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Un eroe in fuga
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E-book537 pagine7 ore

Un eroe in fuga

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Info su questo ebook

La vera storia dell'uomo che evase dalla prigionia nazista

Documenti inediti

Maggio 1940. Roger Bushell, pilota della Royal Air Force, viene colpito mentre è in ricognizione con il suo Spitfire sopra i cieli di Boulogne, nella Francia occupata dai tedeschi. Fatto prigioniero, tenterà per tre volte di scappare dai suoi nemici.
La prima volta, riuscirà ad arrivare a poche centinaia di metri dal confine svizzero. La seconda, giungerà fino a Praga, dove si unirà alla Resistenza ceca per otto mesi, prima di essere nuovamente catturato dai tedeschi. La terza è la famosissima evasione dal campo di prigionia dello Stalag Luft III, immortalata sul grande schermo nello splendido film di John Sturges, La grande fuga. Catturato dopo qualche giorno, Bushell verrà fucilato su esplicito ordine di Adolf Hitler il 29 marzo 1944. Ma, grazie alla sua straordinaria impresa, l’eroe della RAF impartirà una lezione memorabile alla Germania nazista, passando alla storia e conquistando un posto indelebile nell’immaginario collettivo mondiale.

Finalmente svelata la vera storia di Roger Bushell alias “Big X”, mente della più celebre evasione di massa da un campo di prigionia, immortalata nel film La grande fuga.

Pochissimo si è saputo su Bushell fino a quando la sua famiglia non ha donato le sue carte private, un tesoro fatto di lettere, fotografie e diari. Attraverso l’accesso esclusivo a questo materiale, Simon Pearson ha scritto la biografia del leggendario ufficiale della RAF.

«Narrata con abilità da Simon Pearson, questa è senza dubbio la biografia definitiva di Bushell.»
Daily Express

«Una biografia avvincente. Pearson è stato bravissimo nel portare alla luce così tante informazioni.»
Sunday Times

«Un racconto appassionante, che tratteggia un ritratto convincente di un vero eroe di guerra.»
The TimesSimon Pearsongiornalista, inviato di guerra, è stato anche corrispondente da Hong Kong, Cina, Australia e Stati Uniti. Dal padre, membro della Royal Air Force durante la seconda guerra mondiale, ha mutuato il suo interesse per la storia militare. Attualmente è caporedattore dell’edizione serale del «Times». Vive nella zona sud di Londra con la moglie e collega Fiona e i loro tre figli.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2014
ISBN9788854163454
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    Anteprima del libro

    Un eroe in fuga - Simon Pearson

    es

    222

    Titolo originale: The Great Escaper

    Copyright © Simon Pearson 2013

    First published in Great Britain in 2013 by Hodder & Stoughton

    An Hachette UK Company

    The right of Simon Pearson to be identified as the Author of the Work has been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    All rights reserved

    Map © Rodney Paull

    Traduzione dall’inglese di Gian Paolo Gasperi (Prologo-cap. 15) e Elisabetta Colombo (cap.16-Bibliografia

    Prima edizione ebook: febbraio 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6107-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Simon Pearson

    Un eroe in fuga

    La vera storia dell'uomo che evase dalla prigionia nazista

    omino

    Newton Compton editori

    Questo libro è dedicato alla memoria del maggiore Roger Joyce Bushell e di Lady Georgiana Mary Curzon; dei piloti della 601ª e 92ª Squadriglia raf; degli eroi della resistenza ceca, in particolare di Blažena Zeithammelová, di suo padre Otto e di suo fratello Otokar; nonché degli uomini di tante nazionalità che combatterono la Germania nazista da dentro i campi di prigionia, soprattutto gli ufficiali del Recinto Nord, lo Stalag Luft III.

    cartina

    L’assetto dell’Europa negli anni 1940-1944.

    Introduzione

    Nel tardo pomeriggio di sabato 29 settembre 2012, ero seduto tra i resti di una baracca di legno[1], in un bosco della Polonia orientale. In passato quel luogo era stato il carcere di un uomo affascinante: un combattente anticonvenzionale, che aveva passato la vita infrangendo le regole.

    Settant’anni fa, quel luogo era un campo di prigionia – lo Stalag Luft iii – a circa tre chilometri dalla cittadina tedesca di Sagan, oggi conosciuta con il nome polacco di Żagań.

    La pineta si è ripresa gran parte del Recinto Nord. Delle baracche un tempo occupate dai piloti alleati protagonisti di questa storia rimangono soltanto i blocchi delle fondamenta di mattoni rossi e i pavimenti di cemento.

    Raggi di sole tremolanti filtravano fra i pini e un vento leggero soffiava a tratti. Ero solo e, per un attimo, fui preso dalla commozione.

    Seduto su uno dei blocchi delle fondamenta, i miei pensieri furono interrotti dal latrato di un cane e dalla vista di un uomo che mi correva incontro. Indossava l’uniforme dell’esercito russo della seconda guerra mondiale ed era seguito da una ventina di bambini.

    «Lei è l’inglese che sta scrivendo il libro», disse. «Sono del museo».

    Gli raccontai che stavo cercando informazioni sulla vita di Roger Bushell.

    «Big x!», esclamò con un ampio sorriso. «Il capo del comitato per l’evasione! Ha vissuto qui… potrebbe raccontare la sua storia», disse. «Questo era un campo di prigionia, non di concentramento. Qui non c’erano mucchi di corpi. Questo posto era diretto dalla Luftwaffe, non dalle ss. In questo campo c’era onore».

    I bambini ascoltavano. Molti di loro mi salutarono; altri mi strinsero la mano. Alla fine, il polacco in uniforme sovietica si congedò: i bambini dovevano tornare al museo per una ricostruzione storica, mi spiegò.

    Ancora una volta, restai da solo nel bosco. Roger Bushell, il capo della grande fuga dallo Stalag Luft iii nel 1944, rimaneva per me un mistero.

    Circa cinquant’anni fa, ero seduto con mio padre, un ex aviere, in una sala cinematografica nelle Midlands inglesi, intento a guardare un film che faceva un drammatico resoconto dei fatti avvenuti nel bosco a sud di Sagan. Come per molti ragazzi della mia generazione, quell’epopea hollywoodiana[2] lasciò un’impronta indelebile su di me. E più o meno un anno dopo, tra i regali di Natale trovai l’omonimo libro di Paul Brickhill. Forse non era una sopresa il fatto che, in una casa in cui le librerie erano colme di biografie di aviatori, e di bombardieri e caccia realizzati con i kit di montaggio dell’Airfix, mi interessassi di storia, ma la curiosità sui fatti dello Stalag Luft iii continuò ad accompagnarmi e, semmai, a crescere.

    L’hobby si trasformò in una ricerca. In occasione della King’s Cup nell’aerodromo di Tollerton, poco lontano da Nottingham, dove mio padre pilotava gli aerei durante i finesettimana, incontrai alcuni ex piloti della raf che avevano conosciuto Roger Bushell. Mio padre poi mi portò a Biggin Hill, la base aerea militare, dove Bushell era stato assegnato all’inizio della guerra. Lessi molti testi ma nessuno raccontava molto di più del libro di Brickhill.

    In quella che è considerata una delle storie di guerra più amate dagli inglesi, l’uomo al centro degli eventi era stato in gran parte dimenticato. Mentre i personaggi principali dei due libri[3] più famosi di Brickhill – il tenente colonnello Guy Gibson, che comandò l’attacco aereo per la demolizione delle dighe tedesche, e Douglas Bader, un asso dell’aviazione, nonostante fosse invalido – divennero eroi nazionali, Roger Bushell, il protagonista del terzo, venne dimenticato. Brickhill era un giornalista australiano che era stato a sua volta prigioniero nel Recinto Nord. Tratteggiò il ritratto di un uomo affascinante, ma lo fece in maniera poco approfondita.

    Bushell non ebbe una trasposizione cinematografica del libro, come Gibson o Bader, in film a produzione inglese. Hollywood scelse personaggi di fantasia per La grande fuga invece di persone reali, e Roger Bushell – interpretato da Richard Attenborough nella pellicola – divenne Roger Bartlett. Veniva brevemente menzionato in una dozzina di libri, ma nessuno aveva raccontato la storia della sua vita. Come mai? Chi era Roger Bushell?

    Anni dopo, quando lavoravo al «Times», mi imbattei in un annuncio commemorativo negli archivi che ricordava l’anniversario della nascita di Bushell e ne celebrava la vita. Citava il poeta britannico Rupert Brooke: «Lascia una candida, immacolata luce, un’intensa radiosità, una vasta, luminosa pace, dinanzi alla notte». Era firmato Georgie[4].

    In quel momento mi resi conto che, oltre a una storia di guerra, c’era una storia d’amore da raccontare. Un amico del «Times», Ben Macintyre, mi disse che dovevo smettere di occuparmene a tempo perso: era venuto il momento di scriverci un libro.

    Di lì a poche ore, mi ero già messo in contatto con l’Imperial War Museum, spiegando a grandi linee il mio progetto e chiedendo se potevano aiutarmi. In uno di quegli straordinari scherzi del destino che possono determinare l’esito di qualsiasi impresa, la loro risposta mi spalancò le porte della vita di Roger Bushell. In quel periodo la sua famiglia era in contatto con il museo, poiché aveva intenzione di donar loro il proprio archivio. E gli addetti del museo sarebbero stati ben felici di far pervenire una mia lettera ai Bushell…

    Nel corso degli anni, la famiglia era stata contattata da molte persone per realizzare dei film o scrivere dei libri su Roger, ma con pochi risultati fino al 2010, quando sua nipote, Lindy Wilson – regista cinematografica sudafricana e sostenitrice della lotta contro l’apartheid – realizzò un documentario dal titolo For Which I Am Prepared to Die (Per il quale sono pronto a morire)[5], riprendendo un discorso di Nelson Mandela.

    La incontrai nel novembre del 2011, quando donò l’archivio di suo zio all’Imperial War Museum. Per la famiglia, quella fu una decisione molto importante[6]. «Dare l’archivio di Roger all’Imperial War Museum è un riconoscimento per il suo ruolo: egli non apparteneva soltanto a noi», disse, «ma anche al Paese per il quale morì».

    Sperava che suo zio, nato in Sudafrica ma vissuto in Gran Bretagna dall’età di quattordici anni, avrebbe ottenuto una maggiore considerazione. «La mia speranza è che il suo ruolo sia veramente riconosciuto – finalmente riconosciuto – dal Paese che amava e per il quale combatté, e che entri a far parte della sua cultura, della sua storia. È questo il suo posto».

    Il padre di Roger, Ben Bushell, condivideva la sua speranza. Quando gli fu chiesto un epitaffio per la lapide del figlio, inviò la seguente risposta al ministero dell’Aviazione di Whitehall:

    a capo di altri uomini,

    realizzò molto,

    amò l’inghilterra,

    e la servì fino all’ultimo.[7]

    L’archivio, che contiene una raccolta di lettere, il diario di sua madre, ritagli di giornale e fotografie, fornisce una testimonianza parziale – e spesso frammentaria – della vita di Bushell, ma offre comunque tre importanti fonti d’informazione.

    La prima è il diario dell’infanzia di Roger, scritto da sua madre, Dorothe, cosa che rivela lo strettissimo rapporto tra i due. È un documento importante, che narra in ordine cronologico la crescita di un individuo che aveva chiaramente bisogno dell’amore di sua madre in ogni momento della vita. Il diario personale di Dorothe, e quelli che sembrano passaggi scritti contemporaneamente in altri quaderni, furono raccolti e corredati di fotografie, anni dopo, dalla figlia più giovane, Elizabeth. Le sue parole sono la vivida testimonianza di una madre che amava il figlio e riteneva importante quasi ogni episodio della sua vita.

    L’archivio contiene anche molte delle lettere che Bushell scrisse alla famiglia durante i quattro anni trascorsi come prigioniero dei tedeschi. Alcune contribuiscono a capire il suo stato d’animo in periodi critici della guerra; altre nascondono le sue vere intenzioni, ma soprattutto mostrano l’ingegno di questo laureato dell’Università di Cambridge anche nell’avversità: sono tutte ben scritte.

    La terza fonte di informazioni – spesso a mo’ di chiarimento – è fornita dalle note a margine di Ben Bushell, aggiunte nel dopoguerra, quando creò l’archivio e cercò di dare un senso alla vita del figlio.

    Alcuni episodi sono ben documentati; altri no. Le ricerche possono essere frustranti – ore e ore passate a scartabellare nelle biblioteche e negli archivi – ma la vita di Roger Bushell raramente era noiosa e ho avuto spesso la fortuna di trovarmi in compagnia di persone generose, che volevano anch’esse saperne di più di lui, nonché di imbattermi in diverse straordinarie coincidenze.

    Le lettere di Bushell dalla Germania contenevano numerosi riferimenti a Graham e Mildred Blandy, la cui famiglia produceva vino fortificato a Madera. Mildred era un’amica di Bushell in Sudafrica e gli spediva pacchi viveri in Germania. Suo figlio, come scoprii, sarebbe stato un mio collega al «Times».

    Quando fui invitato a pranzo[8] con il nipote del tutore di Bushell, Harry North-Lewis, la famiglia chiamò molti amici. Uno di questi era il nipote di uno dei prigionieri che parteciparono alla grande fuga, Mike Casey. C’era un altro uomo, il cui padre, George Dudley Craig, aveva diretto l’operazione d’intelligence del comitato per l’evasione dal Recinto Est, che mi consegnò lettere cifrate e mappe della fuga su tessuto di seta dello Stalag Luft iii. Aveva un mucchio di quel materiale a casa.

    Analogamente – dopo aver visitato l’aerodromo di Tangmere, dove Bushell aveva comandato una squadriglia di caccia – andai a trovare mio cognato[9], che viveva nelle vicinanze, e gli raccontai della storia che stavo cercando di scrivere. Col trascorrere della serata, venne fuori che suo suocero, nato nel 1907, era andato a scuola con Bushell.

    In Inghilterra, in previsione del bicentenario della battaglia di Waterloo, nel 2015, il Wellington College[10] sta riaprendo archivi che erano stati abbandonati in scatoloni per quasi un secolo. Tra questi documenti, c’erano alcune schede di valutazione di Roger Bushell.

    A volte ci volevano settimane per procurarsi dei documenti nell’Archivio nazionale ceco[11]. Io fui fortunato. Un’impiegata[12], che parlava un po’ di inglese, era interessata a Bushell e scovò degli incartamente cechi e tedeschi attinenti al caso, compreso un fascicolo della Gestapo. Avevo il numero di telefono del tassista che mi aveva preso su nel centro di Praga. Era uno studente di legge[13] dell’Università Carolina che parlava correntemente l’inglese e che accettò di fare da interprete.

    In Sudafrica, i Bushell[14] condivisero con me lettere e fotografie, dandomi anche ospitalità. Visitammo i luoghi in cui Roger era cresciuto: la casa di famiglia sulla vena aurifera, la prima scuola a Johannesburg e la dimora dove la madre e il padre si ritirarono a Hermanus, sulla costa del Capo. Un monumento commemorativo dedicato a Roger si erge sul lungomare del vecchio porto. E ogni anno la Hermanus High School assegna due premi in suo nome, in riconoscimento della personalità e della linguistica.

    Si aprirono molte porte, anche se altre rimasero decisamente chiuse, e lo sono ancora, ma a poco a poco sono venuti alla luce i particolari di una vita straordinaria.

    Questa è la storia di Roger Bushell, un giovane partito in cerca di divertimento e di emozioni ma che finirà per essere un eroe di guerra – un eroe di guerra un po’ imperfetto, forse – amato da molta gente, sia uomini che donne. La sua è una storia che merita di essere raccontata.

    1. La grande fuga

    Nel piccolo paese di Penn sulle Chiltern Hills, in Inghilterra, una donna era in attesa. Attendeva da molto tempo: due anni dalla fine di un matrimonio non voluto, quasi nove dalla frenetica estate del 1935.

    Elegante, aristocratica, ex modella, era molto ambita.

    Come molte donne in tutto il mondo, la notte del 24 marzo 1944 attendeva il ritorno di un uomo dalla guerra. Le sue lettere lasciavano sperare che presto sarebbe rientrato a casa; il Natale appena passato, scriveva, sarebbe stato sicuramente l’ultimo trascorso come prigioniero in Germania. Seduta nella sua magione di campagna, la donna moriva dal desiderio di riabbracciarlo.

    Più a Est, a circa 1150 chilometri di distanza, vicino al confine tra Germania e Polonia, una fotografia in bianco e nero di quella stessa donna era attaccata sulla parete di una squallida baracca di legno[15]. Era una delle tante costruzioni dello Stalag Luft iii, un grande campo costruito per alloggiare migliaia di piloti alleati abbattuti nei cieli dell’Europa occupata e fatti prigionieri dai nazisti.

    Quella sera, la fotografia di Lady Georgiana Mary Curzon fissava una stanza vuota. L’uomo che di solito la occupava era in attesa trepidante in un tunnel denominato Harry, nove metri sotto la gelata campagna tedesca. Si chiamava Roger Bushell. Gli altri prigionieri lo conoscevano come Big x, il capo del comitato per l’evasione. Nato in Sudafrica da genitori inglesi, Bushell aveva trentatré anni. Era forte, alto più di un metro e ottanta, con una folta chioma scura, una voce stentorea e profonda, e straordinari occhi azzurri che parevano brillare al buio.

    Nel suo diario, sua madre Dorothe, arrivò a scrivere:

    Era una gioia per gli occhi; i tratti del suo viso ricordavano molto quelli della mia famiglia, ma il fisico era tale e quale suo padre da giovane: spalle larghe, fianchi stretti, mani e piedi affusolati ma belli, e un’eleganza naturale nei movimenti.[16]

    Bushell era detenuto nel Recinto Nord dello Stalag Luft iii, un gruppo di una ventina di fabbricati posti dietro torrette di guardia e muri di filo spinato, circa centonovanta chilometri a sudest di Berlino: nella Germania nazista, era il luogo più lontano da un confine non ostile dove un prigioniero alleato potesse trovarsi.

    Il tunnel in cui attendeva quella notte era uno dei tre (Tom, Dick e Harry) scavati dai prigionieri negli undici mesi precedenti quando Bushell – laureato a Cambridge, avvocato nonché sciatore di fama mondiale, con una movimentata vita amorosa – giunse a pianificare un’evasione su vasta scala. La costruzione di Harry testimoniava le capacità di Bushell, le sue doti organizzative e il rispetto che avevano per lui i suoi compagni di prigionia.

    Nel Recinto Nord, Bushell aveva nazionalizzato l’industria per l’evasione. Tutte le risorse dello Stato – sicuramente inglesi e anche molti tedeschi – furono utilizzate dai seicento prigionieri di varia provenienza che si offrirono di sostenere questa operazione alleata contro i nazisti. L’iniziativa di lanciarsi in singoli tentativi di fuga era stata repressa.

    L’entrata di Harry era meno di quarantacinque centimetri per lato, ma sufficienti per permettere a un uomo robusto con un cappotto pesante di passare. Il tunnel, che correva per circa cento metri dalla baracca 104 fino alla pineta che circondava il campo, era puntellato con oltre tremila tavole staccate da letti, tavoli e pareti di legno; era illuminato da lampadine elettriche e arieggiato da un sistema di ventilazione. Binari simili a rotaie ferroviarie rendevano relativamente facile percorrere in una direzione e nell’altra il tunnel dall’ingresso fino alla fine. Harry era un’opera di ingegneria improvvisata ma realizzata con una certa ispirazione, realizzata in gran segreto e tenuta nascosta ai tedeschi.

    Il maggiore Bushell, abbattuto quattro anni prima, quando era al comando degli Spitfire della 92ª Squadriglia nel Nord della Francia, si era unito poche settimane dopo al piano di fuga. Era certo che quella – la sua terza evasione dall’inizio della guerra – sarebbe stata anche l’ultima.

    Aveva più di un motivo per essere ottimista. I preparativi erano terminati. I duecento uomini che Bushell prevedeva di far scappare dal campo quella sera – la più grande fuga di massa di piloti alleati da un campo di prigionia – erano equipaggiati meglio di quanto lo fossero mai stati altri detenuti. Avevano documenti falsi, bussole, cartine e viveri, e indossavano abiti civili o uniformi tedesche. Quasi tutta la dotazione era stata realizzata dai prigionieri stessi. La qualità di gran parte del loro lavoro era buona; solo le condizioni del tempo erano sfavorevoli.

    Il capo del comitato per l’evasione godeva di alcuni vantaggi sulla maggior parte dei partecipanti all’operazione di quella notte. Dovendo viaggiare sotto le mentite spoglie di un uomo d’affari alle dipendenze del costruttore di aerei Focke Wolf[17], Bushell indossava autentici abiti civili[18]: un completo perfetto che aveva preso a Praga nel 1942, e un cappello di feltro dall’Inghilterra che aveva introdotto di nascosto nel campo. I documenti francesi erano probabilmente veri e aveva delle lettere di credenziali. Parlava correntemente il francese, una delle nove lingue a lui note, tedesco compreso. Big x voleva dirigersi a ovest, in Francia. Il suo compagno di viaggio era un francese, Bernard Scheidhauer, pilota di caccia di ventidue anni, la cui famiglia aveva rapporti con la resistenza. Scheidhauer conosceva anche il confine che avrebbero dovuto attraversare. I due dovevano essere tra i primi a uscire dal tunnel e intendevano prendere un treno alla stazione di Sagan, tre chilometri a piedi dal campo di prigionia, passando per la pineta.

    Se c’era qualcuno che aveva una probabilità di farcela, secondo molti, era proprio Roger Bushell.

    Ma Big x portava con sé tanti pesi e segreti. Stranamente, combinava due ruoli-chiave nel Recinto Nord: dirigeva tutte le operazioni dell’evasione, ma era anche un’importante risorsa dell’intelligence[19], con una specifica conoscenza della Germania, e la sua influenza andava ben oltre i confini del campo. A marzo del 1944, il suo nome era già noto ai servizi militari inglesi, che lo avevano registrato nel 1940 come un potenziale contatto. Fu uno dei primi prigionieri della raf a stabilire dei collegamenti con Londra e a contribuire alla realizzazione di lettere cifrate e radiosegnali, tanto che le notizie raccolte dai prigionieri di guerra divennero un’utile fonte per gli Alleati.

    Ma il nome del maggiore britannico era noto anche alla polizia segreta tedesca, la Gestapo. I suoi due tentativi precedenti di evasione avevano fatto puntare i riflettori su di lui e Bushell non si faceva nessuna illusione sulla sorte che lo avrebbe atteso nel caso fosse stato catturato di nuovo. Sarebbe stato fucilato[20].

    Erano le 21:30. Erano tutti nervosi.

    Quella sera, mentre Bushell meditava sulla sua posizione e faceva piani, il vento sibilava abbastanza da coprire il rumore delle vanghe che si conficcavano nel terreno ghiacciato. Era una notte senza luna.

    Sedici prigionieri attendevano con lui nel tunnel. Alcuni erano sui vagoncini, in attesa di essere spinti verso l’uscita; altri aspettavano su binari di precedenza noti come Piccadilly e Leicester Square: punti a metà strada che erano più ampi del tunnel principale.

    In superficie, nella baracca 104, altre centosettantatré persone aspettavano nelle camere e nei corridoi il proprio turno di entrare nel tunnel e di cominciare il viaggio di ritorno. Gli uomini indossavano giacche e cappotti civili pesanti, realizzati con uniformi militari e coperte. Avevano con sé valigie e altri bagagli. Preoccupati e vestiti con indumenti molto pesanti per affrontare il freddo intenso, sudavano nell’attesa. I cuori battevano forte. A volte sembrava che le pareti del tunnel stessero crollando mentre le tavole scricchiolavano e l’aria diventava pesante per via del fiato dei prigionieri. Quelli erano i momenti più spaventosi, più pericolosamente claustrofobici, mentre gli uomini attendevano, giù sottoterra.

    La tensione era palpabile anche nella baracca 104, dove l’entrata del tunnel Harry era stata scavata nel condotto di cemento di una stufa. In mezzo al fumo, i piloti, con indosso dei completi, fingevano di essere uomini d’affari olandesi o francesi. Altri erano vestiti da operai della Boemia, della Moravia e degli Stati baltici. Un pilota era entrato con la divisa da ufficiale tedesco, e c’era stato un attimo di panico.

    L’evasione doveva cominciare alle 21:30, ma erano già quasi le 22:00. Per molti quel momento era come le ore precedenti a un grande raid aereo sulla Germania, quando i piloti stavano seduti senza far niente nelle basi, in Inghilterra, attendendo che i bombardieri fossero armati e riforniti di carburante, consapevoli che le probabilità di tornare vivi non erano molto alte.

    Bushell era vicino all’uscita del tunnel dove due uomini, Lester Bull e Henry Marshall, entrambi noti col nome Johnny, si sforzavano di liberare al buio le tavole schiacciate le une contro le altre a protezione dell’uscita. Gonfiate dall’acqua prodotta dallo scioglimento della neve, erano incastrate.

    Quel venerdì mattina, mentre Bull e Marshall si sforzavano di aprire l’uscita del tunnel Harry, gli eserciti alleati non erano ancora certi della vittoria: le forze anglo-americane erano state attaccate sulla testa di ponte di Anzio, a sud di Roma, mentre tentavano di avanzare in Italia; l’invasione alleata della Francia del nord non era ancora avvenuta e le loro forze aeree stavano ancora subendo pesanti perdite rispetto alla Germania, con un numero di piloti fatti prigionieri sulla pianura della Slesia che cresceva costantemente. Le armate russe stavano ancora combattendo all’interno del proprio territorio.

    La guerra personale di Roger Bushell non era sembrata meno tumultuosa; era stata a tratti influenzata dai suoi rapporti con tre donne. La prima era la fidanzata, Peggy Hamilton, ambiziosa ragazza di Henley; la seconda era una patriota ceca di nome Blažena Zeithammelová; e la terza era una bellissima debuttante di nome Georgie, che desiderava ardentemente il suo ritorno. Lo aveva amato e perduto a metà degli anni Trenta, e nei mesi in cui Big x pianificava e organizzava il più intrepido dei tentativi di evasione, erano state proprio le sue lettere dall’Inghilterra a rafforzare la sua determinazione.

    L’evasione di massa non avrebbe permesso a molti uomini di tornare a casa. Quasi tutti coloro che avrebbero attraversato carponi il tunnel quella notte sapevano di avere poche probabilità di darsi alla macchia per molto tempo nell’Europa occupata, soprattutto d’inverno. Ma Bushell aveva messo in chiaro alla gente del Recinto Nord che era altrettanto importante ostacolare lo sforzo bellico tedesco – «rendere la vita un inferno ai crucchi»[21] – e che un’evasione di quelle dimensioni avrebbe aiutato lo sforzo bellico degli Alleati.

    Mentre lui stava in attesa, Adolf Hitler era al Berghof[22], il suo quartier generale sulle Alpi bavaresi, dove, il mattino dopo, avrebbe tenuto la sua quotidiana riunione sulla guerra con il feldmaresciallo Keitel, capo dell’alto comando tedesco, e altri dirigenti nazisti.

    Pochi minuti dopo le 22:00, Johnny Bull era rimasto in mutande e, ansimando e sudando, era impegnato a togliere le tavole che sbarravano l’uscita dei prigionieri nel bosco di Sagan. Le altre vennero via più facilmente. Johnny Marshall prese il suo posto e rimosse gli ultimi centimetri di terreno. In pochi secondi riuscì a vedere le stelle.

    Roger Bushell sentì quasi all’istante la folata di aria gelata. La grande fuga era cominciata.

    2. Il sapore della libertà

    Roger Bushell detestava i tunnel. Evitava sempre la metropolitana di Londra. Da ragazzo, era stato affetto da claustrofobia: aveva paura degli spazi chiusi, benché fosse cresciuto in una miniera d’oro in Sudafrica[23]. Non aveva alcuna intenzione di seguire le orme di suo padre, Benjamin Daniel Bushell, ingegnere minerario che aveva imparato il mestiere nel Klondike canadese e aveva diretto alcuni dei giacimenti più pericolosi e difficili sulla vena aurifera a est di Johannesburg.

    Ben era un uomo dotato di grande autorità e coraggio, ed era sempre in loco, spesso anche sottoterra, quando i minatori avevano dei problemi. Il suo datore di lavoro, la neonata Anglo-American Corporation, si arricchì sulle spalle delle miniere da lui dirette a Daggafontein, e a Springs nel Transvaal.

    L’impresa, fondata da Ernest Oppenheimer, riconobbe subito i meriti del responsabile di tale successo, come dimostrano i verbali della settima riunione generale degli azionisti di Springs, tenutasi al secondo piano della Corner House a Johannesburg, alle 10:45 del 26 maggio 1946:

    Il signor Bushell, il direttore della miniera, e la sua squadra meritano i nostri più calorosi ringraziamenti. Hanno svolto un ottimo lavoro per tutto l’anno. I rapidi progressi fatti, sia sottoterra sia in superficie, sono degni della massima lode; infatti, è solo grazie al temperamento del signor Bushell e al generoso sostegno della squadra e dei dipendenti che oggi abbiamo raggiunto la fase di produzione.[24]

    Il primogenito di Ben, Roger, stentava a mostrare caratteristiche simili. Quando si trattava di scavare gallerie o di fare altri giochi nei giardini delle varie case di famiglia, era sua sorella Rosemary che, spronata da lui, prendeva l’iniziativa. Lui la punzecchiava incessantemente, spingendosi, un giorno memorabile, al punto di bruciarle le bambole.

    Roger Joyce Bushell nacque il 30 agosto 1910, proprio quando fu concessa l’indipendenza all’Unione sudafricana. Il parto fu difficile e insieme propizio: nacque grazie all’intervento di un medico alcolizzato mentre la cometa di Halley passava nel cielo sudafricano.

    Nel diario dell’infanzia di Roger, sua madre Dorothe scrisse:

    Dopo ore di forte tempesta, tra fulmini che squarciavano il cielo e tuoni che esplodevano sopra la nostra casa di Springs Mine, nacque Roger.

    Attraversata la camera, l’infermiera aveva aperto le tende della finestra, mostrando così una torcia dorata fiammeggiante nel cielo azzurro. Si girò verso di me e disse: «Sa che quando la cometa di Halley è nel cielo un grande uomo muore e un altro nasce?». Compresi l’allusione, sorrisi a quell’apparente sciocchezza, ma apprezzai molto le sue parole.[25]

    La madre di Roger, Dorothe Wingate White, era imparentata con sir Francis Wingate, il quale aveva partecipato alla storica missione di salvataggio del generale Gordon a Khartum, nel 1885, ma la cui attività principale era nell’intelligence militare[26]. Tra i cugini di Roger figuravano T.H. White, autore di Re in eterno, e il maggior generale Orde Wingate, l’ispirato fondatore dei Chindits, unità anticonvenzionale di forze speciali che affrontò i giapponesi in Birmania.

    Il padre di Roger poteva vantare tra i suoi antenati i cavalieri di Guglielmo il Conquistatore: si diceva che uno di loro fosse menzionato nel registro dei primi attendenti del re, nell’abbazia di Battle, dopo la vittoria di Hastings del 1066[27]. Successivamente, il capostipite della famiglia era stato sir Alan Bushell di Brodmerston nel Gloucestershire (il suo nome sarebbe riecheggiato nelle orecchie di Roger per tutta la seconda guerra mondiale). Sir Alan era morto nel 1245. Il motto di famiglia, «Dum spiro spero» (finché respiro, spero), era stranamente di cattivo augurio.

    Ben era nato nel Regno Unito e Dorothe in India, ma si conobbero in Sudafrica. Lui stava cercando lavoro nell’industria mineraria; lei stava andando a trovare suo fratello che aveva combattuto nelle guerre boere alla fine del secolo, quando gli inglesi tentarono di mettere le mani sull’oro e sui diamanti controllati dall’altra tribù bianca lì presente, gli afrikaner, discendenti degli olandesi.

    Ben Bushell era alto, con braccia e gambe forti e muscolose, zigomi alti e un mento volitivo; aveva trentun anni quando nacque Roger. Vestiva in modo impeccabile: scarpe e camicie eleganti, spesso acquistate a Londra, e giacche di tweed. Dava molta importanza alla disciplina. Dorothe aveva una grande pace interiore. Bruna e bella, era moderna e istintiva, ed era cresciuta con parenti benestanti mentre suo padre serviva l’Impero. Aveva ventisette anni quando diede alla luce suo figlio, un figlio che amò molto.

    Dorothe lo allevò teneramente. Scriveva nel suo diario:

    Era un bambino delicato. Il suo corpo non sembrava mai abbastanza forte per il suo spirito volitivo e dovevo badare a lui con amore e cura speciali.[28]

    Infatti, nel timore che non potesse sopravvivere, Roger fu battezzato dalla sua infermiera cattolica quando aveva solo pochi giorni. Fu battezzato di nuovo quando aveva sei mesi nella chiesa anglicana di St George a Park Town, un sobborgo di Johannesburg. Fu un’occasione speciale.

    Secondo gli standard della maggior parte dei sudafricani, i Bushell erano ricchi. Nadine Gordimer – scrittrice, attivista politica e premio Nobel per la letteratura – crebbe nei pressi della casa dei Bushell, nella cittadina di Springs. Rimase molto impressionata da quella famiglia. In un’intervista del 2012, la definì «aristocratica»[29].

    Nel 1912, all’età di due anni, Roger fece il suo primo viaggio a Londra. Era accompagnato da Rosemary, la sorellina di sei settimane, soprannominata Tods, come il personaggio di un libro americano, Budge and Toddie, che parlava di due bambini disobbedienti.

    Ormai Roger correva così veloce che io, la sua vecchia mamma, non riuscivo a stargli dietro, e gli steward passarono gran parte del viaggio a rincorrerlo lungo i corridoi e a riportarlo nella nostra cabina.

    Quando possibile, lo steward lo portava in giro sul ponte e poi al bar dove riceveva un’accoglienza calorosa. In quel momento, penso che Roger avesse deciso che il bar fosse un posto accogliente.[30]

    Inoltre stava diventando sempre più consapevole della propria forza, ed era sempre al limite di un comportamento civile. Tra gli amici e i parenti in Inghilterra, sua madre si sforzava di fargli mangiare cibo che a lui non piaceva e di calmarlo quando faceva baccano, ma spesso lo viziava, e lui strepitava quando non otteneva ciò che voleva. E quando non l’aveva vinta, si metteva subito a provocare sua madre in nuovi modi. «I suoi occhi azzurri brillavano di furbizia», scrisse lei nel suo diario, contenta di riportarlo a casa.

    Col tempo, i Bushell si trasferirono in una nuova casa che si ergeva al centro di un grande giardino – quasi una tenuta – alla periferia di Springs. Era un vasto edificio di un solo piano, con un portico, quel genere di architettura coloniale costruita in India per proteggere le famiglie inglesi dal caldo. Nel parco c’erano una stalla, un’autorimessa e un campo da tennis. Di fianco, un campo da golf. La famiglia aveva una macchina con autista, e molti giardinieri avevano aiutato Dorothe a coltivare la tenuta in stile inglese; inoltre c’erano una brigata di cucina e vari domestici.

    Gli album fotografici di famiglia raccontano un’infanzia privilegiata, una famiglia affettuosa, vacanze sulla costa dove Roger aveva vinto la sua paura per il mare, e cani da compagnia, compreso il suo amato fox-terrier Tuppy. Nelle fotografie era semplicemente raggiante.

    La sua «infanzia fu molto felice», scrisse Dorothe. «La mente e il corpo divennero sempre più attivi e si fusero con una personalità amorevole, sensibile e intrepida».

    Dorothe notò inoltre una cosa strana riguardo agli straordinari occhi azzurri del figlio: «Brillavano al buio; non come quelli di un animale, ma erano molto luminosi».

    La sua propensione a combinare malefatte e il suo spirito d’avventura tuttavia stavano aumentando. I guai erano fatalmente dietro l’angolo quando i Bushell acquistarono la loro prima automobile. «Era una Ford», scrisse sua madre:

    Il bambino la accolse con grande interesse e gioia e voleva sempre dare una mano se era necessario fare delle riparazioni. Quando usciva con me gli lasciavo accendere il motore, mettere la mano sulla mia quando cambiavo marcia e tenere il volante con me durante la marcia.

    Mi resi conto della stupidità del mio comportamento una mattina quando scesi dall’automobile lasciando il motore acceso. In pochi secondi il birbante sgusciò sul sedile di guida e la Ford si avviò piano piano lungo la strada. Fortunatamente, aveva messo soltanto la prima, così, correndo, riuscii a raggiungerlo e a spegnere il motore.

    Roger si prese una bella strigliata, ma non se ne curò troppo, perché non appena tornò a casa raccontò a suo padre tutto orgoglioso quello che aveva fatto e io ricevetti un rimprovero di gran lunga peggiore del suo.[31]

    Il diario di Dorothe e gli album fotografici di famiglia restano le uniche fonti note di questo periodo della vita di Bushell; tuttavia – anche ammettendo la mancanza di obiettività di una madre – dipingono un quadro chiaro di un bambino con una crescente brama di vivere e di tutti i vantaggi che il suo ambiente privilegiato gli dava:

    Negli anni successivi, Roger si sforzò di conoscere tutto quello che lo circondava e noi lo incoraggiammo a farlo.

    Nei dintorni c’erano molti pernici e beccaccini e le anatre selvatiche si trovavano ad appena due o tre chilometri di distanza, perciò suo padre lo portava spesso con sé quando andava a caccia. Sulla costa erano abituati a uscire in barca a Walker Bay e a pescare insieme. Gli insegnai a cavalcare e a portare i pony; e Abram, il vecchio stalliere di colore, gli insegnò, quando aveva otto anni, a guidare i pony di Springs con i muli e a farli fermare a comando. Una bella impresa per un bambino di quell’età.[32]

    Più o meno in quel periodo, la famiglia scoprì Hermanus, una piccola località turistica del Capo Occidentale, a 1600 chilometri da Johannesburg e a più di un giorno di treno. La cittadina consisteva solo di un pugno di case con i tetti di canne. Il litorale verdeggiante comprendeva lunghi tratti di spiaggia sabbiosa interrotta da straordinari spuntoni di roccia vulcanica. Oltre la cittadina, una catena di monti s’innalza vertiginosamente. Hermanus si affaccia su una baia in cui le balene australi entrano in primavera per partorire, e dove a volte è possibile vedere emergere dal mare le orche con i loro grandi ventri bianchi.

    I figli di Dorothe erano incantati da quella località turistica.

    Erano giorni felici. Facevano tutti surf tra le lunghe onde del Capo, andavano in barca nella laguna e pescavano nelle piccole baie. Lì il mare è imprevedibile e pericoloso. La sua tumultuosa magnificenza può essere affascinante: prima una minacciosa onda lunga, poi una violenta tempesta bianca si abbatteva contro la costa di granito, quasi certamente fatale per un bambino sorpreso sulla sua strada.

    Roger imparò a pescare dai grandi scogli, un passatempo difficile e pericoloso, […] ma suo padre e la sua vecchia guida lo tenevano sempre d’occhio ed erano molto severi con lui se faceva una sciocchezza.[33]

    Quando, alla fine di agosto del 1918, compì otto anni, e contemporaneamente la prima guerra mondiale volgeva al termine, il sipario stava calando sull’infanzia idilliaca di Roger, proprio quando gli era stata data la libertà di scorrazzare su spiagge inviolate e di correre a cavallo sui veldt aperti sotto il cielo azzurro.

    Dorothe e i suoi due figli avevano vissuto in gran parte isolati, protetti dal conflitto mondiale che aveva mietuto milioni di vittime, e probabilmente ignari delle invidie e delle crescenti tensioni sociali a due passi da casa loro.

    Nadine Gordimer ricordava molto chiaramente la ricca famiglia che viveva accanto a lei a Springs:

    In questa strada c’erano le nostre piccole case periferiche in stile coloniale e proprio alla fine della via – era senza uscita – c’era la miniera di Springs. Davanti a casa mia c’era uno dei pozzi e un ampio giardino circondato da alte siepi e steccati: era la casa dei Bushell, la residenza del direttore della miniera nella nostra piccola città. Era la persona più importante nella nostra cittadina; era l’aristocrazia… e naturalmente eravamo molto curiosi di sapere com’era la sua dimora. Non so come, ma scoprii che aveva una cosa di cui non avevo mai sentito parlare da bambina, ossia la sala da biliardo. Così avevamo il nostro palazzo, la nostra piccola famiglia reale di Springs in fondo alla strada dove vivevo proprio io.[34]

    Nadine Gordimer, di madre inglese e padre lettone, osservava la vita dal lato opposto della via dov’erano i Bushell[35]. I minatori inglesi, in prevalenza immigrati, erano mal retribuiti e vivevano miseramente lontano dalle loro famiglie in zone delimitate; venivano inoltre scoraggiati ad andare nei negozi nel centro di Springs, a venti minuti dalla miniera. Alle ragazze bianche veniva insegnato ad avere paura dei minatori neri.

    L’autrice e attivista politica detestava Springs. «Era terribilmente chiusa. Non ho nessun bel ricordo di quel posto. Non c’era niente per me lì… Roger Bushell è una leggenda, ma la sua famiglia era di colonialisti», disse la Gordimer.

    Nel 1919 fu presa la decisione di mandare Roger alla Park Town Prep, un collegio a circa sessantacinque chilometri di distanza, a Johannesburg. Aveva otto anni e mezzo. Fino ad allora era stata sua madre a fargli da insegnante in casa. «Era un ottimo alunno, così interessato a tutto, soprattutto alla storia», annotò.

    Dorothe aveva due preoccupazioni riguardo al fatto di mandare suo figlio a scuola a Johannesburg, ed entrambe riguardavano due vizi infantili che avrebbero potuto esporlo al bullismo. La prima riguardava «l’abitudine quasi insopportabile» di succhiarsi il pollice; la seconda, «l’attaccamento quasi ridicolo» a un piccolo orsacchiotto di pezza che gli era stato regalato per il quarto compleanno. Lo portava ovunque e lo stringeva tra le braccia quando andava a dormire.

    L’arrivo alla Park Town School fu traumatico sia per lei che per suo figlio:

    Mi chiese di fermare l’automobile prima di raggiungere l’entrata della scuola. Lì, entrambi in lacrime, ci abbracciammo e ci salutammo. Quando a scuola venne il momento di separarci, mi strinse la mano e mi disse: «Addio,

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