ottobre 1926, p. 372.

    Due aspetti dell’induismo

    (Da The Do or Die Mission di Pyarelal)

    Gandhi, quando era internato nel palazzo dell’Aga Khan, una volta fece notare a Shri Pyarelal quanto segue:

    «Ci sono due aspetti dell’induismo. Da un lato c’è l’induismo storico con la sua intoccabilità, l’adorazione superstiziosa di cose inanimate, i sacrifici animali e così via. Dall’altro abbiamo l’induismo della Gita, delle Upanishad e dello Yogasutra di Patanjali che è l’acme di Ahimsa e dell’unità di tutta la creazione, pura adorazione di un solo Dio immanente, informe, imperituro. Il nostro popolo ha cercato di interpretare Ahimsa, che per me è la gloria maggiore dell’induismo, come se essa fosse destinata esclusivamente ai Sannyasi.

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