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Dizionario filosofico
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E-book541 pagine8 ore

Dizionario filosofico

Valutazione: 4 su 5 stelle

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Info su questo ebook

Edizione integrale condotta sul testo critico stabilito da Raymond Naves
Introduzione di Angelo G. Sabatini
Traduzione di Maurizio Grasso

Il Dizionario filosofico fu pubblicato per la prima volta anonimo a Ginevra nel 1764, quando Voltaire aveva ormai settant’anni. Il progetto dell’opera era nato nel 1752, a Potsdam, durante una visita del filosofo a Federico II di Prussia, e per molti anni Voltaire aveva continuato a scrivere o a raccogliere articoli sui più svariati argomenti. Arricchito attraverso molte edizioni successive, il Dizionario è una raccolta di voci riguardanti la filosofia in senso molto ampio. La presente traduzione è stata condotta sul testo stabilito da Raymond Naves, che ha riportato il Dizionario alla sua forma originale, sfrondandolo dalle aggiunte e dagli appesantimenti che, dopo la morte di Voltaire, erano stati introdotti dai vari editori.


Voltaire

François-Marie Arouet, che nel 1718 assumerà lo pseudonimo di Voltaire, nacque a Parigi nel 1694. Nel 1718 era già un celebre tragediografo; nel 1726, come conseguenza di un duello, conobbe la Bastiglia e l’esilio in Inghilterra; dopo una vita intensa condotta tra fughe, amicizie regali, studi e impegno civile contro l’intolleranza e l’ingiustizia, nell’aprile del 1778 tornò a Parigi ma morì quasi subito, il 30 maggio 1778. Scrisse opere storiche, poemi epici, libelli polemici, versi d’occasione, prose filosofiche e letterarie.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854126121
Dizionario filosofico
Autore

. Voltaire

Imprisoned in the Bastille at the age of twenty-three for a criminal libel against the Regent of France, François-Marie Arouet was freed in 1718 with a new name, Voltaire, and the completed manuscript of his first play, Oedipe, which became a huge hit on the Paris stage in the same year. For the rest of his long and dangerously eventful life, this cadaverous genius shone with uninterrupted brilliance as one of the most famous men in the world. Revered, and occasionally reviled, in the royal courts of Europe, his literary outpourings and fearless campaigning against the medieval injustices of church and state in the midst of the ‘Enlightenment’ did much to trigger the French Revolution and to formulate the present notions of democracy. But above all, Voltaire was an observer of the human condition, and his masterpiece Candide stands out as an astonishing testament to his unequalled insight into the way we were and probably always will be.

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  • Valutazione: 5 su 5 stelle
    5/5
    This is the third work of Voltaire's that I have read, the other two being Candide and Letters on England, and while I knew what to expect, it contains many unexpected and radical points (for a work of the 18th c. that is). Despite being a philosophical dictionary, most of the entries pertained to religion. It reminded me of David Hume's Writings on Religion. Concerning religion, Voltaire was an atheist and addresses many of what he believes to be the faults of established religious institutions, including those of the East (which he knows very little of and therefore are discussed only briefly). At first Voltaire may appear to be anti-Semitic, but trust me, no religion is safe from his criticism, especially Catholicism. But the reader must also know that Voltaire does not attack blindly. He praises the virtues, morals and benefits that religion provides for mankind, and in turn condemns religious enthusiasm, superstition and fanaticism. Which I think is something that most readers can agree with. What I didn't expect were arguments such as that animals are not without knowledge and feelings and that the good actions of pagans of antiquity are just as virtuous as those of monotheists. There are people even today who would not agree with this, and the reader realizes why Voltaire's work was shamelessly and wrongly forbidden and burned. Other surprising arguments include that woman should not be subservient to man and that the accusation of "idolater" is nonsensical. But it is not all issues of religion, Voltaire also gives his opinion on Freedom of Thought, Friendship, Love, Beauty and Limits of the Human Mind. Overall, I thoroughly enjoyed this work, but I warn the potential reader to be honest with himself/herself. If you cannot handle religious criticism, than I suggest putting off this work until you are comfortable enough to read with an open-mind.
  • Valutazione: 3 su 5 stelle
    3/5
    In this volume, Voltaire is a better observer than he is philosopher; many of the entries are poorly thought out and inconsistent, but written with his characteristic wit and flair. Not his best work, but it does paint an interesting picture of the values of his time.
  • Valutazione: 5 su 5 stelle
    5/5
    This is a gem of a book. I can't compete with any reviewers, but I can say that I read part of this book to my husbands grandmother (she's over 80), and she asked for a big text copy for herself.

Anteprima del libro

Dizionario filosofico - . Voltaire

A

Abate ¹

[Abbé]

Dove andate, signor abate? ecc.² . Sapete che abate significa padre? Se lo diventate, rendete un servizio allo Stato; fate senza dubbio la miglior cosa che un uomo possa fare; da voi nascerà un essere pensante. In questo atto c’è qualcosa di divino.

Ma se siete il signor abate per il solo fatto di essere stato tonsurato, di portare un collettino e un mantello corto, e per aspettarvi qualche beneficio, non meritate il nome di abate.

Gli antichi monaci conferirono questo nome al superiore che loro stessi eleggevano. L’abate era il loro padre spirituale. Quante cose diverse gli stessi nomi significano nel tempo! L’abate spirituale era un povero a capo di parecchi altri poveri: ma i poveri padri spirituali hanno in seguito avuto duecento, quattrocentomila franchi di rendita; ed oggi ci sono in Germania poveri padri spirituali che dispongono di un reggimento di guardie.

Un poverovche ha fatto giuramento di restar tale, e che tuttavia è un sovrano! E stato già detto; bisogna ripeterlo mille volte: è intollerabile. Le leggi reclamano contro questo abuso, la religione se ne indigna, e i veri poveri ignudi e senza cibo levano grida al cielo dinanzi alla porta del signor abate.

Ma sento i signori abati d’Italia, di Germania, di Fiandra, di Borgogna, dire: «Perché mai non dovremmo accumulare beni ed onori? perché non dovremmo essere dei principi? i vescovi lo sono. In origine erano poveri come noi, si sono arricchiti, si sono elevati; uno di loro è diventato superiore ai re; lasciateci imitarli, finché potremo».

Ben detto, signori, invadete pure la terra; essa appartiene al forte

o all’astuto che se ne impadronisce; avete approfittato dei tempi d’ignoranza, di superstizione, di demenza, per spogliarci delle nostre eredità e per calpestarci, per ingrassarvi con la sostanza degli sventurati: tremate, che non giunga il giorno della ragione.

Abramo

[Abraham]

Abramo è uno di quei nomi celebri in Asia Minore e in Arabia, come Thot fra gli Egizi, il primo Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino tra i popoli nordici, e tanti altri noti più per la loro fama che per una storia realmente accertata. Parlo beninteso della storia profana; infatti nei confronti di quella degli Ebrei, nostri maestri e nemici, cui crediamo e che detestiamo, giacché la storia di questo popolo è stata evidentemente scritta dallo stesso Spirito Santo, nutriamo i sentimenti che le sono dovuti. In questa sede ci rivolgiamo solo agli Arabi; essi vantano una discendenza da Abramo tramite Ismaele; credono che questo patriarca abbia fondato la Mecca, e che sia morto in quella città. Il fatto è che la stirpe di Ismaele è stata infinitamente più favorita da Dio della stirpe di Giacobbe. L’una e l’altra hanno prodotto a dire il vero dei ladroni; ma i ladroni arabi sono stati prodigiosamente superiori ai ladroni ebrei. I discendenti di Giacobbe si limitarono a conquistare un piccolissimo paese, che hanno perduto; i discendenti di Ismaele hanno conquistato una parte dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa, hanno fondato un impero più vasto di quello dei Romani, e hanno cacciato gli Ebrei da quelle loro caverne che essi chiamavano terra promessa.

A giudicare le cose solo dagli esempi della nostra storia moderna, parrebbe quanto mai difficile che Abramo possa essere stato il padre di due nazioni così diverse; ci narrano che fosse nato in Caldea, e che fosse figlio d’un povero vasaio, il quale si guadagnava da vivere facendo piccoli idoli di terracotta³. Non è molto verosimile che il figlio di questo vasaio sia andato a fondare la Mecca a trecento leghe sotto il tropico, attraversando deserti impraticabili. Se mai fu un conquistatore, dovette certo dirigersi verso le belle terre dell’Assiria; e se non fu altri che un pover’uomo, come ci è dipinto, non è certo andato a fondar regni lontano da casa.

La Genesi riferisce ⁴che egli aveva settantacinque anni quando lasciò il paese di Aram ⁵dopo la morte di suo padre Tare il vasaio; ma la stessa Genesi dice anche che Tare, avendo generato Abramo a settant’anni, visse fino a duecentocinque anni, e che Abramo partì da Aram solo dopo la morte del padre. A conti fatti è chiaro dalla stessa Genesi che Abramo aveva l’età di centotrentacinque anni quando lasciò la Mesopotamia. Da un paese idolatra egli si recò in un altro paese idolatra chiamato Sichem in Palestina. Perché vi andò? perché lasciò le fertili sponde dell’Eufrate per una contrada tanto lontana, sterile e pietrosa come quella di Sichem? La lingua caldea doveva essere assai diversa da quella di Sichem, che non era affatto luogo di commerci; Sichem dista dalla Caldea più di cento leghe; bisogna attraversare dei deserti per arrivarci; ma Dio voleva che egli facesse quel viaggio, voleva mostrargli la terra che i suoi discendenti avrebbero occupato parecchi secoli dopo di lui. La mente umana fatica a comprendere le ragioni di un tal viaggio.

È appena arrivato nel piccolo villaggio montagnoso di Sichem che la carestia lo costringe ad uscirne. Va in Egitto con sua moglie a cercare di che vivere. Ci sono duecento leghe da Sichem a Menfì; è forse naturale che si vada a domandare il pane così lontano e in un paese di cui non si capisce affatto la lingua? Strani, questi viaggi intrapresi all’età di quasi centoquarant’anni.

Egli portò con sé a Menfì sua moglie Sara, che era estremamente giovane, e quasi una bambina in confronto a lui, dal momento che aveva solo sessantacinque anni. Poiché era bellissima, egli decise di trarre profitto dalla sua bellezza: «Fingete di essere mia sorella, le disse, affinché mi si faccia del bene per causa vostra». Avrebbe potuto dirle piuttosto: «Fingete di essere mia figlia». Il re si innamorò della giovane Sara, e donò al presunto fratello molte pecore, buoi, asini, asine, cammelli, servi e serve: prova ne è che l’Egitto era già allora un regno assai potente e civilizzato, e conseguentemente assai antico, e che vi si ricompensavano magnificamente i fratelli che andavano a offrire le loro sorelle ai re di Menfì.

La giovane Sara aveva novantanni secondo le sacre Scritture quando Dio le promise che Abramo, che ne aveva allora centosessanta, le avrebbe fatto un bambino entro l’anno.

Abramo, cui piaceva viaggiare, si recò nell’orribile deserto di Cades con la moglie incinta, sempre giovane e sempre bella. Un re di quel deserto non mancò di innamorarsi di Sara come era accaduto al re d’Egitto. Il padre dei credenti si servì della stessa menzogna che in Egitto: spacciò la moglie per sua sorella, e da tale affare ebbe ancora pecore, buoi, servi e serve. Si può dire che questo Abramo divenne ricchissimo alle spalle della moglie. I commentatori hanno prodotto un numero prodigioso di volumi per giustificare la condotta di Abramo, e per conciliare la cronologia. Bisogna dunque rinviare il lettore a questi commenti. Sono tutti composti da spiriti acuti e delicati, eccellenti metafisici, persone senza pregiudizi e nient’affatto pedanti.

⁶ Del resto il nome Bram, Abram, era famoso in India e in Persia: parecchi dotti sostengono addirittura che fosse quello stesso legislatore che i Greci chiamarono Zoroastro. Altri dicono che fosse il Brahma degli Indiani: il che non è dimostrato.

⁷ Ma quello che appare assai ragionevole a molti studiosi, è che questo Abramo fosse caldeo o persiano: gli Ebrei, in seguito, si vantarono di esserne i discendenti, come i Franchi discendono da Ettore, e i Bretoni da Tubai. E assodato che la nazione ebraica era un’orda di formazione assai recente; che si stabilì in Fenicia solo molto tardi; che era circondata da popoli antichi; che adottò la loro lingua; che da questi prese perfino il nome di Israele, che è caldeo, secondo la stessa testimonianza dell’ebreo Flavio Giuseppe. Si sa che essa prese dai Babilonesi perfino i nomi degli angeli; che infine non fece che chiamare DIO con i nomi di Eloi, o Eloa, di Adonai, di Jehova o Hiao, alla maniera dei Fenici.

Essa conobbe probabilmente il nome di Abramo o Ibrahim tramite i Babilonesi; infatti l’antica religione di tutte le contrade, dall’Eufrate fino all’Oxo⁸, era chiamata Kish-Ibrahim, Milat-Ibrahim. E quanto confermano tutte le ricerche fatte sul posto dallo studioso Hyde⁹ .

Gli Ebrei fecero dunque con la storia e con l’antica leggenda quello che i rigattieri fanno con gli abiti vecchi; li rivoltano e li vendono come nuovi al prezzo più caro possibile.

È un singolare esempio della stupidità umana che noi abbiamo così a lungo reputato gli Ebrei come un popolo che aveva insegnato tutto agli altri, mentre il loro stesso storico Giuseppe confessa il contrario.

È difficile penetrare le tenebre dell’antichità; ma è evidente che tutti i regni dell’Asia erano fiorentissimi prima ancora che l’orda vagabonda degli Arabi chiamati Ebrei possedesse un proprio cantuccio di terra, prima che avesse una città, delle leggi, e una religione stabilita.

Allorché ci si imbatte dunque in un antico rito, un’antica credenza, localizzati in Egitto o in Asia, e tra gli Ebrei, è del tutto naturale pensare che quel piccolo popolo, nuovo, ignorante, rozzo, sempre a corto di arti, abbia copiato, così come ha potuto, la nazione antica, fiorente e industriosa.

In base a tale principio bisogna giudicare la Giudea, la Biscaglia, la Cornovaglia, Bergamo il paese di Arlecchino, ecc.: certamente la trionfante Roma non imitò nulla dalla Biscaglia, dalla Cornovaglia, né da Bergamo; e bisogna essere o un grande ignorante o un gran furfante, per asserire che gli Ebrei insegnarono ai Greci.

(Articolo tratto dal signor Fréret)¹⁰

Adamo¹¹

[Adam]

La pia signora Bourignon¹² era convinta che Adamo fosse un ermafrodito, come i primi uomini del divino Platone. Dio le aveva rivelato questo grande segreto; ma io, dal momento che non ho avuto le stesse rivelazioni, non ne parlerò. I rabbini ebrei hanno letto i libri di Adamo; conoscono il nome del suo precettore e della sua seconda moglie: ma io, giacché non ho letto affatto questi libri del nostro primo padre, non ne farò parola. Alcune teste vuote, sapientissime, sono tutte stupite, quando leggono i Veda degli antichi bramini, nel trovare che il primo uomo fu creato nelle Indie, ecc., che si chiamava Adimo, che significa il generatore; e che sua moglie si chiamava Procriti, che significa la vita. Dicono che la setta dei bramini sia incontestabilmente più antica di quella degli Ebrei; che solo molto tardi gli Ebrei riuscirono a scrivere in lingua cananea, giacché solo molto tardi si stabilirono nel piccolo paese di Canaan; dicono che gli Indiani furono sempre inventori, e gli Ebrei sempre imitatori; gli Indiani sempre ingegnosi, e gli Ebrei sempre rozzi; dicono che è ben difficile che Adamo, che era fulvo, e aveva dei capelli, sia il padre dei negri che sono neri come l’inchiostro e hanno lana nera sulla testa. C’è qualcosa che non dicono? Quanto a me, non dico nulla; lascio queste ricerche al reverendo padre Berruyer ¹³, della società di Gesù; è il più grande ingenuo che abbia mai conosciuto. Hanno bruciato il suo libro come quello di un uomo che voleva mettere in ridicolo la Bibbia: ma posso assicurare che non c’era alcuna intenzione maliziosa da parte sua.

(Tratto da una lettera del cavaliere di R***)

Amicizia

[Amitié]

È un contratto tacito fra due persone sensibili e virtuose. Dico sensibili, perché un monaco, un solitario possono non essere malvagi, e vivere senza conoscere l’amicizia. Dico virtuose, perché i malvagi hanno solo complici, i voluttuosi compagni di bagordi, gli interessati hanno dei soci, i politici radunano dei faziosi, il basso ceto degli oziosi ha degli intrighi, i principi dei cortigiani; solo gli uomini virtuosi hanno amici. Cetego era complice di Catilina, e Mecenate cortigiano di Ottaviano; ma Cicerone era amico di Attico.

Che cosa comporta questo contratto fra due anime tenere e oneste? gli obblighi sono più saldi o più deboli, secondo il loro grado di sensibilità e il numero dei servizi resi, ecc.

L’entusiasmo dell’amicizia è stato più forte presso i Greci e gli Arabi che non da noi. Le storie che questi popoli hanno immaginato sull’amicizia sono mirabili; noi non ne abbiamo di simili, siamo un po’ aridi in tutto.

L’amicizia era oggetto di religione e di legislazione presso i Greci.

I Tebani avevano il reggimento degli amanti: magnifico reggimento! alcuni l’hanno preso per un reggimento di sodomiti; si sbagliano: significa scambiare il dettaglio con la sostanza. L’amicizia presso i Greci era prescritta dalla legge e dalla religione. La pederastia era purtroppo tollerata dai costumi; non bisogna imputare alla legge vergognosi abusi. Ne riparleremo.

Amore

[Amour]

Amor omnibus idem¹⁴. Bisogna qui ricorrere al fisico; l’immaginazione ha ricamato la stoffa della natura. Vuoi avere un’idea dell’amore? osserva i passeri del tuo giardino; guarda i piccioni; contempla il toro che portano alla tua giovenca; ammira quel fiero cavallo che due domestici conducono alla tranquilla cavalla che lo aspetta, e che scosta la coda per riceverlo; guarda come scintillano i suoi occhi; senti i suoi nitriti; contempla quei salti, quelle corvette, quelle orecchie tese, quella bocca che si apre con piccole convulsioni, quelle froge che si dilatano, quel soffio caldo che ne esce, quel crine che si drizza e che danza, quel moto imperioso con cui si lancia sull’oggetto che la natura gli ha destinato; ma non esserne geloso, e pensa ai vantaggi della specie umana: essi compensano in amore tutti quelli che la natura ha dato agli animali, forza, bellezza, leggerezza, rapidità.

Ci sono addirittura animali che non conoscono il piacere. I pesci squamati sono privati di questa dolcezza: la femmina depone sul limo milioni di uova; il maschio che le trova passa su di loro e le feconda con il proprio seme, senza prendersi la briga di sapere a quale femmina appartengano.

La maggior parte degli animali che si accoppiano provano piacere con un solo senso e, non appena questo appetito è soddisfatto, tutto si esaurisce. Nessun animale, fuorché te, conosce gli amplessi; tutto il tuo corpo è sensibile; le tue labbra soprattutto assaporano una voluttà che nulla può stancare, e questo piacere appartiene soltanto alla tua specie; infine, tu puoi dedicarti all’amore in ogni istante, mentre gli animali hanno un periodo stabilito. Se rifletti su queste superiorità, dirai con il conte di Rochester¹⁵ : «L’amore, in un paese di atei, farebbe adorare la Divinità».

Giacché gli uomini hanno ricevuto il dono di perfezionare tutto ciò che la natura concede loro, essi hanno perfezionato l’amore. La pulizia, la cura di se stessi, rendendo la pelle più delicata, aumenta il piacere del tatto, e l’attenzione alla propria salute rende gli organi della voluttà più sensibili.

Tutti gli altri sentimenti entrano in seguito in quello dell’amore, come metalli che si amalgamano con l’oro: l’amicizia, la stima vengono in suo aiuto; le doti del corpo e dell’intelletto danno luogo a nuove catene.

Nam facit ipsa suis interdum foemina factis,

Morigerisque modis, et munde corpore culto,

Ut facile insuescat secum degere vitam

(LUCREZIO, lib. V)¹⁶

L’amor proprio soprattutto rafforza tutti questi legami. Si plaude alla propria scelta, e una folla di illusioni sono gli ornamenti di quest’opera di cui la natura ha gettato le fondamenta.

Ecco ciò che hai al di sopra degli animali; ma, se puoi assaporare tanti piaceri che essi ignorano, quanti dolori anche, di cui le bestie non hanno alcuna idea! La cosa orribile per te è che la natura ha avvelenato nei tre quarti della terra i piaceri dell’amore e le fonti della vita con una malattia spaventosa, cui solo l’uomo va soggetto, e che soltanto in lui infetta gli organi della generazione.

Per questa peste non avviene come per tante altre malattie che sono la conseguenza dei nostri eccessi. Non è stata la dissoluzione ad introdurla nel mondo. Le Frini, le Laidi, le Flore, le Messaline¹⁷ non ne furono colpite; essa è nata in isole dove gli uomini vivevano nell’innocenza, e di là si è diffusa nel vecchio mondo.

Se mai si è potuta accusare la natura di disprezzare la propria opera, di contraddire i propri disegni, di agire contro i propri fini, è stato in questa occasione. E questo il migliore dei mondi possibili? Come! Se Cesare, Antonio, Ottaviano non hanno avuto una simile malattia, non era possibile che essa non facesse morire nemmeno Francesco i? No, ci dicono, le cose sono state così stabilite per il meglio; voglio crederlo, ma non è facile.

Amore cosiddetto socratico

[Amour nommé socratique]

Come è possibile che un vizio, distruttore del genere umano se fosse universale, che un attentato infame contro la natura sia tuttavia così naturale? Esso appare come l’estremo grado della corruzione consapevole, eppure è destino consueto di coloro che non hanno avuto ancora il tempo di essere corrotti. E entrato in cuori novizi, che non hanno ancora conosciuto né l’ambizione, né la frode, né la sete di ricchezza; è la gioventù cieca che, per un istinto confuso, precipita in questo disordine uscendo dall’infanzia.

L’attrazione dei due sessi l’uno per l’altro si manifesta presto; ma, checché si dica delle africane e delle donne dell’Asia meridionale, questa attrazione generalmente è molto più forte nell’uomo che nella donna; è una legge che la natura ha stabilito per tutti gli animali. E sempre il maschio che attacca la donna.

I giovani maschi della nostra specie, allevati insieme, sentendo questa forza che la natura comincia a manifestare in loro, e non trovando l’oggetto naturale del loro istinto, ripiegano su qualcosa che gli assomigli. Spesso un fanciullo, per la freschezza della carnagione, lo splendore del colorito e la dolcezza degli occhi, per due o tre anni assomiglia a una bella ragazza; se lo si ama, è perché la natura s’inganna: si rende omaggio al sesso, subendo il fascino di chi ne ha le bellezze, e, quando l’età ha fatto svanire tale rassomiglianza, l’equivoco cessa.

Citraque juventam

Aetatis breve ver et primos carpere flores¹⁸

(OVIDIO, Met., X, 84-85)

È noto come questo equivoco della natura sia molto più comune nei climi dolci che tra i ghiacci del settentrione, perché il sangue vi è più acceso, e l’occasione più frequente: sicché, ciò che appare una semplice debolezza nel giovane Alcibiade è un disgustoso abominio in un marinaio olandese e in un vivandiere moscovita.

Non posso sopportare che si sostenga che i Greci abbiano autorizzato questa licenza. Si cita il legislatore Solone, perché in due pessimi versi ha detto:

Amerai un bel ragazzo

Finché il suo mento non abbia barba

Ma, diciamo la verità, Solone era legislatore quando compose questi due versi ridicoli? Allora era giovane, e quando il dissoluto diventò saggio, egli si guardò bene dal mettere una tale infamia tra le leggi della sua repubblica; è come se si accusasse Théodore de Bèze ¹⁹d’aver predicato la pederastia nella sua chiesa perché, in gioventù, scrisse dei versi per il giovane Candido, e disse:

Amplector hunc et illam²⁰

Si forza il senso del testo di Plutarco, il quale, nelle sue chiacchiere, nel Dialogo sull’amore, fa dire a un interlocutore che le donne non sono degne del vero amore; ma un altro interlocutore sostiene, come è dovuto, la causa delle donne.

È certo, quanto può esserlo la conoscenza dell’antichità, che l’amore socratico non era affatto un amore infame: è stato il termine amore ad ingannare. Quelli che si chiamavano gli amanti di un giovinetto erano precisamente quello che tra noi sono i paggi dei nostri principi, o che erano i damigelli d’onore, dei giovani addetti all’educazione di un fanciullo nobile, che ne condividevano studi ed esercizi militari: istituzione guerriera e santa di cui si abusò come delle feste notturne e delle orge.

La legione degli amanti istituita da Laio²¹ era una truppa invincibile di giovani guerrieri impegnati da un giuramento a dare la vita gli uni per gli altri; ed è quanto di più bello abbia mai avuto la disciplina antica.

Sesto Empirico²² ed altri hanno un bel dire che la pederastia era raccomandata dalle leggi della Persia. Citino il testo della legge; mostrino il codice dei Persiani, e, se anche dovessero mostrarlo, io seguiterei a non crederci, direi che non è vero, per la ragione che è impossibile. No, non è nella natura umana fare una legge che contraddice e oltraggia la natura, una legge che annienterebbe il genere umano se fosse osservata alla lettera. Quante persone hanno scambiato usanze vergognose, eppure tollerate in un paese, per le leggi di quel paese! Sesto Empirico, che dubitava di tutto, avrebbe dovuto ben dubitare di una simile giurisprudenza. Se vivesse ai nostri tempi, e vedesse due o tre giovani gesuiti abusare di qualche scolaro, avrebbe forse il diritto di dire che questo gioco è permesso loro dai precetti di Ignazio di Loyola?

L’amore per i fanciulli era così comune a Roma, che a nessuno veniva in mente di punire una stupidaggine in cui tutti incappavano. Ottaviano Augusto, quell’assassino dissoluto e codardo, che osò esiliare Ovidio, trovò eccellente che Virgilio cantasse di Alessi e che Orazio componesse piccole odi per Ligurino; ma l’antica legge Scantinia, che proibisce la pederastia, vigeva ancora: l’imperatore Filippo la ripristinò, e cacciò da Roma i giovinetti che facevano il mestiere. Per finire, non credo sia mai esistita una nazione civilizzata che abbia fatto leggi contro i costumi²³.

Amor proprio

[Amour-propre]

Uno straccione dei dintorni di Madrid chiedeva dignitosamente l’elemosina; un passante gli disse: «Non vi vergognate di fare questo mestiere infame, quando potreste lavorare?». «Signore», rispose il mendicante, «vi chiedo del denaro, non dei consigli»; quindi gli voltò le spalle serbando tutta la sua dignità castigliana. Era un fiero accattone, quel signore, la sua vanità si feriva per un nonnulla. Chiedeva l’elemosina per amor proprio, e non sopportava rimproveri da un amor proprio diverso dal suo.

Un missionario, viaggiando in India, incontrò un fachiro tutto incatenato, nudo come una scimmia, sdraiato bocconi, che si faceva frustare per i peccati degli Indiani suoi compatrioti, i quali gli gettavano qualche soldo di quel paese. «Che privazione!», diceva uno degli spettatori. «Privazione?», rispose il fachiro; «sappiate che mi faccio battere in questo mondo solo per potervi ripagare con uguale moneta nell’altro, quando voi sarete cavalli ed io cavaliere.»

Chi ha detto che l’amor proprio è la base di tutti i sentimenti e di tutte le nostre azioni, ha dunque avuto pienamente ragione in India, in Spagna, e in tutta la terra abitabile: e come non si scrive nulla per provare agli uomini che hanno un volto, non c’è bisogno di provar loro che hanno amor proprio. Questo amor proprio è lo strumento della nostra conservazione; assomiglia allo strumento che ci consente di perpetuare la specie: è necessario, ci è caro, ci dà piacere, e bisogna nasconderlo.

Angelo

[Ange]

Angelo, in greco inviato; non se ne saprà molto di più quando si scoprirà che i Persiani avevano dei Peri, gli Ebrei dei Malakim, i Greci i loro Daimonoi.

Ma quel che forse ci dirà di più sarà che tra le prime idee degli uomini c’è sempre stata quella di interporre tra la Divinità e noi degli esseri intermedi; sono i demoni, i geni che furono inventati dall’antichità; l’uomo ha sempre fatto gli dèi a sua immagine. Si vedevano i principi significare i loro ordini con dei messaggeri, e dunque anche la Divinità manda i suoi corrieri: Mercurio, Iride, erano dei corrieri, dei messaggeri.

Gli Ebrei, questo popolo che, unico, fu guidato dalla Divinità stessa, in principio non diedero alcun nome agli angeli che Dio in ultimo si degnava di mandar loro; presero in prestito i nomi che davano loro i Caldei, quando il popolo ebraico fu prigioniero a Babilonia; Michele e Gabriele sono nominati per la prima volta da Daniele, schiavo presso quei popoli. L’ebreo Tobia, che viveva a Ninive, conobbe l’angelo Raffaele che viaggiò con suo figlio per aiutarlo a recuperare del denaro che gli doveva l’ebreo Gabaele.

Nelle leggi degli Ebrei, vale a dire nel Levitico e nel Deuteronomio, non si fa la minima menzione dell’esistenza degli angeli, e a maggior ragione del loro culto; così i sadducei non credevano agli angeli.

Ma nelle storie degli Ebrei se ne parla molto. Questi angeli erano corporei; avevano ali sulla schiena, come i pagani avevano immaginato che Mercurio ne avesse ai talloni; talvolta nascondevano le ali sotto le vesti. E come non avrebbero potuto avere un corpo, dal momento che bevevano e mangiavano, e che gli abitanti di Sodoma vollero commettere il peccato di pederastia con gli angeli che andarono da Loth²⁴?

L’antica tradizione ebraica, secondo Ben Maimon²⁵, contempla dieci gradi, dieci ordini di angeli: 1. i chaios acodesh, puri, santi; 2. gli ofamim, rapidi; 3. gli oralim, i forti; 4. i chasmalim, le fiamme; 5. i seraphim, scintille; 6. i malakim, angeli, messaggeri, deputati; 7. gli eloim, dèi o giudici; 8. i ben eloim, figli degli dèi; 9. cherubim, immagini; 10. ychim, gli animati.

Della storia della caduta degli angeli non c’è traccia nei libri di Mosè; la prima testimonianza che se ne riporta è quella del profeta Isaia che, apostrofando il re di Babilonia, esclama: «Che cosa è diventato l’esattore dei tributi? i pini e i cedri si rallegrano della sua caduta; come sei caduto dal cielo, o Hellel, stella del mattino?». Questo Hellel è stato tradotto con la parola latina Lucifero; in seguito, con un significato allegorico, si è dato il nome di Lucifero al principe degli angeli che fecero la guerra in cielo; e infine questo nome, che significa fosforo e aurora, è diventato il nome del diavolo.

La religione cristiana è fondata sulla caduta degli angeli. Quelli che si ribellarono furono precipitati dalle sfere in cui abitavano nell’inferno al centro della terra, e divennero diavoli. Un diavolo tentò Èva sotto forma di serpente, e dannò il genere umano. Gesù venne per riscattare il genere umano, e trionfare sul diavolo, che ancora ci tenta. Tuttavia, questa fondamentale tradizione si trova soltanto nel libro apocrifo di Enoch, e peraltro in una versione del tutto differente dalla tradizione canonica.

Sant’Agostino, nella sua 109a lettera, non ha alcuna difficoltà ad attribuire corpi delicati e agili agli angeli buoni e malvagi. Papa Gregorio ²⁶ ha ridotto a nove cori, a nove gerarchie o ordini, i dieci cori di angeli riconosciuti dagli Ebrei: sono i serafini, i cherubini, i troni, le dominazioni, le virtù, le potenze, i principati, gli arcangeli e infine gli angeli, che danno il nome alle altre otto gerarchie ²⁷.

Gli Ebrei avevano nel tempio due cherubini, ciascuno a due teste, una di bue e l’altra di aquila, e con sei ali. Oggi noi li raffiguriamo con l’immagine di una testa volante, con due piccole ali al di sopra delle orecchie. Angeli e arcangeli li dipingiamo come giovinetti con due ali sulla schiena. Quanto ai troni e alle dominazioni, a nessuno è ancora venuto in mente di dipingerli.

San Tommaso, nella questione CVIII, articolo secondo, dice che i troni sono vicini a Dio quanto i cherubini e i serafini, perché è sopra di essi che Dio è seduto. Scoto ha contato mille milioni di angeli. Passata dall’Oriente in Grecia e a Roma l’antica mitologia dei buoni e dei cattivi geni, consacrammo questa opinione, ammettendo per ogni uomo un angelo buono e uno malvagio, uno dei quali l’assiste, e l’altro gli reca danno dalla nascita fino alla morte; ma ancora non si sa se questi buoni e cattivi angeli passino continuamente dal loro posto a un altro o se siano sostituiti da altri. Consultate in proposito la Somma²⁸ di san Tommaso.

Non è noto esattamente dove risiedano gli angeli, se nell’aria, nel vuoto, nei pianeti: Dio non ha voluto che ne fossimo istruiti.

Anima

[Ame]

Sarebbe bello vedere la propria anima. Conosci te stesso è un ottimo precetto, ma solo a Dio è concesso metterlo in pratica: chi altri può conoscere la propria essenza?

Chiamiamo anima ciò che anima. Non ne sappiamo di più, a causa dei limiti della nostra intelligenza. I tre quarti del genere umano non vanno oltre, e non si fanno carico dell’essere pensante; l’altro quarto cerca; nessuno però ha trovato, né troverà.

Povero filosofo: vedi una pianta che vegeta, e dici vegetazione, oppure anima vegetativa. Osservi che i corpi sono dotati di moto e

lo trasmettono, e dici forza; vedi il tuo cane da caccia imparare il suo mestiere sotto la tua guida, e gridi istinto, anima sensitiva; hai idee complesse, e dici spirito.

Ma, di grazia, che cosa intendi con queste parole? Questo fiore vegeta, ma esiste forse un essere reale che si chiama vegetazione? Questo corpo ne spinge un altro, ma possiede in sé un essere distinto che si chiama forza? Questo cane riporta una pernice, ma c’è un essere che si chiama istinto? Non rideresti di un ragionatore (quand’anche fosse stato precettore di Alessandro²⁹) che ti dicesse: «tutti gli animali vivono, dunque c’è in essi un ente, una forma sostanziale che è la vita»?

Se un tulipano potesse parlare, e ti dicesse: «La mia vegetazione ed io siamo due esseri uniti evidentemente, insieme», non ti burleresti del tulipano?

Innanzitutto vediamo ciò che sai, e di cui sei certo: che cammini con i piedi; che digerisci con lo stomaco; che senti con tutto il corpo, e che pensi con la testa. Vediamo se la tua sola ragione ha potuto darti lumi sufficienti per arrivare, senza un soccorso soprannaturale, alla conclusione che hai un’anima.

I primi filosofi, fossero caldei o egizi, dissero: «Esiste necessariamente in noi qualcosa che genera i nostri pensieri; questo qualcosa dev’essere estremamente sottile: un soffio, un fuoco, un etere, una quintessenza, un lieve simulacro, un’entelechia, un numero, un’armonia». Infine, secondo il divino Platone, è un composto ddYidentico e dell’altro. «Degli atomi pensano in noi», ha detto Epicuro seguendo Democrito. Ma, amico mio, com’è che pensa un atomo? ammetti che non ne sai nulla.

L’opinione cui dobbiamo in ogni caso attenerci è che l’anima è un ente immateriale; quel che è certo è che non concepiamo che cosa sia questo ente immateriale. «No», rispondono i sapienti, «ma sappiamo che la sua natura è di pensare.» «E come lo sapete?» «Lo sappiamo, perché pensa.» O sapienti! temo proprio che non siate meno ignoranti di Epicuro: la natura di una pietra è di cadere, perché essa cade; ma io vi domando chi la fa cadere.

«Noi sappiamo», proseguono, «che una pietra non ha anima.» D’accordo, lo credo anch’io. «Sappiamo che una negazione e un’affermazione non sono divisibili, non sono parti della materia.» La penso come voi. Ma la materia, del resto a noi sconosciuta, possiede qualità che non sono materiali, che non sono divisibili: la gravitazione verso un centro, che Dio le ha dato. Ora, questa gravitazione non ha parti, non è divisibile, la forza motrice dei corpi non è un essere composto di parti. La vegetazione dei corpi organizzati, la loro vita, il loro istinto, nemmeno essi sono esseri a parte, esseri divisibili; non potete tagliare in due la vegetazione di una rosa, la vita di un cavallo, l’istinto di un cane, più di quanto non possiate tagliare in due una sensazione, una negazione, un’affermazione. Il vostro bell’argomento, fondato sull’indivisibilità del pensiero, non prova dunque un bel niente.

Cos’è che chiamate allora la vostra anima? Che idea ne avete? Da soli non potete, senza rivelazione, non ammettere in voi altra cosa che un potere a voi ignoto di sentire, di pensare.

Ed ora ditemi, in fede, questo potere di sentire e di pensare è lo stesso che vi fa digerire e camminare? Ammetterete di no, giacché il vostro intelletto avrebbe un bel dire al vostro stomaco: digerisci; quest’ultimo non farà nulla se è malato; il vostro essere immateriale ordinerebbe invano ai vostri piedi di camminare, se hanno la gotta non si muoveranno.

I Greci hanno ben compreso che spesso il pensiero non aveva niente a che fare con il gioco dei nostri organi; per questi organi hanno ammesso un’anima animale, e per i pensieri un’anima più fine, più sottile, un νοῦς .

Ma ecco che quest’anima del pensiero, in mille occasioni, ha giurisdizione sull’anima animale. L’anima pensante ordina alle mani di prendere, e queste prendono. Non dice al cuore di battere, al sangue di scorrere, al chilo di formarsi; tutto ciò avviene senza di lei: due anime, queste, alquanto confuse e assai poco padrone in casa loro.

Ora, di certo questa prima anima animale non esiste, altro non è che il moto dei nostri organi. Ma sta’ attento, uomo! non hai prove maggiori, con la tua gracile ragione, che esista l’altra anima. Non puoi saperlo se non per fede. Sei nato, vivi, agisci, pensi, vegli, dormi, senza sapere come. Dio ti ha dato la facoltà di pensare, come ti ha dato tutto il resto; e se non fosse venuto a insegnarti, nel tempo stabilito dalla sua provvidenza, che hai un’anima immateriale e immortale, non ne avresti alcuna prova.

Vediamo che bei sistemi la tua filosofia ha fabbricato su queste anime.

Uno dice che l’anima dell’uomo è parte della sostanza di Dio stesso; l’altro, che è parte del gran tutto; un terzo, che è creata da tempo immemorabile; un quarto, che è fatta ma non creata; altri assicurano che Dio forma le anime nella misura in cui sono necessarie, e che esse arrivano nell’attimo della copulazione. «Dimorano negli animalucoli seminali», grida l’uno. «No», dice l’altro, «trovano riparo nelle trombe di Falloppio.» «Avete tutti torto», sopravviene un terzo, «l’anima attende sei settimane prima che il feto sia formato, e allora prende possesso della ghiandola pineale; ma se trova un falso seme, torna indietro, in attesa di una miglior occasione.» L’ultima opinione è che la sua dimora sia nel corpo calloso; questo è il posto che le assegna La Peyronie ³⁰; bisognava essere primo chirurgo del re di Francia per decidere così della sede deH’anima. Tuttavia questo corpo calloso non ha avuto la stessa fortuna di quel chirurgo.

San Tommaso, nella questione 75a e seguenti³¹ , dice che l’anima è una forma sussistente per sé, che è tutta in un tutto, che la sua essenza differisce dalla sua potenza, che esistono tre anime vegetative, ossia la nutritiva, l'Accrescitiva, la generativa; che la memoria delle cose spirituali è spirituale, e la memoria di quelle corporee è corporea; che l’anima ragionevole è una forma «immateriale riguardo alle operazioni, e materiale riguardo all’essere». San Tommaso ha scritto duemila pagine di una simile forza e chiarezza; egli è così l’angelo della scuola³² .

Non meno numerosi sono i sistemi sul modo in cui quest’anima sentirà quando avrà abbandonato il corpo mediante il quale sentiva; come udrà senza orecchie, fiuterà senza naso, toccherà senza mani; quale corpo in seguito assumerà, se quello che aveva a due o a ottant’anni; come l'io, l’identità della stessa persona sussisteranno; come l’anima di un uomo divenuto imbecille all’età di quindici anni, e morto imbecille all’età di settanta, riprenderà il filo delle idee che aveva all’epoca della pubertà; con quale gioco di prestigio un’anima che abbia avuto una gamba tagliata in Europa e un braccio perduto in America, ritroverà quella gamba e quel braccio, i quali, trasformati in legumi, saranno intanto passati nel sangue di qualche altro animale. Non si finirebbe più se si volesse render conto di tutte le stravaganze che questa povera anima umana ha immaginato su se stessa.

La cosa più singolare è che nelle leggi del popolo di Dio non si fa parola della spiritualità e dell’immortalità dell’anima: niente nel Decalogo, niente nel Levitico e neanche nel Deuteronomio.

È certissimo, è indubbio che in nessun luogo Mosè propone agli Ebrei ricompense e pene in un’altra vita, che non parla mai dell’immortalità delle loro anime, che non fa affatto sperar loro il cielo né li minaccia dell’inferno: tutto è temporale.

Prima di morire, dice loro nel Deuteronomio³³ : «Se, dopo aver avuto dei figli e dei nipoti, prevaricherete, sarete sterminati dal paese, e ridotti a un piccolo numero tra le nazioni³⁴ .

Io sono un Dio geloso, che punisce l’iniquità dei padri fino alla terza e alla quarta generazione³⁵ .

Onorate il padre e la madre, affinché i vostri giorni siano prolungati ³⁶.

Avrete di che mangiare senza mancarne mai³⁷ .

Se seguirete dèi stranieri, sarete distrutti...³⁸ .

Se obbedirete, avrete pioggia in primavera; e in autunno frumento, olio, vino, fieno per le vostre bestie, affinché possiate mangiare e saziarvi³⁹ .

Mettete queste parole nei vostri cuori, nelle vostre mani, tra i vostri occhi, scrivetele sulle vostre porte, affinché i vostri giorni si moltiplichino ⁴⁰.

Fate ciò che vi ordino, senza aggiungere o togliere nulla ⁴¹.

Se sorgerà un profeta che predirà cose prodigiose, se la sua predizione sarà veritiera, se quanto aveva detto accadrà, e se dirà: Suvvia, adoriamo dèi stranieri..., uccidetelo subito, e che tutto il popolo colpisca dopo di voi⁴².

Quando il Signore vi avrà consegnato le nazioni, sgozzate tutti senza risparmiare un solo uomo, e non abbiate pietà di nessuno⁴³ .

Non mangiate uccelli impuri, come l’aquila, il grifone, l’issione, ecc.⁴⁴ .

Non mangiate animali che ruminino o che non abbiano l’unghia spartita, come cammello, lepre, porcospino, ecc.⁴⁵ .

Osservando tutti i comandamenti, sarete benedetti nelle città e nelle campagne; i frutti del vostro ventre, della vostra terra, delle vostre bestie, saranno benedetti...⁴⁶ .

Se non osserverete tutti i comandamenti e tutte le cerimonie, sarete maledetti nelle città e nelle campagne... patirete la carestia, la povertà: morrete di miseria, di freddo, di povertà, di febbre; avrete la rogna, la lebbra, la fistola... avrete ulcere nelle ginocchia e nella carne delle gambe⁴⁷ .

Lo straniero vi presterà denaro a usura, e voi non potrete fare altrettanto... perché non avrete servito il Signore⁴⁸ .

E mangerete il frutto del vostro ventre, e la carne dei vostri figli e delle vostre figlie, ecc.⁴⁹ ».

È evidente che in tutte queste promesse e in tutte queste minacce non v’è nulla che non sia temporale, e che non vi si trova una sola parola sull’immortalità dell’anima e sulla vita futura.

Parecchi illustri commentatori hanno creduto che Mosè fosse perfettamente edotto su questi due grandi dogmi; e ne adducono a prova le parole di Giacobbe, il quale, credendo che suo figlio fosse stato divorato dalle belve, diceva nel suo dolore: «Io scenderò con mio figlio nella fossa, in infernum, nell’inferno»⁵⁰ ; vale a dire morirò, poiché mio figlio è morto.

Ne adducono a prove anche alcuni passi di Isaia e di Ezechiele; ma gli Ebrei ai quali parlava Mosè non potevano aver letto né Ezechiele né Isaia, che vennero solo parecchi secoli dopo.

È perfettamente inutile disputare sui sentimenti segreti di Mosè. Il fatto è che nelle leggi pubbliche egli non ha mai parlato di una vita a venire, e che limita ogni castigo e ogni ricompensa al tempo presente. Se conosceva la vita futura, perché non ha trattato espressamente questo grande dogma? e se non l’ha conosciuta, qual era il fine della sua missione? E un interrogativo che molti grandi personaggi pongono; essi rispondono che il Signore di Mosè e di tutti gli uomini si riservava il diritto di spiegare a suo tempo agli Ebrei una dottrina che costoro non erano in grado di comprendere quando erano nel deserto.

Se Mosè avesse annunciato il dogma dell’immortalità deU’anima, una grande scuola di Ebrei non l’avrebbe sempre combattuta; questa grande scuola dei sadducei⁵¹ non sarebbe stata autorizzata nello Stato; i sadducei non avrebbero occupato le più alte cariche; dalle loro file non si sarebbero tratti grandi sacerdoti.

Sembra che solo dopo la fondazione di Alessandria gli Ebrei si divisero in tre sètte: i farisei, i sadducei e gli esseni. Lo storico Giuseppe, che era fariseo, ci informa, nel libro XIII delle sue Antichità⁵², che i farisei credevano nella metempsicosi; i sadducei erano convinti che l’anima perisse con il corpo; gli esseni, dice ancora Giuseppe, ritenevano le anime immortali; le anime, secondo loro, scendevano in forma aerea nei corpi dalla più alta regione dell’aria; esse vi sono ricondotte da una violenta attrazione, e dopo la morte quelle che sono appartenute ai buoni dimorano al di là dell’Oceano, in un paese dove non c’è né caldo né freddo, né vento né pioggia. Le anime dei malvagi finiscono in un clima esattamente opposto. Questa era la teologia degli Ebrei.

Colui che solo doveva istruire tutti gli uomini venne a condannare queste tre sette; ma senza di lui non avremmo mai potuto conoscere nulla della nostra anima, giacché i filosofi non ne hanno mai avuto un’idea ben precisa, e Mosè, solo vero legislatore del mondo prima del nostro, Mosè, che parlava a faccia a faccia con Dio e che lo vedeva solo di spalle, ha lasciato gli uomini in una profonda ignoranza su questo grande argomento. Dunque solo da millesettecento anni si è certi dell’esistenza dell’anima e della sua immortalità.

Cicerone aveva soltanto dei dubbi; suo nipote e sua nipote poterono conoscere la verità dai primi galilei che vennero a Roma.

Ma prima di quel tempo, e dopo in tutto il resto della terra dove gli apostoli non penetrarono, ognuno doveva dire alla propria anima: «Chi sei? da dove vieni? che fai? dove vai? Tu sei un non so che, pensante e sensibile, e quand’anche sentissi e pensassi per centomila milioni di anni, non ne sapresti comunque di più sul tuo conto, con i tuoi soli lumi, senza l’aiuto di un Dio».

O uomo! Questo Dio ti ha dato l’intelletto per ben regolarti, e non per penetrare l’essenza delle cose che lui ha creato.

⁵³Così ha pensato Locke, e prima di Locke Gassendi, e prima di Gassendi una quantità di dotti; ma ora abbiamo dei baccellieri che sanno tutto quello che quei grandi uomini ignoravano.

Dei crudeli nemici della ragione hanno osato sollevarsi contro queste verità riconosciute da tutti i sapienti. Hanno spinto la malafede e l’impudenza fino a imputare agli autori di quest’opera la convinzione che l’anima sia materia. Sapete bene, persecutori dell’innocenza, che abbiamo detto tutto il contrario. Sapete bene che a pagina 17 ci sono queste precise parole contro Epicuro, Democrito e Lucrezio: «Amico mio, com’è che pensa un atomo? ammetti che non ne sai nulla». E dunque evidente che voi

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