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L'uomo che salvò la musica dall'inferno
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L'uomo che salvò la musica dall'inferno
E-book464 pagine6 ore

L'uomo che salvò la musica dall'inferno

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Info su questo ebook

L’incredibile storia vera di come la musica ha ridato speranza ai prigionieri nei campi di concentramento nazisti

In una fredda notte di ottobre del 1942, le guardie del campo di concentramento di Sachsenhausen sorprendono un gruppo di prigionieri ebrei radunati in segreto. Sono i membri di un coro clandestino, che stanno provando il repertorio guidati dal direttore d’orchestra Rosebery d’Arguto.
Molti di loro vengono giustiziati sul momento, e quelli che sopravvivono alla rappresaglia sono deportati ad Auschwitz-Birkenau di lì a poche settimane. L’unico che riesce a salvarsi è Aleksander Kulisiewicz, un musicista polacco dotato di una singolare e incredibile memoria. È a lui che Rosebery, prima di morire, affida una missione importantissima: usare il suo dono per salvare il patrimonio musicale delle vittime dei campi nazisti. Aleks sopravvive in effetti all’Olocausto, e tiene fede alla promessa fatta all’amico: dopo la guerra torna in Polonia e inizia a raccogliere un impressionante archivio musicale che porta in giro per tutto il mondo. Solo attraverso la preziosa testimonianza di quest’uomo oggi sappiamo che i prigionieri dei campi di concentramento composero sinfonie, organizzarono cori clandestini, arrangiarono le musiche di illustri compositori riunendosi regolarmente e spesso a rischio della vita. La musica permise loro di resistere e restare umani, pur costretti a vivere nelle condizioni più brutali che si possano immaginare.

Una commovente storia vera

«Struggente... Una preziosa testimonianza sul potere di guarigione dell’arte.»
Publishers Weekly

«La storia edificante della musica che ci arriva dalle profondità di uno dei periodi più tragici del XX secolo... Un nuovo significativo capitolo della storia dell’Olocausto.»
Kirkus Reviews

«Eyre è un narratore abile, dallo stile limpido, che porta i suoi personaggi al centro della scena, in disparte, e poi di nuovo indietro. Capace di ordire una narrazione avvincente e dettagliata mettendo in luce le dinamiche interne della struttura di potere del campo di concentramento.»
The Economist
Makana Eyre
è un giornalista americano che vive a Parigi e si occupa di politica e media, con particolare attenzione all’Europa. Scrive per il «Washington Post», «Nation» e «Guardian».
LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2023
ISBN9788822780041
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    Anteprima del libro

    L'uomo che salvò la musica dall'inferno - Makana Eyre

    NOTA DELL’AUTORE

    Nel 1989 il Museo Memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti (

    USHMM

    ), appena creato ma non ancora aperto al pubblico, fu informato che un archivio, assolutamente unico quanto a materia e obiettivo, stava prendendo la polvere nelle ex baracche dei prigionieri al Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau. L’archivio, come scoprirono i rappresentanti ufficiali del museo, era stato raccolto dal defunto cantore del campo di Sachsenhausen, Aleksander Kulisiewicz, e conteneva migliaia e migliaia di documenti e registrazioni sulla musica e la poesia nate nei campi di concentramento nazisti.

    Che in quel momento l’

    USHMM

    ne fosse consapevole oppure no, l’archivio si trovava in una posizione molto precaria. Nei suoi ultimi dieci anni di vita Kulisiewicz aveva cercato disperatamente di convincere un’istituzione polacca a rilevarlo, ma tutti i musei e le università che aveva contattato gli avevano risposto di no. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1982, la sua famiglia aveva portato avanti il compito di trovargli una sistemazione definitiva.

    Tramite alcuni conoscenti a Milwaukee e a New York, a un certo punto i parenti erano riusciti a contattare alcune istituzioni americane da cui avevano incassato altri rifiuti o non avevano ricevuto risposta. Come soluzione temporanea, viste le sue ingenti dimensioni, il Museo di Auschwitz aveva accettato di accoglierlo, ma solo temporaneamente.

    Nell’autunno dello stesso anno Jacek Nowakowski, direttore delle Collezioni e Acquisizioni dell’

    USHMM

    , si recò personalmente in Polonia per investigare. E non appena il personale dell’archivio del Museo di Auschwitz gli ebbe mostrato i faldoni, capì che la collezione era importante e che l’

    USHMM

    doveva assolutamente averla. Entro la fine dell’anno le casse furono spedite a Washington

    D.C.

    Quando arrivarono, qualche settimana dopo, l’inventario originale era: circa ottocento faldoni contenenti più o meno settantamila pagine di documenti relativi alla musica nei campi nazisti; più di 620 canzoni polacche provenienti da trentaquattro campi, e duecento canzoni scritte da prigionieri di altre nazionalità; parecchie migliaia di taccuini, diari, fogli stampati, disegni, fotografie, mappe, volantini, lettere, cartoline, memorie, manoscritti e dipinti dei prigionieri, in originale o in microfilm, relativi alla vita musicale nei campi; decine di migliaia di metri di nastri e audiocassette contenenti la registrazione di canzoni, poesie e commenti provenienti dai campi; nonché la storia originale, mai pubblicata, della vita di Kulisiewicz, intitolata Come stava morendo la mia voce.

    Questo aneddoto racconta come sia nato questo libro. Se l’

    USHMM

    non avesse deciso di acquisire l’archivio, con ogni probabilità le canzoni e i documenti alla cui raccolta Aleksander Kulisiewicz aveva dedicato tutta la vita sarebbero andati perduti – e con essi ogni possibilità di raccontare la storia dello stesso Kulisiewicz, di Rosebery d’Arguto e del coro ebraico di Sachsenhausen.

    Ma l’aneddoto mi aiuta anche a rispondere a una domanda importante: come ho affrontato le fonti, la ricerca e le verifiche richieste da questo libro? Ho fatto affidamento su molte importanti categorie di fonti, tra cui le memorie dei sopravvissuti ai campi, la storia orale e varie testimonianze, opere di studio e articoli, nonché le informazioni avute dai discendenti dei protagonisti. Ma soprattutto si è trattato di un progetto d’archivio, per il quale ho avuto a disposizione migliaia di pagine di documenti con cui mettere insieme la complessa e potente narrazione della vita di Kulisiewicz e di d’Arguto e del loro tempo nel campo di concentramento di Sachsenhausen.

    Ho consultato molti altri archivi in giro per l’Europa, gli Stati Uniti e Israele, ma in particolare due collezioni si sono rivelate importanti. La prima è quella che oggi conosciamo come collezione Aleksander Kulisiewicz all’

    USHMM

    . Un archivio che contiene le voci di centinaia di sopravvissuti al campo, nonché la musica e la poesia che seppero creare. Aleksander Kulisiewicz era un collezionista, un accumulatore seriale di tutto ciò che poteva avere a che fare con la musica nei campi nazisti. Per più di tre decenni ha collezionato microfilm, corrispondenze, narrazioni personali, ritagli di giornale, opere d’arte, poesie, appunti di ricerca, manoscritti e fotografie. Ha fatto copie di diari del campo, brani musicali, disegni e mappe. Documenti che sono le fondamenta del mio libro.

    L’altro archivio cui ho attinto è la collezione Rosebery D’Arguto presso l’Akademie der Künst di Berlino, messa insieme per buona parte dalla pionieristica musicologa tedesca Inge Lammel. Nel corso di molti anni Lammel ha rintracciato amici, colleghi e membri del coro di Rosebery d’Arguto, intervistandoli con grande ricchezza di dettagli. Il risultato sono centinaia di pagine di informazioni, fotografie, brani musicali e programmi di concerto che dipingono un ricco affresco delle attività di d’Arguto, soprattutto riguardo agli anni di Berlino e alla prigionia a Sachsenhausen.

    Non sono assolutamente stato il primo a consultare questi archivi. Nel corso degli ultimi trent’anni, studiosi e archivisti come Barbara Milewski, Bret Werb, Peter Konopatsch, Guido Fackler e Juliane Brauer, tra gli altri, hanno esaminato le stesse collezioni e studiato meticolosamente le storie che vi si narrano per controllarne la veridicità. Il risultato è un vero tesoro di materiale di studio sulla musica nei campi nazisti in generale e su d’Arguto in particolare, che è stato cruciale per le mie stesse ricerche.

    Grazie a questi archivi, ai discendenti dei protagonisti e agli studiosi che mi hanno preceduto, ho potuto scrivere questo libro come opera di non-fiction. Ogni dettaglio, aneddoto e scena proviene da fonti primarie. E lo stesso vale per ogni dialogo riportato nel libro e per i punti in cui riporto i pensieri e le riflessioni di un personaggio.

    Basandomi sulla guida e sulle raccomandazioni degli studiosi dei campi nazisti, mi sono avvicinato alle memorie scritte e alle testimonianze orali dei sopravvissuti con grande fiducia e rispetto. Ma nessun sopravvissuto dei campi, compreso Kulisiewicz, può offrirci un resoconto perfetto della prigionia e dei traumi collettivi subiti per mano dei nazisti. Per questo ho rinforzato i racconti dei sopravvissuti con accurati controlli e validazioni dei fatti, e ho fatto del mio meglio per correggerli, dove necessario, riempire i vuoti e offrire un contesto storico dove poteva risultare utile.

    È essenziale sottolineare il fatto che le esperienze dei prigionieri a Sachsenhausen o in qualunque altro campo nazista variavano molto a seconda della nazionalità, dell’etnia, della religione, dell’orientamento sessuale, dello status e dei cosiddetti privilegi di campo. La storia raccontata è solo quella di Aleksander Kulisiewicz, di Rosebery d’Arguto e dei uomini della loro cerchia. Non deve essere presa come un resoconto della vita a Sachsenhausen nella sua interezza. La stessa clausola si applica alla musica dei campi. Kulisiewicz, d’Arguto e molti dei loro amici trovavano gioia, soddisfazione e forza nelle loro attività musicali. Ma per altri prigionieri, e in particolare nel contesto dei canti obbligatori o dei gruppi musicali autorizzati dalle

    SS

    , la musica era solo un’altra fonte di sofferenza e di disperazione, e in alcuni casi lo sarebbe rimasta ancora a lungo dopo la fine della guerra.

    Se vi capitasse di studiare la collezione Kulisiewicz presso l’

    USHMM

    , ci trovereste spesso parole, frasi o pagine intere dove Kulisiewicz ha cancellato il testo con un rigo di penna. Lo faceva ogni volta che non riusciva a verificare un fatto. Lui voleva che il suo archivio fosse accurato e attendibile. Anch’io ho tratto ispirazione da questo approccio. Come affermava Kulisiewicz, cercare di abbellire significa sporcare la memoria di coloro che non sono sopravvissuti.

    Parte prima

    Capitolo 1

    Cieszyn, Polonia, agosto 1939

    Gli anni Trenta volgevano al termine. Nell’afa di fine estate, Aleksander Kulisiewicz camminava per le vie della sua città natale, spavaldo, con un motivetto che gli ronzava nella mente.

    I tre anni successivi al diploma di scuola superiore erano stati inebrianti. Ora aveva ventuno anni. La Polonia era di nuovo indipendente. Dappertutto, fiorivano attività culturali. Poeti, romanzieri, filosofi e pittori riempivano i caffè delle maggiori città del Paese, per bere e chiacchierare mentre automobili e carretti trainati da cavalli sferragliavano sulle strade acciottolate¹. La generazione di Aleks sembrava sperimentare ogni cosa: discuteva, fondava riviste letterarie, analizzava idee nuove, andava a letto con tutti e con tutte. La sera, nella luce soffusa dei night club, donne eleganti e uomini in abito scuro ballavano i tanghi importati dal Sudamerica². La nazione era in piena rinascita, e Aleks era libero di cantare, recitare, cercare l’amore. Davanti a quell’allampanato studente di legge, altezza media, occhi scuri, capelli neri e lisci pettinati all’indietro con la brillantina, si stendeva un futuro radioso. Tutto sembrava a portata di mano, e Aleks, dotato di talento, di un’arroventata ambizione e di un pizzico di privilegio, era ansioso di sperimentare tutto.

    Fino a quegli ultimi giorni d’estate, per lui il 1939 era stato un buon anno. Durante il semestre universitario aveva alloggiato nella cosmopolita città di Cracovia, in uno studentato nella parte occidentale della città vecchia, non lontano dalla grande area verde del parco Błonia³. Club e cabaret, affollatissimi di giovani e sempre pieni di fumo, lo assumevano per cantare sul palco o anche solo per fischiettare, cosa che sapeva fare con l’abilità di uno strumentista. Alla fine del secondo semestre, per le vacanze estive, era tornato alla sua città natale, Cieszyn. E aveva trascorso il suo tempo nel modo che più gli piaceva. Aveva scritto articoli d’attualità politica e generale, vendendoli a giornali e riviste locali. Si era sdraiato al sole sulle rive dell’Olza, il fiume che tagliava in due la città. Si era rilassato con gli amici e di tanto in tanto aveva buttato giù qualche bicchierino di vodka, a tarda notte, in compagnia degli editori che pubblicavano i suoi scritti.

    Dopo decenni di dominazione straniera, finalmente la generazione di Aleks poteva crescere in un Paese libero. Da Lwów, a est, fino a Poznań, a ovest, i polacchi ricevevano l’educazione nella loro lingua madre. Potevano leggere e celebrare i loro grandi poeti e romanzieri. L’indipendenza dava agli artisti polacchi un ardente senso di libertà⁴. Non erano più costretti a creare opere d’arte a sostegno della causa nazionale⁵. Ogni obbligo era come svanito nel momento in cui prussiani, austriaci e russi – i tre Paesi che si erano divisi la Polonia e l’avevano dominata dopo la terza spartizione del 1795⁶ – se n’erano andati nell’anno stesso in cui era nato Aleks, lasciando i giovani creativi liberi di sperimentare, rifiutare e innovare. I coetanei di Aleks potevano creare l’arte solo per amore dell’arte; esplorare il sesso, l’umorismo, il Futurismo e il pensiero radicale. Infischiandosene delle regole. Perfino l’omosessualità, di tanto in tanto, faceva capolino nell’arte e nella società⁷. Anche le vecchie strutture di classe, che tanto irritavano Aleks, stavano cambiando. Nonostante i gravi problemi economici e sociali ribollissero ancora sotto la superficie⁸, e la povertà devastasse ancora molte zone del Paese⁹, per la prima volta la Polonia poteva credere nel futuro, con una baldanza che non si vedeva da generazioni¹⁰. In linea di massima, Aleks poteva esprimere i suoi desideri ad alta voce. Nessuna imponente ideologia statale poteva più zittirlo¹¹. L’aria era carica di opportunità. Spesso ad Aleks capitava di pensare: il mondo mi appartiene¹².

    In quegli anni inebrianti, Aleks aveva goduto appieno delle libertà che la Polonia sembrava offrire a un giovanotto nella sua posizione: libertà che irritavano non poco suo padre Franciszek, convinto che il figlio dovesse diventare avvocato o intraprendere un’altra carriera sicura, come quella dell’avvocato, non diventare un’artista pensoso, come tanto voleva Aleks. Grazie a Franciszek, la famiglia Kulisiewicz viveva uno stile di vita solido e agiato. Era stato lui ad abbandonare le fatiche della vita rurale e agricola per entrare nella classe media di Cieszyn, cittadina di medie dimensioni ricca di colorati edifici e di una decoratissima chiesa. Franciszek, figlio di un falegname povero e dedito alla vodka¹³, era cresciuto in un sobborgo del villaggio di Nowy Wiśnicz, un centinaio di chilometri a est di Cieszyn. Sua madre, stringendo i pugni e serrando i denti, aveva dato alla luce lui e altri undici bambini in una capanna di legno e fango dove tra le assi del pavimento si intravedeva ancora la terra nuda¹⁴.

    Gli ci era voluta una buona dose di determinazione e di fortuna per strapparsi via da quella catapecchia e da una vita che, d’estate, gli imponeva di lavorare duramente sotto il sole, mentre d’inverno il vento si infilava negli stipiti delle finestre nonostante la paglia con cui sua madre cercava di sigillarli. Ogni giorno doveva percorrere quattro chilometri avanti e indietro per raggiungere una cittadina di nome Bochnia e conquistarsi quell’istruzione che gli avrebbe permesso di vivere una vita decente. Dopo aver superato immensi ostacoli, era diventato professore di materie umanistiche presso una prestigiosa scuola privata. Per questo il suo unico figlio maschio doveva mantenere la retta via. L’arte era fuori questione.

    Ma come molti ragazzi, ad Aleks non importava affatto cosa pensasse suo padre. Il mondo artistico era troppo affascinante per concentrarsi sugli studi all’Università Jagellonica: così era stato bocciato¹⁵ all’esame di fine anno in Diritto romano, una materia importante del suo corso di studi. Per come la vedeva lui, passare troppo tempo con il naso ficcato in un libro significava perdersi tutte le danze e i canti e le storie d’amore.

    Purtroppo però quella vita spensierata stava per finire. Verso la metà di agosto cominciarono a circolare voci di guerra¹⁶. In Polonia la gente, ansiosa, temeva che la vita potesse cambiare di nuovo, e in modo drastico e spaventoso. Insieme alla sua famiglia, nel loro modesto appartamento, Aleks aspettava di sentir parlare di invasione.

    Ma anche confinato nella casa della sua infanzia, Aleks pensava alle sue esibizioni di Cracovia: ai bei momenti in cui era salito sul palco, a come aveva tenuto il pubblico nel palmo della mano. Rifletteva sulla gioia che aveva provato strimpellando la chitarra per gli amici alle feste dell’università¹⁷. Desiderava una vita fatta solo di musica e di esibizioni dal vivo. Non gli importava più nulla degli studi, era pronto a lasciare per sempre la facoltà di Legge e i decorati saloni dell’Università Jagellonica. Ma sul finire dell’estate del 1939 il futuro si presentava incerto. La vita stessa sembrava sull’orlo del baratro. Forse, prima di costruirsi una vita fatta solo di musica, gli sarebbe toccata un’altra guerra.

    Per un ragazzo sensibile alla magia della musica, e convinto del fatto che una melodia poteva toccare le corde dell’anima, Cieszyn, cittadina polacca di confine, era stata il luogo ideale in cui crescere. Per tutta l’infanzia di Aleks molti polacchi, ma anche tedeschi, cechi ed ebrei, avevano chiamato casa quella città e quella regione¹⁸. Ogni gruppo pregava nel suo luogo di culto, celebrava le sue festività e parlava la sua lingua – ma soprattutto suonava la sua musica. Gruppi di rom attraversavano la regione e a volte si fermavano a Cieszyn per suonare la loro vivace musica nel rynek, la piazza principale della città, in cambio di qualche moneta gettata in un cappello o nella custodia di un violino. La ricchezza musicale della città natale aveva regalato ad Aleks un’infanzia fatta di mille melodie. Passeggiando per le vie della sua città poteva capitargli di sentire un cantore salmodiare nella sinagoga o qualcuno cantare canzoni tradizionali polacche e ceche. Udiva anche musica popolare tedesca e canti del popolo rom. E assorbiva tutto.

    A sei anni aveva supplicato suo padre di fargli prendere lezioni di violino. La musica non era molto importante in casa Kulisiewicz, quindi nessuno aveva il tempo o la voglia di far sedere il piccolo da qualche parte per insegnargli anche solo la più semplice delle melodie. Eppure, per una ragione che Aleks non avrebbe mai capito, Franciszek gli disse di sì. E un giorno tornò a casa con un violino sotto il braccio: piccolo, a misura di bambino. Lo strumento riempì di gioia Aleks, che se lo strinse amorosamente al petto. Con un insegnante assunto da Franciszek, imparò a suonare alcune canzoni popolari tedesche, ma a volte imitava anche qualche melodia udita dai domestici di casa o dagli amici della sua matrigna, che quando venivano a trovarli si interessavano di quell’orgogliosissimo piccolo violinista. Ogni volta che amici e parenti lodavano il suo talento, Aleks sprizzava gioia da tutti i pori. E, avido d’attenzioni era sempre disposto a suonare le canzoni che aveva imparato. Già da piccolo, per Aleks la musica e le esibizioni erano due cose strettamente intrecciate. Amava la musica, ma suonare in pubblico quello che aveva imparato era la parte più divertente. Voleva mostrare a tutti ciò che sapeva fare e suscitare la loro ammirazione.

    Le prime melodie che imparò furono quelle più facili e spensierate. A volte le cantava, anche se a quell’epoca non si considerava un cantante. Adorava la musica che stava imparando a suonare sul violino, ma era piuttosto pigro con gli esercizi. La musica lo toccava sempre nel profondo, ma la disciplina necessaria per eseguire le scale e ripetere gli esercizi lo annoiava¹⁹. Preferiva fare lunghe passeggiate nei boschi con il suo gatto, per ascoltare il cinguettio degli uccelli e il ritmo dei loro canti. In quel canto gli sembrava di percepire richiami e risposte. Gli sembrava che gli uccelli cantassero in coro. Era un linguaggio che lo affascinava, e che non somigliava affatto ai valzer e alle mazurche che doveva studiare nelle lezioni private²⁰.

    Aleks assorbiva tutta l’infinita ricchezza della musica di Cieszyn. Le melodie tedesche lo catturavano. Le canzoni di chiesa che sentiva la domenica, con le sonore partiture per l’organo, lo colpivano nel profondo²¹. Nei giorni di vacanza, in Cecoslovacchia, andava di villaggio in villaggio con il padre e la matrigna ascoltando le canzoni dei pastori, i versi cantati ai matrimoni, le belle armonie dei montanari²². Ma di tutta la musica che gli capitava di incontrare, erano i gruppi musicali rom a toccarlo di più. La prima volta che li sentì suonare, gli sembrò di non avere mai udito suoni più belli²³. Quel giorno stava viaggiando lungo il confine meridionale della Polonia insieme al padre e alla matrigna. Al mattino presto presero un battello sul fiume Dunajec, che scorreva lungo una parte della frontiera con la Cecoslovacchia, e si lasciarono trasportare dalla corrente, godendosi la vista dei Monti Pieniny²⁴, alti e verdi e lussureggianti, di qua e di là dal fiume. Attraccarono vicino a una città di nome Spišská Stará Ves, sulla sponda ceca, e si incamminarono verso la piazza del mercato, dove un gruppo di musicisti rom stava accordando gli strumenti. Aleks osservò attentamente il violino che il rom teneva in mano. Era così diverso dal suo – più grande, nero, con le corde di colori vivaci. L’uomo che lo reggeva era molto più alto di lui, con una cicatrice profonda che gli attraversava il sopracciglio. Non appena cominciò a suonare le prime note, gli altri membri della banda si unirono a lui. La melodia era completamente diversa da tutte quelle che Aleks aveva mai sentito in vita sua. Così diversa da quello che gli avevano insegnato, da quello che aveva sentito in chiesa o nella sinagoga di Cieszyn. Perfino le melodie dei montanari polacchi erano ben poca cosa in confronto alla musica di quella banda, che sembrava in qualche modo più vera, più pura. Il timbro degli strumenti, i ritmi pulsanti, sembravano eterni. In quelle melodie, Aleks percepiva un’affermazione di vita che non aveva mai sentito prima. A volte erano cariche di dolore, e i testi parlavano di un tracollo di fortuna o la perdita di una persona amata. Altre volte, scintillavano di gioia. E tra una canzone e l’altra gli interpreti improvvisavano con grande virtuosismo, tanto che ad Aleks sembrava che si capissero perfettamente, che conoscessero d’intuito la direzione che la musica degli altri avrebbe preso, quasi per telepatia.

    Un solista in particolare attirò la sua attenzione. Vedendolo attaccare un brano, pensò che fosse caduto in trance. Aveva gli occhi chiusi e sembrava perso in un dedalo di suoni. Si voltava da una parte, e la sua musica prendeva una direzione malinconica. Si voltava dall’altra, e un senso di giubilo si diffondeva tutt’attorno a lui. Aleks ripensò a sua madre, rivide il suo volto, anche se non era del tutto sicuro di ricordarlo davvero. Forse riusciva a immaginarselo solo grazie a una foto che la ritraeva a Lwów, più di vent’anni prima, accanto a un bouquet di fiori, con un lungo abito bianco e i capelli scuri fino alla vita. O magari grazie all’unica altra foto di lei che possedeva, quella in cui aveva ancora le trecce²⁵.

    La musica dei rom lo commosse così tanto che supplicò suo padre di riportarlo a casa, sulla riva polacca, per prendere il piccolo violino²⁶. Nella sua mente di bambino doveva assolutamente recuperare lo strumento e tornare a Spišská Stará Ves per suonare insieme ai rom. Nonostante la musica non suscitasse nessuna emozione particolare in suo padre o nella sua matrigna, entrambi capivano la sua urgenza e accettarono di rifare il breve viaggio lungo il fiume fino alla loro casa. Una volta tornati nella piazza del mercato, Aleks si mise a osservare la banda dei rom gonfio d’orgoglio, con il violino sotto il mento e l’archetto in mano.

    Durante una pausa, Franciszek si avvicinò al gruppo e gli chiese di far suonare un po’ il figlio insieme a loro. I musicisti lo guardarono con diffidenza. «È solo un bambino»²⁷, disse uno di loro. Ma Aleks, avendo origliato la conversazione, intervenne. «Signore, ma io so suonare. Non ho paura. Ancora non so fare molto, ma ci proverò. Lasciatemi tentare!». I rom acconsentirono a fargli provare una canzone, a condizione che Franciszek aggiungesse qualche moneta al compenso.

    Aleks, un ragazzino magro con un violino da principiante, salì sul palchetto. Altri bambini della sua età sarebbero stati intimoriti dal pubblico, ma ad Aleks non importava. Lo sguardo della folla non gli faceva paura; l’ansia non gli serrava i polmoni. Più tardi, si sarebbe ricordato di quel momento. Quando gli altri cominciarono a suonare, lui chiuse gli occhi, ripensando ai boschi e al canto degli uccelli, e in quello stato mentale cominciò a tirare fuori le prime note dal suo piccolo violino. Cercò di caricarle di speranza, dolore, amore – emozioni ancora troppo grandi per un bambino. E la musica sembrò uscire spontaneamente dal suo strumento. Aleks cercò di imitare la bellissima melodia che aveva sentito solo un’ora prima. Dietro di lui c’era il rom alto, con il violino nero e la cicatrice in faccia. E quando Aleks suonava qualcosa, l’uomo gli faceva eco, nota per nota. Esattamente come il botta e risposta degli uccelli nel bosco.

    Il mondo artistico e culturale era fiorito tanto durante l’infanzia di Aleks soprattutto perché la Prima guerra mondiale era giunta al termine. Il 1918, suo anno di nascita, era stato l’ultimo per tre imperi – quello russo a est, quello austro-ungarico a sud-ovest e quello prussiano a nord-ovest: i Paesi che per centoventitré anni si erano spartiti la Polonia e l’avevano occupata²⁸. In quattro generazioni nemmeno un piccolo Kulisiewicz era nato in una Polonia governata da polacchi, in una terra a cui le potenze occupanti non avessero strappato via risorse e profitti.

    Prima della Grande Guerra, la Polonia nemmeno esisteva sulla carta dell’Europa²⁹. Era stata inglobata dai suoi vicini, sempre affamati di nuovi territori, di potere e di popoli su cui esercitare il loro dominio. Come i loro genitori e prima ancora i loro nonni, i venti-trenta milioni di uomini e donne che all’inizio del

    XX

    secolo si ritenevano polacchi avevano vissuto come sudditi dello zar di San Pietroburgo, del kaiser di Berlino o dell’imperatore-re di Vienna³⁰. Poi, nel novembre del 1918, a soli tre mesi dalla nascita di Aleks e dalla fine della Grande Guerra, Józef Piłsudski e le sue legioni avevano assunto il controllo di una Polonia ancora priva di confini, di governo, di Costituzione. Una Polonia a cui i Paesi confinanti ancora non riconoscevano la propria sovranità nazionale³¹. Vyacheslav Molotov, statista e diplomatico russo, l’aveva definita «il mostruoso bastardo nato dalla Pace di Versailles». John Maynard Keynes, l’economista inglese, l’aveva descritta come «un’impossibilità economica la cui unica industria è la persecuzione degli ebrei»³². Così era nata la Polonia della giovinezza di Aleks.

    Nei suoi primi anni di vita, la Polonia si diede un gran da fare per recuperare tutti i territori che gli appartenevano prima della partizione. Le ci vollero ben sei guerre di confine³³ per riconquistare il cuore del Paese, recuperando città come Varsavia, Lublino e Cracovia³⁴. Dall’estremo est all’estremo ovest, giovani polacchi uccisero e morirono per rivendicarne le frontiere. Anche a Cieszyn, nel 1919, le scaramucce di frontiera degenerarono nella violenza vera e propria quando un gruppo di soldati cecoslovacchi attraversò il fiume per conquistare la città³⁵. Un anno dopo, a luglio³⁶, Cieszyn fu spaccata in due³⁷, con il fiume Olza a definirne la frontiera³⁸.

    Ma anche se i polacchi potevano nuovamente decidere del loro presente e del loro futuro, il Paese mancava di unità e integrazione. Mentre Aleks suonava il violino con la banda zigana o passeggiava nei boschi riflettendo sul canto degli uccelli e sul ritmo delle nuove melodie che stava imparando, i politici cercavano disperatamente di portare coesione nel loro Paese. All’inizio degli anni Venti, nelle mani dei polacchi circolavano ben sei monete diverse³⁹; gli ordini all’esercito⁴⁰ venivano impartiti in quattro lingue; cinque regioni godevano di un’amministrazione speciale, fra cui quella di Cieszyn⁴¹; tre diversi codici di leggi⁴² governavano i cittadini, e due scartamenti ferroviari diversi e incompatibili causavano ritardi e mal di testa⁴³. Per tutta l’infanzia e la prima giovinezza di Aleks i capi della nuova nazione polacca dovettero ricostruire da zero tutte le istituzioni del Paese⁴⁴. Gli elementi basilari di un sistema statale – edifici amministrativi, tribunali, scuole⁴⁵ – furono eretti dal nulla. Ma anche la cultura e gli usi e costumi della gente erano profondamente diversi. Fino a quel momento, i polacchi avevano passato la loro vita in Russia, in Prussia o in Austria⁴⁶.

    Quando Aleks divenne adolescente, la Polonia sembrava ormai aver conquistato una certa stabilità. E nel nuovo clima culturale la sua ambizione di esibirsi come musicista si intensificò. Ormai aveva abbandonato ogni velleità di diventare violinista e aveva scelto invece la chitarra⁴⁷. Suo padre gli diceva di concentrarsi sugli studi, per passare quell’esame di maturità che gli avrebbe dato accesso all’università. Ma il palco lo attirava con così tanta forza che una sera, a sedici anni, decise di calarsi con una fune dalla finestra di camera sua⁴⁸, a diversi piani di altezza, per sparire nel buio. Con in tasca i pochi soldi guadagnati vendendo francobolli agli amici di suo padre, raggiunse la limitrofa città di Wisła, dove c’era un club chiamato Oaza.

    Anche a sedici anni sfoggiava la stessa convinta, precoce sicurezza di quando, a sei anni, aveva suonato con la banda rom durante una breve vacanza con i genitori. Sapeva come stringere utili amicizie, e come ottenere ciò che voleva. Dopo un’esibizione improvvisata sulla soglia di un club il padrone del locale, colpito dall’estensione e dalla purezza dei suoni che sapeva emettere fischiando, lo assunse col nome d’arte di Usignolo Lituano. Quella sera stessa poté salire sul palco. Indossando un paio di pantaloncini corti di pelle che svelavano le sue gambette secche, da bambino, Aleks fischiettò alcuni valzer di Strauss e musiche di altri compositori austriaci o tedeschi davanti a un pubblico entusiasta.

    Gli ingaggi lo tennero lontano da casa per tre giorni. Era talmente ansioso di esibirsi da dimenticare tutto il resto – la tirannia di suo padre, il suo corso di studi, gli esami imminenti. Gli interessava solo una cosa: salire ogni sera sul palco per fischiettare davanti al pubblico. C’era uno slancio in quell’esperienza, un’irripetibile sensazione di potere cui non sapeva resistere. A Cieszyn, Franciszek, preoccupato, si chiedeva cosa ne era stato del figlio. Ma sapeva che non era il tipo da mettersi davvero nei guai. Con sua grande irritazione, il ragazzo era già scappato di casa altre volte. Di solito bastava rintracciarlo e riportarlo indietro. Ma quella volta fu una cameriera del caffè di Cieszyn a dirgli che alcuni amici l’avevano visto esibirsi a Wisła. Franciszek la guardò con espressione corrucciata, ma lei gli disse: «Professore, di che si preoccupa? Suo figlio è così indipendente!»⁴⁹. Franciszek chiamò subito un taxi e andò a Wisła, dove aspettò il calar della sera e l’ora prevista per l’esibizione di suo figlio, attorno alle undici. Quando Aleks salì sul palco, Franciszek attese il momento giusto per farsi avanti. A metà di un valzer decise che ne aveva sentito abbastanza, e dalle ultime file del teatro, celato dall’oscurità, gridò: «Tu! Tu, stupido ragazzo, non è ancora ora di scendere da quel palco?». Aleks ignorò quella fastidiosa interruzione; aveva riconosciuto la voce del padre, ma stentava a credere che avesse fatto tutta quella strada solo per interromperlo. «Scendi, ti ho detto! O ti strapperò le gambe dal culo!», gridò ancora Franciszek. Dopo di che, in una frazione di secondo, salì sul palco, afferrò Aleks per il braccio e lo trascinò via, mandando in frantumi uno specchio. Il viaggio verso casa fu lungo e silenzioso⁵⁰.

    Ma nonostante tutti i suoi sforzi Franciszek non riuscì a domare il suo irrequieto figliolo. Dopo aver passato gli esami, aver preso il diploma del liceo ed essersi iscritto alla facoltà di Legge dell’Università Jagellonica nel 1936 ormai il ragazzo era libero di fare tutto quello che gli pareva, a patto che continuasse a frequentare le lezioni. Nei brevi anni dell’indipendenza polacca, Aleks godette di una fantastica libertà: poteva viaggiare in lungo e in largo per l’Europa e fare esperienze che nessun Kulisiewicz prima di lui aveva mai potuto nemmeno sognare. Partì per un tour dei Balcani e dell’Europa centrale con degli amici della sua stessa età⁵¹. Esplorò Vienna, Budapest, Belgrado, Sofia e Bucarest⁵². Nei villaggi e nelle città jugoslave ascoltò musiche affascinanti, canzoni che gli ricordavano la musica araba che aveva sentito nei film. Un canto disteso, pieno di dolore e di anima. A volte, quando sentivano una canzone particolarmente bella, lui e i suoi amici si mettevano a ballare con la gente del luogo, afferrandosi con le braccia a quelle del vicino e girando in cerchio, a volte accelerando in modo frenetico, oppure rallentando con mosse più tenere⁵³. Viaggiando, il ragazzo assorbì la cultura circostante, tra cui un meraviglioso valzer a Zagabria, che gli piacque talmente tanto da impararlo a memoria.

    Ma di tutti i posti che visitò fu Tarnovo, in Bulgaria, a imprimersi con maggior forza nella sua memoria. Quando arrivarono a Tarnovo, Aleks e i suoi amici guardarono pieni di stupore quella città costruita su una serie di ripidi colli sopra il fiume Yantra. Aleks non avrebbe mai dimenticato il suo primo mattino a Tarnovo, quando, dopo essersi girati e rigirati per tutta la notte su un materasso infestato dalle cimici, lui e i suoi amici si erano svegliati in un’alba nebbiosa e profumata di rose. Quando il sole si levò, rosso all’orizzonte, i ragazzi videro i campi fioriti stendersi a perdita d’occhio davanti ai loro occhi stupiti⁵⁴.

    Ma nonostante le grandi opportunità che la Polonia degli anni Trenta offriva ad Aleks, quell’epoca nascondeva anche un lato oscuro che sembrava già contaminare il Paese. Le difficoltà non erano mancate nemmeno nei giorni dell’indipendenza. Il primo presidente, Gabriel Narutowicz, era stato assassinato due giorni dopo l’insediamento⁵⁵. Una disastrosa iper-inflazione aveva fatto salire vertiginosamente il marco polacco – da uno a nove contro il dollaro statunitense nel 1918 a uno a venti milioni nel 1923⁵⁶. Nel 1926 Józef Piłsudski, l’uomo che otto anni prima aveva dato il via alla rinascita della Polonia, arrivò a Varsavia, rovesciò il governo legittimo e instaurò quello che più tardi sarebbe stato ribattezzato come il «regime di Sanacja»⁵⁷ (Risanamento). Nella seconda metà degli anni Trenta, nel Paese serpeggiava un’ansia profonda. Hitler, infatti, aveva conquistato i Paesi vicini uno dopo l’altro. Nel 1936 la Renania. Nel 1938 l’Austria. E molti temevano che presto sarebbe toccato alla Polonia.

    In questa precaria situazione, le minoranze etniche cominciarono ad agitarsi. Ben presto i cittadini di origine tedesca si allearono con i nazisti⁵⁸, una cosa decisamente preoccupante. Gli ucraini si sentivano sempre più disaffezionati allo Stato⁵⁹. Nell’arena politica cresceva l’antisemitismo, scatenando persecuzioni e abusi contro gli ebrei⁶⁰. Ma la paura dilagava anche tra i cittadini di etnia polacca.

    Al momento di intraprendere gli studi di Legge, nel 1936, Aleks stava ancora cercando di farsi un’idea del mondo. Passava dalla simpatia per la sinistra, sempre più influenzata dal comunismo, a quella per la nuova destra polacca, sempre molto attiva⁶¹. Pur continuando a considerarsi principalmente un musicista, era preoccupato per la situazione politica e pensava di dover fare anche lui la sua parte. Nell’arena politica ferveva il dibattito sulla Polonia e sul suo futuro. I politici discutevano apertamente della «questione ebraica», e alcuni, soprattutto a destra, demonizzavano gli ebrei polacchi. Ben presto le richieste della destra di limitare quella che, secondo

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