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Il piccolo villaggio dei sopravvissuti
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E-book346 pagine5 ore

Il piccolo villaggio dei sopravvissuti

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La storia vera di tre ragazzi che salvarono 1200 ebrei

I tre fratelli che sfidarono i nazisti e salvarono 1200 ebrei

Nell’estate 1941, tre fratelli assistono inermi alla deportazione della propria famiglia, una scena agghiacciante che purtroppo si ripeterà migliaia di volte durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ma, anziché arrendersi o scappare il più lontano possibile, i tre ragazzi – Tuvia, Zus e Asael Bielski – decidono di disobbedire ai nazisti e resistergli, ingaggiando un’insolita forma di guerriglia. Sfruttando la loro profonda conoscenza delle foreste della Polonia, riescono infatti a costruire un campo segreto tra la fitta boscaglia e a convincere a poco a poco tutti gli altri ebrei della zona a nascondersi in questo strano rifugio. Così, giorno dopo giorno, i fratelli Bielski daranno vita a quella che è stata definita la “Gerusalemme dei boschi”, la più grande operazione di salvataggio di ebrei da parte di altri ebrei della Seconda Guerra Mondiale. E, dopo due anni e mezzo di vita nella natura, i membri di questa comunità – ben 1.200 ebrei – potranno uscire sani e salvi dalla foresta, dopo che l’Armata Rossa avrà messo in fuga i nazisti.

La storia che ha ispirato il film Defiance. I giorni del coraggio con Daniel Craig

La vera storia dei tre ragazzi che costruirono un villaggio in un bosco e salvarono 1200 ebrei.

Un racconto verità senza uguali, tre persone comuni, tre veri eroi.

Tradotto in 15 Paesi, un bestseller internazionale.

«Avvincente e davvero commovente. Un vero atto d’eroismo compiuto da gente comune.»
Washington Post

«Il libro di Duffy è un tributo, avvincente e meritato, alle capacità e al coraggio dei fratelli Bielski.»
The Times

«Una storia piena di fascino!»
The Economist

Peter Duffy
è nato e cresciuto a Syracuse, New York. Giornalista freelance, ha collaborato con diverse testate, fra cui «The New York Times», «The Wall Street Journal», «The New Republic». Il suo primo libro, Il piccolo villaggio dei sopravvissuti, è stato tradotto in francese, catalano, giapponese, tedesco, ebraico, polacco, cinese, portoghese, olandese, svedese, norvegese e russo. Vive nel Lower East Side, Manhattan, con sua moglie e sua figlia.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2014
ISBN9788854170759
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    Anteprima del libro

    Il piccolo villaggio dei sopravvissuti - Peter Duffy

    1

    Dallo zar al Führer

    A fine Ottocento, Elisheva e Zusya Bielski, i nonni di Tuvia, Asael e Zus, si stabilirono su un appezzamento di terra coltivabile nel minuscolo paesino di Stankiewicze, nella regione bielorussa della Russia zarista. Più che di un paesino si trattava di un gruppetto di case in legno, una decina circa, sorte in cima a una bassa collina, in uno degli angoli più poveri e arretrati d’Europa. L’abitazione dei Bielski si ergeva separata dal resto della comunità, ai piedi dell’altura e sulla sponda opposta di un piccolo lago alimentato da un fiume. E di fatto i Bielski, essendo gli unici ebrei del paese, erano considerati dei diversi.

    Il fondo di famiglia, affittato da un nobile decaduto con un debole per l’alcol e le scommesse, comprendeva un mulino ad acqua e due stalle. Non appena arrivati al paese su un carretto trainato da un cavallo, Zusya e il figlio minore David si misero in affari, trasformando i cereali in farine e vari derivati.

    Gli altri figli di Elisheva e Zusya erano sposati e abitavano in città, come la maggior parte degli ebrei insediatisi nella zona di residenza, l’ampia striscia di terra che si estendeva dal Baltico al mar Nero dove lo zar aveva imposto alla comunità di risiedere. All’interno di questo grande ghetto, gli ebrei erano soggetti a una serie inesauribile di decreti discriminatori, costretti a versare ogni genere di tasse onerose, impossibilitati a parlare la loro lingua madre, lo yiddish, e a prestare servizio nel pubblico impiego persino nelle posizioni più basse. Le restrizioni zariste avevano anche reso difficile per gli ebrei stabilirsi nelle aree rurali, ma Elisheva e Zusya erano abituati da tempo a lavorare la terra lontano dai centri abitati.

    La famiglia era da poco arrivata a Stankiewicze quando lo zar promulgò un’altra serie di decreti antisemiti, tra cui uno che dichiarava illegale per gli ebrei comprare, vendere, gestire o affittare fondi rurali. L’ordinanza gettò l’anziana coppia in uno stato di profonda angoscia, dettata dal timore di venire cacciata da un momento all’altro dalla propria casa.

    Con la determinazione necessaria agli ebrei per sopravvivere sotto lo zar, però, David escogitò un modo per permettere alla famiglia di rimanere a Stankiewicze. Strinse un accordo con uno dei vicini, un polacco di nome Kuszel, e trasferì il contratto della proprietà a nome del gentile. L’uomo accettò di essere coinvolto nell’attività dei Bielski solo nominalmente e il patto permise alla famiglia di rimanere in affari. Nondimeno, lo stress della situazione andò ad aggiungersi alle sofferenze di Elisheva, afflitta da una serie di problemi di salute. David portò la madre da diversi medici, ma senza risultato: Elisheva morì in un ospedale di Vilna, la capitale lituana. A cavallo del secolo, il giovane David era pronto per farsi una famiglia propria. Sposò Beyle Mendelevič, la figlia di un negoziante della vicina Petrevič, e iniziò la vita del mugnaio, felice di seguire le orme dell’anziano padre, che a sua volta era contento di poter assistere all’arrivo di una nuova generazione. Quando il vecchio Zusya morì, nel 1912, Beyle aveva già dato alla luce quattro figli, Velvel, Tuvia, Taibe e Asael, e un quinto era in arrivo. In onore del padre di David, il neonato fu chiamato Zusya, detto anche Zisel o Zus.

    I bambini crebbero in un ambiente contadino semplice, molto prima dell’arrivo dell’elettricità o dell’acqua corrente, in una regione, la Bielorussia, che aveva subìto per secoli la dominazione delle vicine più grandi: Russia, Polonia e Lituania. Era un mondo di arcaiche case in legno dai tetti di paglia, in cui le proprietà più preziose di un contadino erano il suo cavallo e il carretto a quattro ruote. Con il passare degli anni la famiglia acquistò animali di ogni tipo, inclusi alcuni cavalli, diverse vacche e qualche pecora; tutto il cibo che mangiavano era prodotto dal loro lavoro. I genitori avevano la loro camera da letto, mentre i bambini dividevano lo spazio restante, dormendo in più di uno nello stesso letto o, in estate, stanchi dopo una lunga giornata di lavoro, sulla paglia nel granaio.

    Qualcuno di loro ricevette un po’ più d’istruzione, altri meno, ma la maggior parte non arrivò molto in là, religiose o laiche che fossero le scuole. A volte David assumeva un insegnante che veniva a casa. Altre volte uno dei bambini veniva mandato a vivere con un parente a Nowogródek, la città più vicina con una ragguardevole popolazione ebraica, per poter frequentare la scuola. Anche la sinagoga più prossima si trovava in città, un viaggio di quindici chilometri per il quale con cavallo e carretto ci volevano tre ore, cosa che rendeva difficile per la famiglia partecipare regolarmente alle funzioni. Come luogo di culto veniva così usata una dimora privata. Per lo Shabbat e le festività sacre, i Bielski si recavano a casa della famiglia Dziencielski, che viveva nel villaggio di Vjalikaja Izva, raggiungibile attraverso il bosco percorrendo un sentiero di due chilometri. Come i Bielski, i Dziencielski facevano i mugnai ed erano i soli ebrei del loro paese.

    David guidava a volte la congregazione nella preghiera, usando un rotolo della Torah che veniva tenuto a casa dei Dziencielski. Non aveva ricevuto una grande istruzione, ma aveva una voce melodiosa e una buona padronanza dei testi sacri.

    I bambini impararono le lingue locali, bielorusso, russo e polacco, che parlavano con una scioltezza che spesso mancava alla maggior parte dei loro correligionari bielorussi residenti nei quartieri ebraici in città. L’attività del mulino richiedeva alla famiglia di entrare costantemente in contatto con i vicini, bielorussi cristiano-ortodossi e polacchi cattolici. Pienamente cosciente di essere un ebreo che viveva isolato in un’epoca in cui la violenza antisemita era all’ordine del giorno, David sviluppò una natura conciliante che mirava alla pace più che allo scontro.

    Un giorno, sospettando che la famiglia gestisse la proprietà in violazione agli ordini dello zar, arrivarono i funzionari del governo zarista. David e Beyle li invitarono alla loro tavola e continuarono a offrire loro cibo e alcol, fino a che i funzionari non uscirono di casa incespicando, dopo aver bevuto al punto da stordirsi. Gli uomini dello zar non fecero rapporto. Quando poi dei banditi si presentavano a chiedere denaro o provviste, la coppia li trattava con la stessa gentilezza, tirando fuori la riserva speciale di vodka.

    David Bielski non era un combattente.

    Durante il primo anno della Grande guerra, quando i bambini erano ancora piccoli, troppo giovani per essere arruolati nelle forze imperiali, l’esercito tedesco si scagliò contro l’impero russo. Fu il promettente inizio di sei anni tumultuosi per gli abitanti del distretto dei Bielski. Gli invasori, come molti altri prima di loro, presero la via più breve verso la capitale russa, direttamente attraverso il cuore della Bielorussia, e durante l’offensiva dell’estate 1915 la regione attorno a Stankiewicze divenne zona d’occupazione.

    I tedeschi furono meno duri nei confronti della popolazione ebraica di quanto non fossero stati i Romanov. L’imperatore russo, all’epoca Nicola II, aveva ordinato l’espulsione di circa mezzo milione di ebrei dalle sue terre, perché dubitava della loro lealtà. Gli occupanti proponevano uno stile di governo più misurato, revocando le misure antisemite e persino emanando una dichiarazione di amicizia.

    Non lontano dall’abitazione dei Bielski, un gruppo di soldati tedeschi trasformò una grande casa abbandonata in un avamposto militare. Il giovane Tuvia, che aveva sì e no dieci anni e mostrava scarso interesse per la scuola, fece amicizia con gli uomini e presto iniziò a bighellonare da quelle parti ogni giorno. I tedeschi presero in simpatia il ragazzino, gli regalavano sigarette per il padre e di tanto in tanto gli offrivano un pezzo di carne di cervo. «Non chiedevo se fosse kosher o meno», disse in seguito. «Eravamo in guerra». Le sue visite durarono due anni, abbastanza per acquisire una discreta padronanza del tedesco.

    La guerra causò disagi e patimenti in tutto l’impero russo. Gli operai delle fabbriche con i loro salari miserevoli riuscivano a malapena a sopravvivere, i soldati disertavano per sfuggire alle sanguinose battaglie e i contadini avevano a stento di che nutrirsi. L’inverno del 1916, uno dei più rigidi nella storia della Russia, non fece che peggiorare l’indigenza generale. Grazie al vecchio mulino, però, la famiglia Bielski fu in grado di sottrarsi alle privazioni, dato che i clienti continuavano ad aver bisogno di trasformare il loro grano o la segale in farine di ogni tipo. Spesso i contadini pagavano con le sole cose che possedevano: grano, segale o mais. In ogni caso, i Bielski avrebbero sempre avuto da mangiare.

    A un certo punto, le difficoltà della guerra, le privazioni e il malcontento della popolazione contribuirono a gettare il Paese nel caos. Nel febbraio del 1917 lo zar abdicò e fu costituito un governo provvisorio che prometteva riforme democratiche. Ma il nuovo governo non fece molto meglio di quello precedente. Il 25 ottobre (il 7 novembre secondo il calendario moderno) i bolscevichi, guidati dal quarantasettenne agitatore politico Vladimir Il’ič Ul’janov, che prese il nome di Lenin, rovesciarono il vacillante governo provvisorio. Lenin si accingeva a instaurare la sua tanto ambita dittatura del proletariato.

    Non essendo in grado di dedicare molte energie alla guerra con i tedeschi, i bolscevichi chiesero la pace. Con il trattato di Brest-Litovsk, firmato il 3 marzo 1918, Lenin cedette la Bielorussia a un governo polacco appena costituito sotto il controllo tedesco. Ma i leader politici, a Minsk, ignorarono il trattato e il 25 marzo 1918 dichiararono in tutta fretta uno Stato libero e indipendente. Per la prima volta nella storia, una nazione portò il nome di Bielorussia. Ma i suoi leader ebbero giusto il tempo di posare per le fotografie di rito che il Paese cessò di esistere. Quando le potenze occidentali ebbero la meglio sulla Germania, più tardi quello stesso anno, Lenin ignorò sia il trattato sia la dichiarazione di indipendenza bielorussa e, nel gennaio del 1919, il Paese fu incorporato nella neonata Unione Sovietica.

    «Non così in fretta», replicarono i polacchi, che stavano costruendo uno Stato indipendente dalle macerie della guerra dopo più di cento anni di assenza dal panorama europeo.

    «Ebbri del nuovo vino della libertà», per dirla con le parole di uno statista, i polacchi volevano la Bielorussia, così come la Lituania, la Galizia e l’Ucraina (tutte terre che nei secoli passati avevano fatto parte della Polonia), per potenziare le frontiere orientali del Paese. La Bielorussia era stata a lungo patria di una ricca classe di possidenti polacchi, la nobiltà terriera della nazione povera, e questi volevano che i loro domini fossero ripristinati.

    Guidate dal maresciallo Józef Piłsudski, che aveva trascorso gli ultimi anni della prima guerra mondiale in una prigione tedesca perché rifiutava di giurare fedeltà al Kaiser, tra il 1919 e l’inizio del 1920 le truppe polacche invasero la Bielorussia e parte della Lituania. I polacchi incontrarono poche difficoltà nell’occupare la regione, soprattutto perché buona parte dell’Armata rossa era impegnata a combattere una guerra civile più a oriente, e presero Minsk, la capitale bielorussa, nell’agosto del 1919.

    La guerra sovietico-polacca fu combattuta su territori abitati da un gran numero di ebrei. La maggior parte rimase neutrale, cosa che suscitò la rabbia dei polacchi, i quali risposero scatenando dei feroci pogrom in diverse città. Anche la famiglia Bielski cercò di evitare di prendere posizione, persino quando la guerra infuriava attorno a Stankiewicze. Quando i bolscevichi requisirono un carretto trainato da un cavallo di proprietà della famiglia, Tuvia, allora adolescente ma deciso a non dare per persi i suoi beni, lavorò per sei settimane per i russi come traduttore dal polacco, prima di tornare a casa con il cavallo e il carretto.

    Avendo avuto successo al N ord, le legioni di Piłsudski, come venivano chiamate, marciarono verso sud, conquistando Kiev, in Ucraina, nel maggio del 1920. Ma l’Armata rossa, dopo aver vinto la guerra civile, schierò le sue forze e lanciò il contrattacco. Tenuta dai polacchi per meno di un mese, Kiev fu riconquistata dall’avanzata bolscevica, che nel giro di sei settimane si spinse fino alle porte di Varsavia. Lenin era impaziente di diffondere la rivoluzione e il comunismo nell’Europa centrale. Ma Piłsudski non era ancora sconfitto. Le sue truppe risorte attaccarono l’Armata rossa da sud, infliggendole abbastanza danni da costringere Lenin al tavolo delle trattative, in un trionfo che i polacchi chiamarono il miracolo della Vistola.

    Dopo lunghi negoziati, il 18 marzo 1921 fu firmato il trattato di Riga. L’accordo assegnava la porzione occidentale della Bielorussia, incluso il villaggio in cui vivevano i Bielski, alla neocostituita Seconda repubblica di Polonia.

    Fu uno strano periodo, in cui a Stankiewicze sembrava di stare molto lontano dai tumulti. I collegamenti telegrafici, anche tra grandi città, erano difficili e i giornali che raggiungevano le campagne venivano tagliati e usati come cartine per le sigarette. I Bielski vivevano isolati, ma che cosa avevano bisogno di sapere? I nuovi governanti, come i vecchi, li avrebbero di certo trattati con durezza e sospetto.

    In quegli anni di guerra, David Bielski riuscì a porre fine alla sua collaborazione con il vicino polacco Kuszel e a trasferire la proprietà a suo nome. Con l’aiuto di moglie e figli ampliò l’attività, viaggiando fino alle cittadine di Nowogródek e Lida, trenta chilometri a nord-ovest, per consegnare i prodotti ai clienti. I vicini contadini erano colpiti dalla sua attività, e molti arrivarono a considerare la famiglia benestante. Non che fossero davvero ricchi – i lussi che si permettevano erano pochi –, ma stavano decisamente meglio del resto della popolazione dei dintorni.

    «Nel nostro paese c’era un piccolo mulino, ma non era come il loro», ricorda Mar’ja Nestor, una bielorussa nata nel 1911 e cresciuta vicino a Stankiewicze. «Loro avevano un vero mulino, ed era molto popolare».

    Beyle Bielski, una donna cordiale, molto più schietta e socievole del marito, continuava a fare figli a un ritmo abbastanza regolare. Tra il 1912 e il 1921 ne nacquero altri quattro, tre maschi, uno dei quali morì subito dopo la nascita, e una femmina, la seconda della coppia.

    I figli più grandi erano ormai adolescenti. Il più vecchio, Velvel, si stava dimostrando un giovane serio interessato agli studi, mentre Tuvia, nato nel 1906, rivelava una natura più avventurosa e combattiva. A differenza del padre, non era disposto a passar sopra agli affronti dei rozzi contadini.

    Quando alcuni agricoltori rubarono una parte del fieno dei Bielski, Tuvia decise di affrontare i responsabili del furto. «Torna a casa», disse uno di loro, «o le prendi». Il ragazzo tornò a casa («Ero solo e non volevo fare una scenata») e riferì a Velvel la minaccia dell’uomo. Il fratello maggiore si limitò a scrollare le spalle. Ma i due fratelli minori di Tuvia, Asael, di due anni più giovane, e Zus, più piccolo di sei, a sentire la storia si infuriarono e i tre decisero di saldare i conti.

    Armati di falci s’incamminarono verso i nemici della famiglia. Ne seguì un acceso diverbio, durante il quale uno dei fratelli fece per colpire un contadino con la lama della falce. Il colpo lo mancò, in parte anche perché l’uomo si spaventò al punto da girare i tacchi e fuggire, seguito in men che non si dica dai suoi compari.

    Tempo dopo, quando un contadino che aveva affittato parte dei campi della famiglia fu a sua volta scoperto a sottrarre il fieno dei Bielski, Tuvia decise di nuovo di porre rimedio alla situazione. Sempre armato di falce, il ragazzo si avvicinò al ladro, ugualmente armato, e a quattro suoi amici. «Vattene di qui o ti uccido», urlò il contadino. Tuvia ignorò la minaccia e atterrò l’uomo, prendendolo a pugni. Nel vedere il loro compare battuto da un ragazzo, gli altri quattro si misero a ridere. «Un giovane ebreo ha avuto la meglio su un furfante di cui l’intero paese ha paura», disse uno.

    Da quel giorno, il fieno dei Bielski fu al sicuro. Tuvia si era ormai fatto la reputazione di essere un violento… e la prima scintilla di quello che più tardi lui stesso chiamerà «orgoglio ebraico» aveva fatto la sua comparsa.

    Il nuovo governo a capo della regione in cui vivevano i Bielski non era particolarmente benevolo nei confronti degli ebrei, e l’antisemitismo istituzionale rimaneva all’ordine del giorno. C’erano tasse punitive e restrizioni per l’esercizio della libera professione. Un rigido sistema di quote limitava l’ingresso della gran parte degli ebrei nelle università polacche, e quelli che ce la facevano erano obbligati a sedere sulle cosiddette panchine-ghetto nelle aule dove si tenevano le lezioni. (Molti di loro restavano invece in piedi per protesta.) Gli artigiani ebrei, che nel Paese costituivano la maggioranza, erano costretti a sostenere un discriminatorio test di idoneità in lingua polacca, anche se la loro prima lingua, e spesso anche l’unica, era lo yiddish.

    Per certi aspetti, però, la vita era migliore che sotto lo zar. Le organizzazioni politiche, culturali, religiose e educative ebraiche godevano di maggiori libertà. E a Nowogródek, che la comunità ebraica, risalente al XVI secolo, chiamava Navaredok, tali organizzazioni fiorivano.

    Gli ebrei della cittadina avevano superato innumerevoli prove durante la loro lunga storia, incluso, a metà del Cinquecento, un tentativo del re lituano, che allora governava la regione, di rinchiuderli in un ghetto. In seguito allo scoppio della guerra russo-polacca del 1655, furono anche soggetti ai capricci delle continue ondate di eserciti invasori. Nel corso di quattro anni, Nowogródek fu occupata e rioccupata per ben due volte da ognuno dei due eserciti, entrambi più che felici di depredare e saccheggiare.

    Nel XVIII secolo, durante un periodo di dominio polacco, la povertà degli ebrei fu aggravata dagli sforzi dei funzionari locali per impedire che partecipassero alla vita economica della città. E l’arrivo dello zar, nel 1795, li obbligò a superare altre prove. Ma la comunità continuò a crescere e vide il passaggio di diverse figure rabbiniche di tutto rispetto. Fra queste rabbi Yechiel Michel Epstein, autore di testi di diritto ebraico, considerato uno dei grandi rabbini russi. Con indosso il cappotto di raso e il cappello di pelliccia a tesa larga, quando lasciava la sinagoga dopo le funzioni dello Shabbat seguito dai membri della sua congregazione, rabbi Epstein emanava la solenne compostezza di un monarca. «Il mio cuore si gonfiava d’orgoglio ogni volta che lo contemplavo», scrisse un suo contemporaneo.

    Nel 1896 rabbi Yosef Yozel Horwitz, uno dei leader di un movimento ortodosso che attribuiva molta importanza al comportamento etico, aprì una yeshivah a Nowogródek. Reb Yozel, come veniva chiamato, sviluppò quella che è conosciuta come la scuola di Navaredok del Movimento Musar. Insieme allo studio attento dei testi, ai suoi studenti veniva insegnato a mettersi in situazioni pubbliche scomode (camminare fra gente ben vestita indossando stracci, salire su un treno senza avere i soldi per il biglietto, comportarsi in modo strano durante una conversazione per strada), nel tentativo di sviluppare la capacità di ignorare con serenità il ridicolo. Secondo Horwitz, se fossero riusciti a perdere il loro attaccamento alla vanità e all’orgoglio, si sarebbero trovati in una posizione migliore per sostenere con maggiore forza la loro visione del giudaismo.

    Gli studenti di Reb Yozel erano così devoti che li si sentiva recitare i testi sacri fin dalle prime ore del mattino.

    Quando i giovani Bielski visitarono Nowogródek, circa un decennio più tardi, oltre la metà della popolazione e la maggioranza dei commercianti, artigiani e negozianti erano ebrei. Le loro attività si raccoglievano attorno all’area che ospitava il mercato, la piazza di ciottoli situata al centro della cittadina, in uno dei punti più alti, non lontano dalle rovine di un antico castello, il luogo storico più riconoscibile. (La struttura a sette torri aveva resistito agli attacchi di tartari e cavalieri teutonici, ma l’invasione svedese del 1706 l’aveva quasi distrutta.) Nei giorni di mercato, il lunedì e il giovedì, ebrei e gentili da tutta la regione risalivano le varie strade che da ogni direzione conducevano alla piazza per comprare e vendere un ricco assortimento di prodotti.

    «Gli agricoltori portavano il loro burro, patate, farina, verdura e frutta», ricorda Sonya Oshman, nativa di quella città. «Qualunque cosa la terra producesse. Era un semplice incontro di persone. Casalinghe e contadini. Perlopiù vi si vedevano le donne, perché si teneva di giorno e gli uomini erano a lavorare».

    «Da bambini lo adoravamo», racconta Morris Schuster, anche lui nato a Nowogródek. «Era bello. Il cibo era assolutamente naturale: lamponi, fragole, more. Li raccoglievano nella foresta. Non c’era niente di artificiale. Oh, il burro! Il pane!».

    Le case della città erano in prevalenza strutture umide a un solo piano illuminate dalle candele o dalle lampade a olio e riscaldate, nelle fredde notti d’inverno, da grandi stufe a legna. I residenti ricavavano l’acqua da pozzi disseminati per la città e spesso veniva consegnata da un portatore d’acqua dalla schiena robusta. La mancanza di impianti idraulici negli edifici implicava che ogni famiglia necessitava di un gabinetto esterno.

    Quando i polacchi ripresero il potere nel 1921 la città poteva vantare diverse sinagoghe, perlopiù situate non lontano dall’area del mercato, in quella che era conosciuta come piazza delle Sinagoghe. Macellai, sarti, ciabattini e piccoli commercianti avevano tutti la loro piccola shul, con annesso centro di studi. La più grande era la Sinagoga Vecchia, che poteva contenere alcune centinaia di persone, anche se offriva funzioni solo per lo Shabbat. Si credeva che l’edificio, conosciuto anche come la Sinagoga Fredda, per il fatto che non era riscaldato, fosse frequentato da fantasmi. I bambini avevano paura a passarvi davanti di notte. Ogni mattina il custode bussava alla porta tre volte e a voce alta diceva: «Andate a riposare, morti!».

    La tolleranza del nuovo governo nei confronti degli ebrei era una manna per il sionismo, il movimento sempre più influente che sosteneva il ritorno degli ebrei in Terra d’Israele. I sionisti locali erano divisi in diverse fazioni, a molte delle quali erano affiliati gruppi giovanili. In un assortimento sconcertante di partiti, ce n’erano di religiosi che si opponevano al sionismo e di laici che vedevano nel socialismo la strada migliore verso il benessere ebraico.

    Le nuove libertà portarono alla costituzione di scuole ebraiche laiche, che presto si diffusero in tutta la Polonia. A Nowogródek la più popolare era la scuola Tarbut, in cui le lezioni si svolgevano in ebraico (cosicché la lingua sacra veniva trasformata in lingua di tutti i giorni). Molti giovani ebrei frequentavano anche le istituzioni pubbliche polacche, che a differenza di quelle ebraiche, laiche o religiose che fossero, erano gratuite. Un gruppo più ristretto era iscritto all’esclusiva scuola secondaria che portava il nome del figlio più stimato di Nowogródek, il grande poeta polacco Adam Mickiewicz, dove gli studenti indossavano ordinate uniformi nere con un emblema sulla manica destra.

    Le maggiori libertà, comunque, non si tradussero in un più alto tenore di vita. Quando le autorità polacche attenuarono le restrizioni relative ai viaggi, all’inizio degli anni Venti, fu data l’opportunità agli stranieri di visitare la città e molti rimasero scioccati dalla sua povertà. Alcune persone nate a Nowogródek e trasferite ormai lontano decisero di dare una mano. Lo scrittore e linguista newyorchese Alexander Harkavy, che tradusse Don Chisciotte e altri classici della letteratura in yiddish, organizzò una campagna di sensibilizzazione attraverso la Sinagoga di Nowogródek, nel Lower East Side di Manhattan, che serviva quattromila ebrei espatriati dalla cittadina. Harkavy sollecitò donazioni per «gli sventurati, i poveri, i perseguitati e gli oppressi» della loro città natale e alla fine furono raccolti più di quarantamila dollari, che aiutarono a creare una serie di strutture tra cui un orfanotrofio, una mensa e una biblioteca.

    La città, che contava circa diecimila abitanti, era popolata anche da polacchi, che costituivano la classe dominante dei proprietari terrieri (molti di loro vi si erano trasferiti a seguito del tentativo promosso dal governo di far aumentare la popolazione polacca), da bielorussi della classe operaia e da poche centinaia di tartari musulmani. Nonostante la considerevole popolazione gentile, negli anni Venti e Trenta, e a dire il vero per buona parte della sua storia, Nowogródek fu un fervente centro di vita ebraica. Secondo il ricordo di un suo ex abitante, per lo Shabbat era tutto tranquillo: anche i gentili sapevano che non si doveva disturbare la festività sacra.

    In quegli anni Beyle ebbe altri due bambini, Yakov nel 1924 e Aron nel 1930. David e Beyle ebbero in tutto dodici figli, undici dei quali sopravvissuti. Quelli più grandi, quando non erano impegnati al mulino, approfittavano delle nuove opportunità che offriva la cittadina, dove venivano considerati dei poveri campagnoli dagli ebrei che risiedevano lì, in confronto più benestanti. Zus frequentò la scuola Tarbut per cinque anni e partecipò anche ad alcuni incontri del Betar, il gruppo giovanile affiliato al ramo militante del movimento sionista. Tuvia si unì ai Mizrahi, sionisti osservanti, e per un breve periodo prese in considerazione l’idea di lasciare il Paese per la Palestina. Ma, quando uno dei Mizrahi lo vide fumare una sigaretta durante lo Shabbat, gli fu chiesto di smettere di partecipare agli incontri.

    A dire il vero, nonostante un fiero orgoglio per la loro identità ebraica, i ragazzi perlopiù svilupparono un atteggiamento non esattamente reverenziale nei confronti dell’osservanza religiosa. La casa di David e Beyle era kosher, ma i ragazzi nascondevano spesso della pancetta fritta nella stalla, da masticare quando i genitori non erano nei paraggi. Uno dei fratelli maggiori di David, un ebreo ultraortodosso, era inorridito da quanto fosse difficile distinguere i Bielski dai contadini loro vicini. «Dammi uno dei bambini e ne farò un vero ebreo», diceva. Così David gli offrì uno dei maschi più piccoli. Il bambino, che si chiamava Joshua, andò con lo zio a Nowogródek, dove gli fu impartita un’approfondita educazione religiosa e fu mandato alle migliori scuole rabbiniche. All’età di ventidue anni divenne a sua volta rabbino.

    Nel 1927 anche Tuvia, che ormai aveva ventun anni ed era alto più di un metro e ottanta, con bei lineamenti scuri, era pronto a scappare, impaziente di scoprire qualcosa del mondo al di fuori del villaggio in cui era nato. Fu arruolato nell’esercito polacco e assegnato a Varsavia, il centro cosmopolita della vita dei polacchi, dove prestò servizio nel 30° battaglione di fanteria. Nel giro di sei mesi si destreggiava così bene che gli fu assegnato il compito di addestrare le nuove reclute.

    A Varsavia conobbe anche quel genere di antisemitismo a cui era sfuggito a Stankiewicze. Quando chiese a un cuoco se poteva spalmargli un po’ di grasso di pollo sul pane, l’uomo rispose: «Vattene, ebreo rognoso». Senza pensarci un secondo, Tuvia lo afferrò con una mano e con l’altra gli diede un pugno. Lo spinse

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