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Il romanzo delle crociate
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Il romanzo delle crociate
E-book1.485 pagine22 ore

Il romanzo delle crociate

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Leggendario

3 romanzi in 1
Il signore delle crociate - Il signore delle battaglie - Il signore della Terra Santa

 Le epiche imprese di Saladino, il grande guerriero che sconfisse l’esercito crociato e riconquistò Gerusalemme.
«Salah ad-Din, o Saladino come era conosciuto presso i Franchi, era un curdo, figlio di un popolo disprezzato, eppure divenne sultano d’Egitto e di Siria. Riunì il popolo di Allah, riconquistò Gerusalemme e confinò i crociati sulla costa. Combatté e alla fine domò re Riccardo d’Inghilterra… Saladino fu un grande uomo, il più grande che io abbia mai conosciuto…». In queste pagine si raccontano le gesta epiche del condottiero di Allah e del suo amico-nemico, il crociato sassone John di Tatewic. Siamo a metà del 1100 quando John e Yusuf si conoscono, sono ancora dei ragazzi, l’uno schiavo ma poi compagno di battaglie e avventure dell’altro. Nel corso degli anni, la fama di Saladino si diffonde in tutte le terre chiamate sante dai crociati, di pari passo con le sue imprese e conquiste; diventa il malik, il re dei popoli che combattono contro i soldati invasori. La sua ultima, grande sfida è la riconquista di Gerusalemme, difesa da Riccardo Cuor di Leone. La storia di Saladino e di John di Tatewic si svolge in uno dei periodi più turbolenti e sanguinosi della storia, tra battaglie e imprese leggendarie, tradimenti e passioni ardenti e violente come il vento del deserto.

In tre avvincenti capitoli, la storia di uno dei più grandi condottieri di tutti i tempi.

Dalla giovinezza alla gloria, la vita di Saladino il Srande attraverso le sue eroiche, straordinarie avventure.

«Un libro ambizioso, un imponente affresco di epici eventi.»
Daily Mail

«Gli amanti del romanzo storico non potranno che apprezzare questa eccellente trilogia.»
Historical Novels Review
Jack Hight
È nato in Texas, ha conseguito un dottorato in Storia all’università di Chicago. Ha già pubblicato il romanzo Costantinopoli 1453. L’assedio. Attualmente vive a Washington DC.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2015
ISBN9788854166509
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    Anteprima del libro

    Il romanzo delle crociate - Jack Hight

    en

    715

    Tutti i personaggi di questi romanzi, eccetto quelli notoriamente storici, sono immaginari e qualunque somiglianza con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale

    Titoli originali: Eagle. A Warrior is Born, traduzione di Daniela Di Falco (il volume è già stato pubblicato nel 2012 con il titolo Il signore delle crociate. È nato un guerriero nella collana «Nuova Narrativa Newton»);

    Kingdom, traduzione di Elisabetta Colombo (capp. 1-10) e Gian Paolo Gasperi (cap. 11-Nota storica);

    Holy War, traduzione di Elisabetta Colombo (capp. 1-13) e Gian Paolo Gasperi (cap. 14-Nota storica)

    © Jack Hight 2011, 2012, 2013

    Cartine di Rosie Collins

    All rights reserved.

    The right of Jack Hight to be identified as the Author of the work has been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988

    Prima edizione ebook: gennaio 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6650-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Jack Hight

    Il romanzo delle crociate

    Il signore delle crociate

    Il signore delle battaglie

    Il signore della Terra Santa

    omino

    Newton Compton editori

    Il signore delle crociate

    Ai miei genitori, che mi permettevano

    di rimanere alzato fino a tardi, purché leggessi.

    cartina

    parte prima

    aquila

    Salah ad-Din, o Saladino come era conosciuto presso i Franchi, era un curdo, figlio di un popolo disprezzato, eppure divenne sultano di Siria ed Egitto. Riunì il popolo di Allah, riconquistò Gerusalemme e confinò i crociati sulla costa. Combatté e alla fine domò re Riccardo d’Inghilterra, che fu chiamato Cuor di Leone e ben si meritò quell’appellativo. Saladino fu un grande uomo, il più grande che io abbia mai conosciuto, ma la prima volta che lo incontrai non era che un ragazzino pelle e ossa...

    Da Le cronache di Yahya al-Dimashq

    1

    Marzo 1148. Baalbek

    Yusuf era seduto in sella, la pelle olivastra del viso chiazzata di rosso e il petto ansante nel faticoso tentativo di riprendere fiato. Aveva uno dei suoi attacchi, durante i quali il diavolo in persona sembrava serrargli i polmoni e spremerne fuori tutta l’aria. E più respirava in fretta, più l’aria diventava inafferrabile. Il suo cavallo si era già ripreso dalla corsa veloce e stava brucando uno dei rari ciuffi d’erba primaverile spuntato in mezzo alla polvere del campo da polo. All’estremità opposta del terreno di gioco, due dozzine di ragazzi proseguivano la partita senza di lui, nella nuvola di polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli che si accalcavano intorno alla kura, una palla di legno costruita con radici di salice. Le lunghe mazze ondeggiavano, alzandosi e abbassandosi per colpire la kura e cercare di sospingerla verso la porta lontana, costituita da due colonne romane semicrollate, resti di una costruzione da lungo tempo scomparsa. A un centinaio di metri dalle colonne si ergevano le imponenti mura della città di Baalbek e, un po’ oltre, dozzine di edifici in pallida arenaria stretti intorno a un antico tempio romano, che torreggiava sulla città circostante con le sue alte colonne. L’intero scenario era dominato dal picco scosceso e innevato del monte Tallat a.l Jawzani.

    Yusuf chiuse gli occhi e si appoggiò al collo del cavallo, sforzandosi di rallentare il respiro. Ignorò le grida d’incitamento e i richiami degli altri ragazzi e si concentrò sul battito rapido del cuore e sul dolce odore muschiato della criniera. Poco a poco, smise di ansimare e il cuore rallentò la sua corsa.

    «Yusuf!». Si drizzò a sedere sulla sella e riaprì gli occhi. La kura stava rimbalzando nella sua direzione sul terreno accidentato e uno dei compagni di squadra aveva richiamato la sua attenzione. Turan, il fratellastro maggiore di Yusuf, si era staccato dal gruppo e stava correndo dietro alla palla. Turan era alto e robusto, mentre Yusuf era esile e di bassa statura. A dodici anni, due più di Yusuf, Turan ostentava già un’ombra di peluria sul labbro superiore. Il suo cavallo era più grande e più veloce, ma Yusuf era più vicino. Avrebbe raggiunto la palla prima di lui.

    Scosse le redini e diede un colpo di talloni ai fianchi del cavallo, spronandolo al galoppo. Puntò gli occhi sulla kura e si preparò a sferrare il colpo. Stava già agitando la mazza in aria quando, prima di toccare la palla, ricevette una botta violenta nel fianco. Turan gli aveva ficcato l’impugnatura della mazza fra le costole. Yusuf scivolò di lato perdendo la presa sul maglio e cadde dalla sella. Rotolò su se stesso appena toccò terra, come gli era stato insegnato, per attutire l’impatto. Sollevò la testa appena in tempo per vedere Turan infilare la kura nella porta, un altro paio di alte colonne romane, e abbandonarsi a un grido di trionfo. Yusuf si rialzò adagio, con una mano sul fianco dolorante; poi, trascinandosi dietro la mazza, arrancò verso il cavallo che aveva trovato un’altra chiazza erbosa una cinquantina di metri più in là. Aveva mosso solo pochi passi quando Turan lo superò al galoppo rischiando di gettarlo di nuovo a terra e, afferrate le redini del cavallo intento a brucare, lo riportò a Yusuf.

    «Devi fare più attenzione, fratellino», gli disse con un ampio sorriso porgendogli le redini. «Un vero guerriero non si separa mai dal suo cavallo».

    «Un vero guerriero combatte in modo onorevole», borbottò Yusuf mentre rimontava in sella.

    «Cosa hai detto?», chiese Turan sollevando in alto la mazza. Aveva uno sguardo strano. Yusuf si domandò se avesse bevuto di nuovo.

    «Niente».

    «Sei sicuro, fratellino?». Yusuf annuì. «Bene». Turan girò il cavallo e lo condusse verso il centro del campo, dove lo stavano aspettando gli altri ragazzi. Yusuf gli andò dietro.

    «Ho una proposta!», gridò Turan ai compagni. Indicò le montagne che sorgevano a est della città. «Giocheremo finché il sole scomparirà dietro il monte Tallat a.l Jawzani. Chi perde accudirà i cavalli e pulirà le scuderie dei vincitori». I ragazzi della squadra di Turan, tutti più grandi di età, approvarono entusiasti.

    «Ma non è giusto!», protestò Selim, il fratello minore di Yusuf. Aveva solo otto anni e, a una prima occhiata, era una combinazione perfetta tra i due fratelli più grandi: alto come Turan, ma esile e magro come Yusuf. «Voi siete già in vantaggio per due a uno». Scosse la testa e fece per andarsene.

    «E va bene!», gli gridò dietro Turan. «Chi segna il prossimo punto vince». Selim si girò. «Ma chi perde accudirà i cavalli dei vincitori per un’intera settimana».

    Selim scosse di nuovo la testa e aprì la bocca per obiettare, ma Yusuf lo precedette. «D’accordo».

    I compagni di squadra lo guardarono a occhi sgranati, con un misto di rabbia e stupore. Erano tutti più grandi di Yusuf, ed erano turchi, parte della classe elitaria di guerrieri che predominava sugli arabi locali. Due anni prima, quando il padre di Yusuf era governatore di Baalbek, gli altri ragazzi sarebbero stati costretti ad assecondarlo. Ma dopo che l’emiro di Damasco aveva conquistato la città, il padre di Yusuf aveva perduto la carica e il rispetto dei ragazzi si era trasformato in disprezzo. Adesso, quando la sua famiglia veniva da Damasco per amministrare le terre rimaste di sua proprietà, Yusuf era semplicemente un curdo, un intruso. I ragazzi del posto obbedivano a Turan perché lo temevano, ma nessuno aveva paura di Yusuf.

    Haytham, il ragazzo più grande della squadra di Yusuf, gli si affiancò con il suo cavallo e lo afferrò rudemente per un braccio. «Cosa credi di fare, curdo?», sibilò. «Lo sai che non li abbiamo mai battuti».

    Il figlio dell’emiro locale, Khaldun, gli posò una mano sul braccio, dicendo: «Calma, Haytham». Accennò al sole, una sfera infuocata sospesa appena sopra le montagne. «Dobbiamo resistere solo il tempo necessario per il pareggio».

    Yusuf scosse la testa. «No, solo il tempo necessario per vincere».

    «Non sei così male, per essere un curdo», ridacchiò Khaldun. Poi, rivolgendosi a Turan: «Accettiamo la sfida».

    Turan sogghignò. «Allora giochiamo». Fece oscillare la mazza e colpì la kura di legno, mandandola a rimbalzare verso le colonne segnate dal tempo sul lato del campo di Yusuf. I ragazzi spronarono le cavalcature e si accalcarono intorno alla palla. Yusuf e Selim, invece, si tennero fuori dalla mischia, aggirandola per difendere la loro porta. Giocavano meglio negli spazi aperti, dove la superiore abilità come cavallerizzi tornava a loro vantaggio. Gli altri ragazzi schernivano sempre Yusuf perché rifiutava di partecipare alla lotta per la palla. Gli davano del codardo, ma Yusuf non badava a quel che dicevano: l’importante era vincere.

    La calca di giocatori si spostava avanti e indietro sul campo, prima vicino a Yusuf e alla porta che difendeva, poi più lontano. Il polverone che avvolgeva i cavalieri gli impediva di capire cosa stesse succedendo nella mischia, ma era chiaro che Turan stava dirigendo il gioco, approfittando della propria stazza per farsi largo tra i contendenti e raggiungere la kura. Yusuf sollevò lo sguardo oltre i giocatori, verso la montagna dietro Baalbek. Il sole ne aveva appena toccato la sommità e le ombre si rincorrevano sopra la città, ingoiando il tempio romano e le case tutt’intorno. La partita era quasi finita. Se voleva vincere, doveva agire in fretta.

    Tornò a concentrarsi sull’azione, in tempo per vedere Turan destreggiarsi in mezzo agli altri ragazzi e spedire la palla a tutta velocità verso la porta alla sinistra di Yusuf. La reazione del ragazzo fu istintiva: girò il cavallo e lo lanciò al galoppo dandogli un colpo di tallone nei fianchi. Raggiunse la kura appena in tempo, piantando la mazza nel terreno per arrestare la sua corsa. L’urlo di vittoria di Turan gli morì sulle labbra.

    «Selim!», gridò Yusuf, facendo rimbalzare la palla alla sua destra, in direzione del fratello. Il resto dei ragazzi si lanciò all’inseguimento della kura, mentre Yusuf si spostava a sinistra della folla. Quando la palla lo raggiunse, Selim la fece rimbalzare attraverso il terreno da gioco, oltre il gruppo di cavalieri, là dove Yusuf era rimasto solo. I ragazzi si affrettarono a girare i cavalli, ma era troppo tardi. Non c’era nessuno fra Yusuf e la porta lontana.

    Il ragazzo colpì la palla con violenza e la fece volare davanti a sé, seguendola al galoppo. Arrivato a metà campo, fece oscillare elegantemente la mazza e, senza rallentare, intercettò la kura con uno schiocco sonoro e la spedì verso la porta. I ragazzi lanciati all’inseguimento erano ancora lontani, tranne Turan, che si era staccato dai compagni e stava guadagnando rapidamente terreno. Yusuf spronò il cavallo avvicinando il corpo alla criniera, deciso a non farsi rubare la palla. Con la coda dell’occhio, vide Turan sopraggiungere a tutta velocità. C’era qualcosa di strano nel modo in cui cavalcava. Impugnava la mazza con una strana angolazione e i suoi occhi non erano fissi sulla kura, ma su di lui. Rendendosi conto di essere il bersaglio del fratello, Yusuf provò un brivido improvviso.

    Era ormai vicino alla palla quando sentì uno scalpiccìo di zoccoli alle sue spalle. Lasciò perdere la palla, concentrandosi invece sulla mazza di Turan. Doveva calcolare i tempi di azione con estrema precisione. Sollevò il maglio come per colpire la kura. Allo stesso tempo, lasciò andare le redini afferrandosi alla criniera del cavallo e sfilò il piede sinistro dalla staffa. Turan l’aveva quasi raggiunto, la sua mazza stava già descrivendo un arco nell’aria, pronta a calare sulla testa del fratello. Yusuf lasciò cadere il maglio a terra e si spostò rapidamente a destra restando aggrappato al fianco del cavallo. La mazza di Turan atterrò con un tonfo sordo sul cuoio della sella. Yusuf la agguantò e tirò con forza, disarcionando il fratello. Turan mollò la presa, ma era troppo tardi: lanciando un grido, rovinò a terra in una nuvola di polvere.

    Yusuf si issò di nuovo in sella e fermò il cavallo vicino alla kura. Si voltò a guardare indietro, oltre il punto dove giaceva Turan, oltre i giocatori lanciati al galoppo, verso l’ultimo baluginìo del sole che stava calando dietro la montagna. Il campo da gioco era già immerso nell’ombra. Yusuf si concentrò sulla palla, fece oscillare la mazza di Turan e sferrò un colpo energico che spedì la kura dritta nella porta avversaria.

    «Subhan Allah!», esultò. Alleluia! Avevano vinto. Lasciò cadere il maglio e alzò le braccia al cielo con un sorriso di trionfo. Stava girando il cavallo per ricevere le congratulazioni dei suoi compagni di squadra, quando qualcuno lo afferrò alle spalle e lo scaraventò giù dalla sella. Atterrò malamente, sbattendo con forza la testa sul terreno. Stordito e dolorante, si rialzò in piedi a fatica e si trovò davanti Turan, rosso in viso e con i pugni serrati.

    «Imbroglione! Mi hai strappato la mazza di mano. Hai infranto le regole!».

    «Tu stavi cercando di colpirmi!», si difese Yusuf.

    «Come osi accusarmi!», sbraitò Turan spintonando di nuovo il fratello a terra. «Sei tu che hai imbrogliato!».

    Gli altri ragazzi li avevano raggiunti e, senza smontare da cavallo, avevano formato un cerchio intorno ai due fratelli. «Lascialo stare, Turan», lo richiamò Khaldun.

    «Ma ha imbrogliato! Mi ha strappato la mazza. Altrimenti avremmo vinto noi».

    «D’accordo», disse Khaldun. «Il punto è annullato. Nessuno ha vinto la sfida. Sei contento adesso?»

    «Lo sarò quando questo imbroglione accudirà il mio cavallo e pulirà la mia scuderia. E anche tutti i vostri cavalli», aggiunse guardandosi intorno.

    Un silenzio carico di tensione calò sul gruppo di ragazzi e tutti gli occhi si puntarono su Yusuf. «Io non ho fatto nulla di male», disse lui tranquillamente.

    Turan alzò il mento e fece schioccare la lingua in segno di disprezzo. «Tu menti, fratellino». Gli si avvicinò, tanto che Yusuf sentì il calore del suo alito. «Ammettilo. Mi hai strappato la mazza di mano. Altrimenti non sarei mai caduto».

    Yusuf guardò gli altri ragazzi, poi tornò a fissare il fratello. «In battaglia gli uomini faranno di peggio che strapparti la mazza di mano, Turan. Un vero guerriero non si separa mai dal suo cavallo».

    Aveva appena finito di pronunciare quella frase, che il pugno di Turan si abbatté sul suo viso e una luce abbagliante gli esplose negli occhi. Si ritrovò seduto a terra con il naso sanguinante. Turan incombeva su di lui, i pugni ancora serrati e le labbra arricciate in una smorfia di sfida. «Fai sempre il saccente, non è vero, fratellino?», gli ringhiò in faccia. «Vuoi fare ancora lo sputasentenze, adesso?».

    Yusuf si sentì tutti gli occhi addosso. Respirava a fatica e dovette lottare contro quella familiare sensazione di panico. Adagio, si rimise in piedi, ma prima che potesse sollevare la testa, Turan gli sferrò un pugno nello stomaco. Yusuf si piegò in due e il respiro gli uscì in rantoli spezzati.

    «Ora basta, Turan!», gridò Khaldun.

    «Tu stanne fuori!», replicò aspro Turan. «È una faccenda tra me e mio fratello. Ha bisogno di una lezione».

    Yusuf si asciugò il sangue dal naso, lasciando sul dorso della mano una sbavatura rossastra. Lentamente, raddrizzò la schiena; aveva il respiro corto e affannoso e ogni tentativo di inspirare a fondo era inutile. Era in preda a uno dei suoi attacchi. Ciò nonostante, si costrinse a restare in piedi e a sostenere lo sguardo di Turan. Il fratello lo centrò con un altro pugno, questa volta alla mandibola. Yusuf barcollò, ma rimase ostinatamente saldo sulle gambe e si preparò a ricevere un altro colpo. Che tuttavia non arrivò: Turan era stato distratto dall’arrivo di un cavaliere dalla città. Nell’uomo di piccola corporatura e dalla carnagione scura, Yusuf riconobbe Abaan, uno dei mamelucchi di suo padre, schiavi turchi comprati da bambini e allevati per farne soldati. Il cerchio di ragazzi si aprì per permettere all’uomo di avvicinarsi.

    «Cos’è successo?», volle sapere Abaan mentre fermava il cavallo davanti ai due fratelli.

    «È caduto», rispose Turan accennando a Yusuf.

    «È vero?». Abaan guardò Yusuf, che si limitò ad annuire. Se avesse accusato Turan, le conseguenze sarebbero state ancora peggiori. Inoltre, Yusuf conosceva bene suo padre e sapeva che non avrebbe gradito le sue lamentele. «Bene», concluse Abaan. «Dovete rientrare subito insieme a me. Anche tu, Selim».

    I due fratelli montarono a cavallo. Mentre si avviavano dietro ad Abaan, Turan si affiancò a Yusuf e gli sussurrò: «Finiremo il discorso più tardi, fratellino».

    Yusuf varcò il cancello nello spesso muro di pietra che circondava la sua casa ed entrò nel cortile polveroso. Davanti a lui si ergeva l’edificio principale, una costruzione bassa di forma rettangolare in arenaria color ambra. Le luci tremolanti delle torce ai lati dell’atrio a cupola contrastavano l’avanzare dell’oscurità. Yusuf smontò da cavallo e seguì gli altri alle scuderie, situate lungo il muro sulla sinistra. All’interno c’erano quattro cavalli sconosciuti, con i musi affondati nelle mangiatoie. A giudicare dall’avidità con cui mangiavano, quel giorno dovevano aver coperto un lungo tragitto. Visitatori, dunque. Ma chi erano? In attesa di scoprirlo, Yusuf s’incamminò dietro a Turan, Selim e Abaan.

    Mentre attraversavano l’arioso ingresso con il pavimento di mattonelle rosse, Yusuf alzò lo sguardo, come faceva sempre. Su in alto, il soffitto a cupola era rivestito di piastrelle color indaco, intarsiato con stelle dorate. Nel pavimento era collocata una fontana bassa, in corrispondenza del centro della cupola. Le acque gorgoglianti si riversavano in un solco scavato a terra; Yusuf e gli altri ne seguirono il percorso fuori, nel cortile centrale della casa. Le torce accese lungo le mura illuminavano la piscina che si estendeva per tutta la lunghezza del cortile. Due uomini conversavano tranquillamente lungo il bordo dello specchio d’acqua, dando la schiena ai nuovi arrivati. L’uomo sulla destra aveva un portamento rigido ed eretto e un fisico asciutto; era di bassa statura, con la carnagione scura e i capelli corti che cominciavano a ingrigire. Yusuf riconobbe subito suo padre, Najm ad-Din Ayub. L’altro uomo aveva i capelli neri e arruffati, e sebbene fosse solo leggermente più alto del padre di Yusuf, era molto più corpulento, se non decisamente grasso.

    «I vostri figli sono qui, signore», annunciò Abaan prima di ritirarsi.

    I due uomini si voltarono. Ayub si accigliò notando il naso sanguinante e il labbro gonfio del figlio. L’altro uomo era rosso in viso, con un’orribile cicatrice che gli attraversava l’occhio destro bianco come il latte. Appena vide i ragazzi fece un ampio sorriso, scoprendo i denti storti. Era lo zio di Yusuf, Shirkuh.

    Selim e Yusuf gli corsero incontro e lui li sollevò con le braccia massicce, baciando prima il piccolo e poi il più grande su entrambe le guance. «Salaam ‘Alaikum, nipotini», tuonò Shirkuh. La pace sia su di voi.

    «Wa ‘Alaikum as-Salaam, zio», risposero all’unisono i due ragazzi, mentre Shirkuh li posava a terra.

    Il sorriso dello zio sbiadì quando osservò Yusuf più da vicino. «Cosa è successo alla tua faccia, ragazzo? Il naso sembra rotto».

    «Una partita di polo».

    «Polo, eh? Hai vinto?».

    Yusuf sorrise, nonostante il labbro gonfio e dolorante «Sì».

    Shirkuh gli strinse affettuosamente una spalla. «Ben fatto».

    Adesso fu Turan a farsi avanti. «Ahlan wa-Sahlan, zio». I due si scambiarono tre baci, com’era uso fra parenti adulti. «Sono lieto di vedervi».

    «E io sono lieto di vedere voi, tutti voi», replicò Shirkuh. «È passato così tanto tempo».

    «Andate ad accudire i vostri cavalli», disse Ayub ai figli. «Io e vostro zio dobbiamo parlare di affari».

    «Sì, padre», rispose Yusuf, imitato dai fratelli.

    «Vi rivedrò stasera a cena», gli gridò dietro Shirkuh, mentre i nipoti si affrettavano a lasciare il cortile.

    I tre ragazzi raggiunsero l’ingresso, ma non proseguirono in direzione delle stalle. Turan, infatti, girò a destra e aprì la porta che conduceva alle stanze. «Dove stai andando?», gli chiese Selim. «E i cavalli?»

    «Avremo tempo più tardi per i cavalli, Selim», gli rispose Yusuf.

    «Dopo che avremo scoperto di cosa stanno parlando», si associò Turan.

    Yusuf richiuse la porta, attento a non fare rumore, e i tre si avviarono in fretta lungo il corridoio, passando davanti alle camere da letto e alla sala della tessitura, dove sul grande telaio c’era un tappeto lavorato a metà. Girarono un angolo e percorsero un altro corridoio, fino a una massiccia porta di legno. Era già leggermente socchiusa. Turan la spinse ed entrò nella stanza semibuia. Centinaia di velli di pecora erano accatastati su cinque file lungo la parete opposta, e riempivano l’aria con il loro odore muschiato. Quella lana era il tributo annuo versato dai vassalli al padre di Yusuf, e veniva immagazzinata lì in attesa di essere lavorata, venduta o spedita al signore del padre di Yusuf, Nur ad-Din, ad Aleppo. Le cataste raggiungevano quasi il soffitto e alla fine della pila, proprio di fronte alla porta, spuntavano le piante bianche di due piedi nudi.

    «Chi è là?», chiese Turan.

    I piedi scomparvero, sostituiti un istante dopo da un viso. Era Zimat, la sorella maggiore. Aveva tredici anni ed era già una donna. Inoltre, era di una bellezza favolosa, e lo sapeva. Aveva una pelle liscia e vellutata del colore dorato della sabbia, lunghi capelli neri e i denti di un bianco smagliante, ora in bella mostra mentre sorrideva ai fratelli. «Sono io», bisbigliò. «Stavo ascoltando».

    «Non dovresti essere qui», le disse Turan. «Vattene!».

    Zimat non si mosse. «Zitto, idiota!», sibilò. «Ti sentiranno».

    «Non sono affari che ti riguardano, donna», brontolò Turan mentre si arrampicava accanto a lei. Yusuf notò che il fratello era scivolato esageratamente vicino a Zimat, premendole il corpo contro il fianco. La ragazza gli lanciò un’occhiata d’avvertimento e si scostò. Yusuf fu il secondo ad arrampicarsi, e si graffiò il viso e le braccia sulla lana grezza. Arrivato alla sommità della pila, avanzò carponi nella stretto spazio fra la lana e il soffitto e prese posto all’altro fianco di Zimat. La ragazza aveva dischiuso le imposte della finestra, ma Yusuf non riusciva a vedere nulla attraverso la sottile fessura, se non una striscia della piscina dove si riflettevano le luci tremolanti delle torce. Sentì le voci del padre e dello zio, ma erano troppo distanti per capire cosa stessero dicendo.

    «Di cosa parlano?», domandò a Zimat.

    «Di un re», sussurrò la sorella. «Di un posto chiamato Francia».

    «È il regno dei franchi!», esclamò Yusuf. «Dall’altra parte del mare».

    «Chi sono i franchi?», chiese Selim scivolando accanto a Yusuf.

    Zimat alzò gli occhi al cielo. «Ma non sai proprio niente? Ci sono i mostri di là dal mare. Selvaggi assetati di sangue che mangiano i bambini come te!».

    «Zitti», disse Turan. «Si stanno avvicinando».

    Yusuf tese l’orecchio. Suo padre stava parlando. «Quando sbarcheranno, e dove?»

    «Acri e Antiochia», rispose Shirkuh. I due uomini si fermarono e Yusuf intravide le loro nuche attraverso la fessura tra le imposte. «Quando, non saprei. Forse sono già sbarcati».

    «Quanti?»

    «Migliaia. Abbastanza per prendere Damasco, forse persino Aleppo».

    «Che Allah ci protegga», disse il padre di Yusuf. «La mia casa e quasi tutto quel che possiedo si trovano a Damasco. Se Aleppo e il nostro signore Nur ad-Din cadranno, per noi sarà tutto perduto. Abbiamo già lasciato due case, fratello. Dove andremo, stavolta?»

    «Non si arriverà a tanto, inshallah».

    «Se Dio vuole?», ripeté Ayub. «Dio mi ha voltato le spalle il giorno in cui è caduta Baalbek».

    «Attento, fratello, stai bestemmiando». I due uomini rimasero in silenzio per un momento, poi Shirkuh riprese il discorso. «La crociata è rischiosa, certo, ma è anche un’opportunità. Nur ad-Din ha un compito da affidarti. Se lo porterai a buon fine, godrai di nuovo dei suoi favori».

    «Parla, fratello, ti ascolto».

    «Il nostro popolo è diviso. I Fatimidi d’Egitto sono in disaccordo con il califfato degli Abbasidi a Baghdad. I Selgiuchidi minacciano il nostro signore da nord, mentre l’emiro Unur di Damasco si è alleato con i franchi. I cristiani hanno sfruttato queste divisioni per costruire il loro regno, ma se uniamo le forze, non possono contrastarci. Questa crociata può aiutarci a ritrovare l’unione. Nur ad-Din chiede che tu vada da Unur e gli riferisca quel che ti ho detto. Convincilo ad allearsi con il nostro signore».

    «Andrò, ma non credo che Unur mi darà ascolto».

    «Lo farà quando i franchi marceranno sulla sua città. La paura lo condurrà da noi».

    «Inshallah».

    «Inshallah», ripeté Shirkuh. «Dovresti portare Turan e Yusuf con te. È tempo che imparino qual è il loro posto in questo mondo».

    «Turan, sì, ma Yusuf è troppo giovane».

    «Forse, ma quel ragazzo ha qualcosa di speciale».

    «Yusuf?», replicò con aria di scherno Ayub. «È tormentato da continui attacchi. Non sarà mai un guerriero».

    «Non esserne così sicuro».

    Yusuf non udì il resto, perché Ayub e Shirkuh avevano continuato a camminare e le loro voci si erano attutite. «Avete sentito?», disse Turan con gli occhi che gli brillavano. «Migliaia di franchi: significa guerra! E io ci andrò!».

    «Li ho sentiti», replicò Yusuf. «Nostro padre ha detto che Damasco potrebbe cadere».

    «Non avrai paura, vero, fratellino?», lo punzecchiò Turan. Esagerò il proprio respiro, imitando uno degli attacchi di Yusuf. «Temo...», fece un rantolo, «che i terribili franchi...», un altro rantolo, «verranno a prenderti».

    «Smettila!», gli ordinò Zimat. «Non fare lo sciocco, Turan».

    «Zimat!». Era la voce della madre. «Dove sei? Dovevi mescolare la mishmishiyya[1]!».

    «Devo andare». Zimat scivolò giù dalla pila di velli e uscì in fretta dalla stanza.

    «Dobbiamo andare anche noi», disse Yusuf. «Se non accudiamo i cavalli prima di cena, nostro padre ci punirà».

    Yusuf arrivò a cena lavato di fresco; indossava un caffetano di cotone bianco con i bordi delle ampie maniche ricamati in rosso e stretto in vita da una cintura di lana rossa. Gli indumenti erano immacolati, ma aveva gli occhi arrossati e il naso gonfio. Ibn Jumay, il medico di famiglia, lo aveva visitato e la cura ebraica a cui lo aveva sottoposto era stata quasi peggio delle lesioni subite. Per prima cosa, Ibn Jumay aveva rimesso a posto il naso di Yusuf, deplorando per tutto il tempo i pericoli del polo. Poi gli aveva fatto fumare foglie di cannabis per calmare il dolore e ridurre il gonfiore e, quasi senza dargli il tempo di togliere la pipa di bocca, aveva impiastrato l’interno e l’esterno delle narici con un unguento disgustoso che odorava di uova marce. Il dottore aveva detto che avrebbe evitato un’infezione. Di certo, avrebbe impedito a Yusuf di godersi la cena.

    In onore del loro ospite, sul pavimento della sala da pranzo era stato disteso il tappeto migliore della casa: soffice pelo di capra annodato su un ordito di lana, con motivi di fiori rossi e stelle bianche su sfondo giallo. Per il resto, la stanza non aveva altri arredi, a parte un tavolo basso posto al centro e circondato da cuscini di cotone giallo tinto con zafferano imbottiti di lana. Yusuf prese posto al centro del tavolo, di fronte a Selim. Alla sua destra si sedette Turan, di fronte al padre, e Shirkuh si accomodò a capotavola. Alla sinistra di Yusuf c’erano Zimat e la madre di Yusuf, Basimah. La donna era una versione più anziana di Zimat, ancora splendida nonostante la chioma corvina striata da qualche filo grigio. Di regola, non si sarebbero mostrate alla presenza di un ospite maschile, ma Shirkuh era un membro della famiglia.

    Nel preparare il pasto di benvenuto per Shirkuh, Basimah e le due inservienti di cucina avevano superato loro stesse. Croccante pane piatto, appena tostato, con melanzane arrosto e salsa di noci, seguito da un eccellente stufato con albicocche, dove la dolcezza del frutto si mescolava alla perfezione con i bocconi salati di agnello. Yusuf sospirò. Era il suo piatto preferito ma, grazie a Ibn Jumay, tutto sapeva di uova marce. Decise così di ignorare il cibo e ascoltare Ayub e Shirkuh, impaziente di sapere se avrebbe seguito il padre nella missione a Damasco. Ma mentre lo stufato lasciava il posto alle lenticchie e all’arrosto di agnello, Ayub e Shirkuh continuavano a discorrere di argomenti banali: il raccolto, le dimensioni delle greggi, il tributo annuo.

    Alla fine, una volta che la tavola fu sgombrata dagli ultimi piatti e i servitori ebbero portato coppe di dolce succo d’arancia per dissetare gli ospiti, il padre di Yusuf si schiarì la gola e batté due volte le mani per ottenere la loro attenzione. «Shirkuh ha portato notizie inquietanti. I franchi hanno lanciato una seconda crociata. I sovrani francesi sono attesi ad Antiochia da un giorno all’altro. Forse sono già lì».

    «Che Allah ci aiuti!», esclamò Basimah. «Questo significa guerra».

    «Già», confermò Shirkuh. «E dovremo fare tutto il possibile per respingere i franchi. Le nostre spie dicono che hanno fatto arrivare centinaia di cavalieri con quei dannati cavalli da guerra. Ci servirà ogni singola spada che riusciremo a trovare».

    «Io combatterò!», dichiarò Yusuf. «Sono grande abbastanza».

    Basimah si accigliò, ma Shirkuh sorrise all’entusiasmo del ragazzo. Il volto di Ayub rimase impassibile mentre volgeva gli occhi grigi e duri al figlio. Yusuf raddrizzò le spalle e sostenne il suo sguardo. Alla fine, il padre annuì. «Tutti dobbiamo fare la nostra parte. Per questo domani lascerò la città insieme ai miei uomini alla volta di Damasco. Turan e Yusuf verranno con me». Yusuf non riuscì a trattenere un sorriso.

    «Turan e Yusuf... non... andranno!», protestò Basimah, sottolineando con la voce ogni singola parola. «Non condurrete i miei figli a farsi massacrare dai quei barbari».

    «Calmatevi, moglie», replicò Ayub con tono pacato. «Dimenticate il vostro posto».

    «No, marito, siete voi a dimenticare il vostro. Avete il dovere di proteggere i vostri figli, eppure intendete condurli come agnelli al sacrificio. Volete che siano catturati e venduti come schiavi? Che crescano in mezzo agli infedeli?»

    «I nostri figli non verranno catturati. Non li sto portando a combattere, ma alla loro età devono sapere cos’è la guerra. Devono conoscere chi è il nostro nemico».

    «E se Damasco cade? I franchi sono selvaggi. Non sanno nulla di Dio o della misericordia. Conoscono solo il sangue e la spada. Hanno ucciso mio padre, mia madre, mio fratello. Hanno...». Arrossì e distolse lo sguardo. «Hanno fatto cose orribili. Non uccideranno i miei figli!».

    «Se Damasco cade, i vostri figli non saranno al sicuro in alcun luogo», le disse Shirkuh con gentilezza. «Non potete proteggerli per sempre, Basimah».

    La donna aprì la bocca per controbattere, ma Ayub sollevò una mano per farla tacere. «Vi do la mia parola che non accadrà nulla di male a Turan e Yusuf. Sono anche figli miei».

    Basimah chinò la testa. «Va bene», sospirò. «Andiamo, Zimat. Abbiamo le nostre faccende da sbrigare. Lasciamo gli uomini ai loro discorsi». Si alzò e accompagnò Zimat alla porta, ma poi si fermò sulla soglia. Quando si girò, aveva gli occhi lucidi di lacrime. «Ho la vostra parola, Ayub. Mi riporterete i miei figli».

    2

    Aprile-giugno 1148. Acri

    John si sporse dal parapetto della nave e vomitò nelle acque azzurre e scintillanti del porto di Acri. La sua compagnia di cavalieri era in mare da una settimana, e John aveva penosamente sofferto il mal di mare per l’intera traversata. Ciò nonostante, ringraziava Dio di non essere stato lasciato indietro, in preda alla fame, alla sete e ai diabolici turchi Selgiuchidi. Avevano seguito come un’ombra l’esercito crociato attraverso le aride terre dell’Anatolia, piombando loro addosso con gli agili cavalli al calar delle tenebre e crivellando i guerrieri di frecce prima di scomparire nella notte come fantasmi. I Selgiuchidi ne avevano uccisi a migliaia, e quando i condottieri crociati avevano radunato una manciata di uomini e si erano imbarcati alla volta dell’Attalia, altre migliaia erano state abbandonate alla mercé dei turchi. A sedici anni, John era solo un fante ma, dato che aveva sangue nobile nelle vene, gli era stato assegnato un posto sulla nave. Almeno era servito a qualcosa, pensò, e vomitò di nuovo.

    Si pulì la bocca con il dorso della mano e alzò lo sguardo verso la città di Acri. Le navi erano allineate lungo la curva del molo, con gli alti alberi spogliati delle vele. Sui ponti, i marinai erano indaffarati a scaricare botti, sacchi di granaglie e pecore belanti. Al di là delle imbarcazioni, il porto era affollato di banchi del mercato e, ancora oltre, si stagliava una serie di edifici squadrati color bianco opaco che sembravano impilati l’uno sull’altro. Alla destra di John, le costruzioni si estendevano fino a una torre massiccia, parte delle mura che cingevano la città; alla sua sinistra, si inerpicavano verso una cittadella fortificata.

    «Sassone!», sbraitò una voce. John si girò e vide la sagoma imponente e barbuta di Ernaut avvicinarsi con passo pesante. L’uomo sogghignò notando la traccia giallognola di vomito sulla sopravveste bianca del giovane. «Smettila di vomitare e muovi le chiappe. Lord Reynald vuole parlarci».

    John seguì Ernaut sul ponte di prua, dove si erano radunati gli altri uomini in cotta di maglia e sopravveste bianca con una croce rossa sul petto. Ernaut scomparve nella cabina posteriore e tornò un istante dopo con Reynald. Reynald de Chatillon era un giovane di ventitré anni, ben proporzionato e di bell’aspetto. Aveva lineamenti marcati, i capelli rasati e la barba nera corta e curata. Sorrise, rivelando una dentatura bianca e regolare.

    «Soldati», cominciò, «è passato quasi un anno da quando abbiamo lasciato le nostre case per venire in Terra Santa. Ora finalmente, per grazia di Dio, siamo arrivati, e il nostro sacro compito può avere inizio». Alcuni dei presenti ridacchiarono: Reynald aveva visitato le taverne e i bordelli di ogni villaggio, da Worms fino in Attalia. La sua espressione s’incupì e le risatine maliziose si spensero all’istante.

    «Forse vi starete chiedendo perché non ci siamo imbarcati per Antiochia insieme a re Luigi e agli altri», continuò Reynald. «Il nostro sovrano mi ha affidato un’importante missione alla corte di Baldovino, re di Gerusalemme». Mentre parlava, tre marinai dell’equipaggio coprirono con un salto la breve distanza che li separava da terra, afferrarono le gomene e cominciarono a tirare la nave per accostarla al molo. «Come inviati di re Luigi, dobbiamo comportarci nel migliore dei modi», sottolineò in tono fermo. «Scenderò a terra per annunciare la nostra presenza a re Baldovino. Voi aspetterete al molo finché non ci diranno dove accamparci. Non voglio noie. Quindi niente donne e niente vino». Dagli uomini si levò un mormorìo di disapprovazione, ma appena la mano di Reynald scivolò sull’elsa della spada calò immediatamente il silenzio. L’uomo era un micidiale spadaccino. Annuì, soddisfatto. «Aspetterete qui», ripeté e si avviò con passo deciso verso la passerella calata dai marinai, seguito da due sergenti, Thomas e Bertran.

    «Avete sentito Lord Reynald!», urlò Ernaut. «Niente guai. E ora scendete a prendere la vostra roba».

    John seguì gli altri uomini sottocoperta. L’umida stiva era illuminata solo da un fascio di luce che filtrava dal boccaporto superiore. Gli imponenti cavalli da guerra, chiusi nei box che occupavano gran parte dello spazio, nitrirono e scalpitarono, pensando che fossero venuti a foraggiarli. John si tenne a debita distanza. Non era tanto la mole a distinguere quei destrieri dagli altri cavalli, quanto il loro temperamento. Era stato compito di John pulire i box durante la traversata, e più di una volta era stato morso, calpestato o preso a calci.

    John evitò i cavalli e si diresse verso lo spazio angusto dove avevano dormito i cavalieri, con le coperte sottili distese quasi l’una sull’altra. Il ragazzo afferrò la sacca di cuoio che conteneva l’elmo, una tunica di riserva, una tenda semplice, una coperta di lana e il suo libro di preghiere. Indossava già i beni più preziosi: stivali e braghe di cuoio; armatura di cotta di maglia lunga fino alle ginocchia; un lacero mantello; uno scudo ad aquilone portato sulla schiena; una borraccia di pelle a tracolla e, appesa alla cintura, la spada di suo padre e una borsa contenente pochi spiccioli e la pietra da cote.

    Si gettò la sacca sulla spalla e raggiunse la passerella. I soldati già sbarcati si erano inginocchiati a baciare la terra. John si unì a loro, si fece il segno della croce e offrì una preghiera alla Vergine per essere arrivato sano e salvo. Sembrava fosse passato un secolo da quando aveva abbandonato l’Inghilterra con l’armatura sulle spalle e la spada al fianco. Si era unito alla crociata a Worms e aveva marciato attraverso le grandi città di Salonicco, Costantinopoli ed Efeso. Adesso, finalmente, si trovava nell’Outremer, la Terra Santa. Si alzò e inspirò profondamente. Il tipico odore del porto – aria salmastra e pesce appena pescato – era coperto dagli aromi pungenti che provenivano dal mercato vicino: intense fragranze femminili, carni arrostite, pane lievitato e incenso. Tirò fuori l’elmo dalla sacca e lo usò come appoggio per sedersi. Il sole del tardo mattino era a picco sul molo; John si asciugò il sudore dalla fronte mentre osservava il mercato. Poco lontano, due saraceni con la carnagione olivastra e il tipico burnus bianco – un ampio mantello a maniche larghe – vendevano spade e coltelli. John non aveva mai visto lame del genere, con le superfici di metallo lucidato coperte da disegni intrecciati in grigio più scuro.

    «Cosa ci fanno qui?», domandò uno dei cavalieri indicando i due saraceni. Era un chiacchierone di nome Aalot, soprannominato il Guercio. Sosteneva di aver perso l’occhio combattendo contro gli inglesi in Normandia, ma John aveva sentito dire che era opera di una prostituta vendicativa. «Credevo fossimo venuti a combattere quei predoni del deserto, e invece eccoli qui a metter su bottega in una città cristiana».

    «Lascia stare, Guercio», gli ordinò Ernaut. «Non dobbiamo creare fastidi».

    Guercio allargò le braccia in segno di protesta. «Non sto creando fastidi». Si rivolse a Coniglio che, con i suoi tredici anni, era il più giovane fra i soldati. Il suo vero nome era Oudin, ma gli uomini gli avevano affibbiato quel nomignolo per via del modo in cui arricciava il naso quando era nervoso e a causa delle grandi orecchie, del tutto sproporzionate rispetto al viso magro e lentigginoso. «Ho sentito che i saraceni mangiano i loro prigionieri», disse il Guercio. «Gli strappano il cuore mentre sono ancora vivi e lo divorano crudo».

    «E questo dopo averli sodomizzati», aggiunse un altro degli uomini.

    Coniglio sgranò gli occhi. «Sono solo storie».

    «Non esserne così sicuro», insistette il Guercio. «Tu hai combattuto nella prima crociata, Tybaut. Diglielo».

    Tybaut, un omaccione dai capelli grigi, era intento ad affilare la spada con colpi lenti e decisi di cote. Senza alzare gli occhi dal suo lavoro, rispose con voce bassa e aspra: «Sei abbastanza giovane perché ti prendano come schiavo, Coniglio. Ti sodomizzeranno dopo». Gli uomini scoppiarono a ridere, e Coniglio arricciò il naso.

    «Fa maledettamente caldo qui fuori», brontolò Ernaut, interrompendo la risata. «Tu, sassone! Vai a prendermi un po’ d’acqua», aggiunse, lanciandogli una borraccia.

    «Sangue di Cristo!», imprecò John sottovoce. «Sì, signore», aggiunse ad alta voce, alzandosi in piedi.

    «Anche a me, sassone», disse il Guercio, tirandogli la sua borraccia, subito imitato dagli altri uomini, finché le borracce divennero due dozzine.

    John imprecò di nuovo. Come secondo membro più giovane dell’equipaggio, e per giunta inglese, era continuamente oggetto di scherno e gli venivano assegnati i compiti più degradanti. Cominciò a raccogliere le borracce. Avrebbe avuto il suo bel da fare per riportarle tutte indietro una volta riempite, sempre che avesse trovato un pozzo.

    «Ti aiuto io», si offrì Coniglio, infilandosi otto borracce in spalla.

    «Ricordati, sassone: devi solo riempirle d’acqua!», precisò il Guercio facendo un gesto indecentemente allusivo, seguito da un altro coro di risate.

    «Cosa vuol dire?», chiese Coniglio.

    «Lascia perdere», rispose John facendosi largo a spallate in mezzo alla ressa del mercato, un misto di franchi dalla carnagione chiara, ebrei barbuti, cristiani locali, saraceni e africani dalla pelle scura, tutti in burnus e turbante. Donne velate punteggiavano qui e là la folla, mantenute a rispettosa distanza dagli uomini. John passò davanti a un banco, dove un italiano dai capelli neri stava mostrando alcune strisce di cuoio a due templari rasati di fresco, con le tipiche sopravvesti del loro ordine: per metà bianche e per metà nere, decorate con una croce rossa. Accanto al banco, un monaco con il cappuccio nero guardava il mare, mordicchiando uno spiedino di carne non ben identificata. «Scusate, sto cercando un pozzo». Il monaco lo guardò perplesso, poi allargò le mani e disse qualcosa in aramaico. John si avvicinò a una donna velata con una tunica dorata, intenta a esaminare dei calici di vetro sul banco di un ebreo grasso e barbuto, con il caratteristico zucchetto sulla testa. «Perdonatemi, signora».

    La donna si voltò a guardarlo con occhi sgranati. Un istante dopo, qualcuno afferrò John per le spalle e lo spinse rudemente da parte. «Non dovete parlare alla signora», lo apostrofò un franco alto e muscoloso in cotta di maglia, allontanandosi nella folla insieme alla donna.

    John si rivolse al mercante ebreo. «Scusate, signore», cominciò in lingua franca, ma l’uomo scosse la testa e rispose in una lingua che John non comprese. «Parlate inglese?», azzardò John. L’ebreo scosse di nuovo la testa, poi tentò con un’altra lingua che il giovane non riconobbe, poi con un’altra ancora. «Latino?», domandò John alla fine.

    Gli occhi del mercante si illuminarono. «Naturalmente».

    «Sto cercando un pozzo».

    «Non ci sono pozzi in città».

    «Non ci sono pozzi?», ripeté John, esterrefatto.

    «C’è una fontana, da quella parte», disse, indicando in direzione del molo, dove un vicolo in ombra si addentrava nella città. «Là troverete l’acqua».

    «Vi ringrazio. Andiamo», disse a Coniglio in lingua franca. I due ragazzi seguirono il molo verso l’entrata del vicolo.

    «Come fai a conoscere tutte quelle lingue?», gli chiese Coniglio.

    «Sono un secondogenito. Sono stato educato per entrare nella Chiesa».

    «E allora perché sei qui?».

    John fece una smorfia e accennò alla croce rossa da crociato ricamata sulla sopravveste. «Ho preso la croce, invece».

    «Perché?»

    «Non sono affari tuoi», ribatté aspramente John. Ma le sue parole furono coperte dal vociare della folla poco più avanti, accalcata intorno a una piattaforma dove era in mostra un giovane saraceno pelle e ossa, con indosso solo un sottile perizoma.

    Accanto al giovane, un mercante di schiavi italiano ne declamava a gran voce le virtù in latino. «È forte come un bue», dichiarò, stringendo l’esile bicipite del saraceno. Poi lo schiaffeggiò, senza ottenere alcuna reazione. «Ed è anche docile».

    John distolse lo sguardo e imboccò il vicolo in ombra che gli aveva indicato l’ebreo. La viuzza curvava a sinistra, poi a destra, restringendosi gradualmente. John dovette scavalcare un mendicante, seduto a terra con il capo chino e la mano tesa. Qualche metro più avanti, una formosa saracena mezzo svestita si affacciò da una soglia buia. «Sono dieci fal», disse in latino. John svicolò oltre, e la donna si rivolse a Coniglio. «Per te solo dieci monetine», gli sussurrò. Ma John fu svelto a trascinare via il ragazzo.

    Emersero dal buio del vicolo in una piazza triangolare inondata di luce. Nel centro, l’acqua gorgogliava dalla bocca di un’antica testa di pietra e si raccoglieva in un’ampia vasca, dove uomini col turbante e donne velate attingevano per riempire i loro orci di terracotta.

    «Acqua che sgorga dalla pietra», mormorò Coniglio. «Com’è possibile?».

    John si chinò sulla vasca e raccolse un po’ d’acqua fresca nelle mani chiuse a coppa. «Non lo so, ma è una vera benedizione». Mentre diceva così, si sentì toccare una spalla. Alzò lo sguardo e vide Coniglio accennare agli uomini e alle donne intorno a loro. Avevano interrotto le loro mansioni e stavano fissando John con espressione palesemente minacciosa. Uno di loro, un uomo alto, con la pelle olivastra e una lunga barba, e un pugnale ricurvo infilato nella cintura, indicò John e gridò qualcosa in aramaico.

    John allargò le braccia in segno di resa. «Mi dispiace. Non capisco». L’uomo gli si avvicinò e cominciò a urlare quella che sembrava una sfilza d’insulti, puntandogli più volte il dito contro il petto. «Ve l’ho detto: non capisco la vostra miserabile lingua saracena», protestò John. «E ora lasciatemi in pace». Diede uno spintone al saraceno, che barcollò indietro di qualche passo. Subito la sua mano si chiuse sull’impugnatura del pugnale, e John e Coniglio estrassero le spade.

    «Vi consiglio di rinfoderare le armi», disse una voce in lingua franca alle loro spalle. Era un giovane con la chierica e la tonaca nera da sacerdote. Esortò John a guardarsi intorno: almeno una dozzina di uomini in turbante avevano estratto i loro pugnali.

    «Fai come dice», disse John a Coniglio.

    «Grazie», disse il sacerdote. «Qui non amiamo la violenza». Si avvicinò al saraceno infuriato e i due si scambiarono alcune parole in arabo, poi si baciarono sulle guance. Apparentemente soddisfatto, il saraceno si allontanò e il sacerdote tornò da John.

    «Cosa voleva quel saraceno?»

    «Oh, non è un saraceno. Questi uomini sono cristiani locali».

    «Stento a crederlo», borbottò John.

    «Sono secoli che i cristiani siriani e armeni vivono in mezzo ai saraceni», gli spiegò il sacerdote. «Hanno adottato le usanze arabe, ma sono cristiani quanto voi e me».

    «Ma cosa voleva?»

    «Ha detto che voi due avreste dovuto lavarvi prima di venire alla fontana. Teme che possiate inquinare le acque». John guardò la gente nella piazza. Avevano tutti mani e visi puliti e indossavano caffetani di lino bianco e immacolato. Anche il sacerdote aveva i capelli puliti e ordinati e le unghie corte. John abbassò lo sguardo sulla sopravveste sudicia, ancora chiazzata di vomito. L’aspetto di Coniglio era leggermente migliore, nonostante i capelli arruffati. «Spero di non offendervi», continuò il sacerdote, «ma avete un odore alquanto sgradevole. I bagni pubblici sono laggiù», aggiunse, indicando un grande edificio lungo la strada.

    «Bagni pubblici?», ripeté Coniglio. «Che posto selvaggio è mai questo?».

    Il religioso sorrise. «Adesso siete in una terra di selvaggi, mio nobile signore. Dovrete imparare a comportarvi come tali». Si girò per andarsene.

    «Grazie per l’aiuto, padre», gli gridò dietro John. «Posso sapere il vostro nome?»

    «Guglielmo», rispose. «Guglielmo di Tiro. Benvenuti nel Regno di Gerusalemme, nobili cavalieri. Spero che troverete tutto ciò che cercate». Detto questo, si allontanò.

    «E ora?», chiese Coniglio.

    «Ora ci faremo un bagno», replicò John con una smorfia.

    Gli fischiavano ancora le orecchie, mentre scendeva con Coniglio lungo il vicolo che portava al molo, barcollante sotto il peso delle borracce piene. L’esperienza dei bagni era stata peggiore di quanto avesse previsto. Erano entrati dalla porta sbagliata, trovandosi circondati da donne che avevano preso a strillare indignate e li avevano cacciati fuori in strada, con grande divertimento degli uomini che oziavano nella frescura dell’ombra.

    Dopo aver trovato l’entrata per gli uomini, avevano pagato una moneta ciascuno a un tipo sudato dagli occhi sporgenti che, parlando in lingua franca con un marcato accento straniero, aveva ordinato di spogliarsi e consegnato loro due panni di cotone sottile da annodare intorno ai fianchi. Erano stati sospinti attraverso una piccola sala che ospitava una vasca di acqua fredda e fino a una grande piscina di acqua fumante, che occupava interamente un edificio ottagonale coperto da un alto soffitto a cupola. La luce, che filtrava dalle finestre ricavate in alto nelle pareti, illuminava uomini di ogni razza, tutti nudi a parte il panno annodato in vita. John si era lavato in modo soddisfacente e stava per uscire dall’acqua, quando gli si era avvicinato un enorme inserviente saraceno che lo aveva agguantato per un braccio e l’aveva strofinato energicamente da capo a piedi con una spazzola a manico lungo. Coniglio aveva ricevuto un trattamento ancora peggiore, afferrato per le spalle da un burbero anziano che lo aveva immerso ripetutamente nell’acqua.

    Con la pelle scorticata, John e Coniglio erano stati accompagnati alla vasca più piccola e spinti dentro l’acqua gelida. Ansimanti e tremanti per il freddo, avevano avuto finalmente il permesso di uscire. Si erano ritirati nello spogliatoio, dove avevano scoperto che i loro indumenti erano stati lavati nel frattempo. Praticamente, avevano lasciato l’edificio di corsa. Tuttavia, John doveva riconoscere che il prurito alla testa era sparito e che da mesi non aveva mani così bianche. Forse quell’usanza non era poi così barbarica.

    «Sangue di Cristo», imprecò John sbucando dal buio del vicolo. I banchi del mercato stavano chiudendo prima della calura del mezzogiorno, e la folla si era dispersa per le strade della città. Oltre il mercato, la nave con cui erano arrivati poche ore prima aveva già cominciato le nuove operazioni di carico: grossi barili che i marinai facevano rotolare su per la passerella. Il tratto di molo fra il mercato e la nave era deserto. Gli uomini della loro compagnia erano spariti.

    «Tu, marinaio!», gridò John a uno degli uomini che si occupava del carico. «Dove sono andati i soldati?». Il marinaio si strinse nelle spalle e indicò un punto lungo il molo, fuori dalla cittadella. John scrutò l’area del porto, ma non c’era traccia dei compagni. «Maledizione!», sbottò, lasciando cadere a terra le borracce.

    «Dovremmo cercarli», suggerì Coniglio.

    «Dove? Là dentro?», replicò John accennando alla città. «Non sappiamo che direzione hanno preso. Finiremmo col perderci».

    Coniglio arricciò il naso. «Volevo solo rendermi utile».

    John sospirò. «Hai ragione, Coniglio. Forse il venditore di vetri sa dove sono andati». Si rimise le borracce in spalla e puntò verso il mercante ebreo, che stava chiudendo il banco. «Grazie, signore. Abbiamo trovato l’acqua», disse, indicando i recipienti. L’ebreo sorrise soddisfatto. «Gli uomini che erano qui», continuò John indicando il punto dove erano seduti i compagni, «sapete dove sono andati?».

    Il mercante scrollò le spalle. «No, mi spiace». Scelse un filo di perline di vetro e glielo porse. «Volete comprare qualcosa? Un regalo per una signora?»

    «No, vi ringrazio». Voltandosi, John notò un cavaliere che li osservava dall’alto della sella. Portava una sopravveste nera decorata con la tipica croce bianca a otto punte degli Ospitalieri.

    «Cercate qualcosa?», domandò il cavaliere.

    «Siamo uomini di Reynald de Chatillon», spiegò John. «Stiamo cercando il resto della compagnia».

    L’ospitaliere li guardò incuriosito. «Uomini di Reynald, eh?». Fece una pausa, poi indicò in direzione del molo. «Il resto della vostra compagnia è andato da quella parte. Stanno montando il campo fuori città, appena superato l’ingresso del porto».

    «Grazie, signore».

    Il cavaliere accennò un saluto e si allontanò.

    John e Coniglio si avviarono di buon passo lungo il porto, fra velieri con alti alberi maestri sulla destra e tozzi edifici sulla sinistra. Quando raggiunsero finalmente le mura di Acri, le spalle di John bruciavano per l’attrito con le cinghie delle borracce. La fine delle mura era segnata da una massiccia porta-torre quadrata, che svettava sulla costa. Varcarono la porta, che dava su uno spiazzo deserto, e poi superarono una seconda cinta muraria, più esterna. I compagni stavano montando le tende all’ombra della fortificazione.

    «Dove siete stati?», sbraitò Ernaut, appena vide i due ragazzi arrancare esausti e posare a terra le borracce. Prese la sua e ingollò una lunga sorsata d’acqua, socchiudendo gli occhi mentre esaminava più attentamente John e Coniglio. «Che avete fatto? Sembrate due maialini strigliati a dovere per essere venduti al mercato».

    John si sentì avvampare. «Niente. C’è voluto un po’ per trovare l’acqua».

    «E ci hanno fatto fare il bagno», aggiunse Coniglio. John sussultò.

    Ernaut mollò la borraccia e scoppiò in una fragorosa risata, schizzando acqua anche dal naso. L’ilarità contagiò gli uomini lì intorno, e gli altri si avvicinarono per scoprire la fonte di tanto divertimento.

    «Vi hanno fatto fare il bagno?», chiese il Guercio, ammiccando. «Racconta, Coniglio. Il sassone ti ha strofinato a dovere?»

    «No», rispose il ragazzino. «C’erano degli inservienti per questo». La risposta provocò un altro scoppio di risate.

    «Lascialo in pace, Guercio», intervenne John. «Andiamo, Coniglio. Montiamo le tende». John si allontanò a grandi passi, seguito dal riso beffardo dei soldati.

    «Cosa ho detto di male?», volle sapere Coniglio.

    «Niente. Cerca solo di tenere la bocca chiusa davanti a loro». Lasciò cadere a terra la sacca e cominciò a montare la tenda in fondo all’accampamento. Lanciando un’occhiata dietro le spalle, vide gli uomini sbellicarsi dalle risa mentre il Guercio si chinava, con il sedere in aria e uno sguardo perplesso, gridando: «Cos’era, un pezzo di sapone, sassone?». John storse la bocca. Prima avessero cominciato a combattere, meglio sarebbe stato.

    La pala affondò nel terreno sabbioso e John vi si appoggiò con tutto il proprio peso, prima di sollevare un mucchio di terra e gettarlo fuori dalla trincea profonda un metro. Si concesse una pausa per scostarsi dal viso i capelli biondi e bagnati di sudore. Il sole di giugno splendeva inesorabile nel cielo terso. Al suo arrivo ad Acri, due mesi prima, non avrebbe resistito un’ora sotto quel sole. Adesso, dopo settimane di duro lavoro, si era abbronzato e irrobustito, e muscoli sodi riempivano la sua esile corporatura. Erano già due ore che spalava a torso nudo, ma l’accampamento in continua espansione aveva bisogno di una nuova latrina. I tedeschi dell’imperatore del Sacro Romano Impero, Corrado, erano arrivati poco dopo la compagnia di John a ingrossare i ranghi dei crociati. Soltanto nelle ultime settimane, centinaia di altri uomini si erano riversati nell’accampamento fuori dalle mura di Acri: Raimondo di Antiochia con il suo seguito di nobili; Luigi, re di Francia, con duecento cavalieri a cavallo; centinaia di Templari e di Ospitalieri provenienti da ogni angolo del Regno di Gerusalemme.

    «Torna al lavoro, ragazzo dei bagni», lo richiamò il Guercio. Era seduto sul terreno accanto allo scavo, all’ombra di un telo bianco di lino. John affondò di nuovo la pala, ma quando gettò la terra fuori dalla fossa, centrò il Guercio in pieno viso.

    «Questa me la paghi, sassone!», urlò l’uomo, sputacchiando come un ossesso. Si strofinò via la terra di dosso e balzò in piedi stringendo i pugni, poi si fermò all’improvviso. John si girò per seguire il suo sguardo. Dalla piana arida, in mezzo al polverone sollevato dagli zoccoli, si stava avvicinando un gruppo di cavalieri con Reynald in testa. Quando arrivarono ai margini del grande accampamento, furono accolti dalle grida di giubilo dei soldati. John sbirciò oltre il bordo della fossa e intravide a stento quattro uomini, di carnagione più scura e con i turbanti bianchi, cavalcare al centro del drappello. Stavano rigidi in sella, con le mani legate davanti a loro. Prigionieri.

    «Tu resta qui a scavare, sassone», gli ordinò il Guercio. «Se al mio ritorno non avrai finito il lavoro, ne risponderai a Ernaut».

    «Bastardo», borbottò John, mentre l’uomo si allontanava a grandi passi. Dopo un po’, l’esultanza generale si spense, ma il Guercio non tornò. Il sole si spostò lentamente nel cielo, superando lo zenit. John aveva quasi completato lo scavo, quando sentì Coniglio chiamare il suo nome.

    «John!». Il ragazzino si fermò di colpo sul bordo della fossa. «Vieni! Prendi la tua armatura!».

    Lasciò cadere la pala. «La mia armatura? Ci hanno attaccato?»

    «No, non è questo», rispose Coniglio con gli occhi spalancati per l’eccitazione. «Lord Reynald ha catturato dei prigionieri. Ci sarà un torneo!».

    «Per le piaghe di Cristo, se è calda», imprecò John, dopo aver strusciato casualmente la mano contro la falda bollente della cotta di maglia. Seguì Coniglio verso un punto all’ombra delle mura cittadine, dove era stato tracciato nella polvere un cerchio largo dodici passi. Per calcolare i tempi e favorire le scommesse, una grande clessidra era stata sistemata su uno sgabello. Gli uomini di Reynald erano in attesa all’esterno del cerchio, inquieti e a disagio nelle armature arroventate dal sole. John e Coniglio si fecero strada a gomitate fra i soldati, andando a posizionarsi di fronte a Reynald ed Ernaut. Appena si era sparsa la voce, erano arrivati altri cavalieri – Ospitalieri, Templari, franchi e tedeschi – creando una folla compatta, dove gli ultimi arrivati furono costretti a salire in piedi sui loro elmi per avere una vista migliore. Altri si erano radunati sulla sommità delle mura per seguire il torneo dall’alto.

    Quando Reynald giudicò che fosse presente un pubblico adeguato, si mise al centro del cerchio. «Oggi, mentre eravamo fuori a caccia, io e i miei uomini ci siamo imbattuti in una dozzina di spie provenienti da Damasco, inviate dall’emiro Unur per valutare le nostre forze. La loro presenza nelle nostre terre è un affronto, una violazione del trattato concluso con l’emiro. Appena ci hanno visto, sono fuggiti. Ci siamo lanciati all’inseguimento, e tre sono caduti sotto i colpi delle nostre spade. Ma per grazia di Dio ne abbiamo catturati altri quattro!». I soldati esplosero in un boato di approvazione.

    «Ho sentito le voci che circolano fra voi sul conto del nostro nemico, sulla sua audacia, la sua abilità, la sua efferatezza», continuò Reynald. «Ho sentito qualcuno dire che sono mostri, belve feroci». Fece correre lentamente lo sguardo in cerchio, incontrando gli occhi dei suoi uomini. «Ma oggi vedrete che i saraceni non sono mostri. Sono uomini come voi. E muoiono come qualsiasi altro uomo!». Si voltò a urlare un ordine: «Portate qui i prigionieri!».

    La folla si girò per assistere all’arrivo dei quattro stranieri. Erano stati privati delle loro armature e indossavano soltanto sottili perizomi di lino. Erano disarmati, ma Reynald non era disposto a correre rischi: li precedeva un uomo d’arme, e altri due soldati muniti di lancia chiudevano la fila. Al loro passaggio, il pubblico li schernì e li coprì d’insulti. Il primo prigioniero era alto e dinoccolato, con la pelle olivastra e lunghi capelli neri che gli coprivano le spalle. Il secondo era di statura più bassa, con un fisico magro e asciutto e una barba tendente al grigio; zoppicava visibilmente, forse a seguito di una vecchia ferita. Il terzo saraceno era un vero gigante; superava John di tutta la testa e aveva un torace tondo come una botte di birra, l’addome prominente e le braccia grosse come le gambe di John. Il cranio calvo scintillava sotto il sole. L’ultimo uomo era di carnagione scura, di corporatura solida, con le braccia muscolose e un ampio torace segnato da cicatrici. Di tutti i prigionieri, era l’unico che camminava a testa alta.

    I prigionieri raggiunsero il cerchio, dove furono allineati di fronte a Reynald, che li esaminò uno a uno. Alla fine si fermò davanti al gigante saraceno. Gli altri tre rimasero in disparte, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro sotto gli sguardi minacciosi della folla. Nel frattempo, Reynald era indietreggiato fino al perimetro del cerchio e aveva afferrato una spada. La lanciò ai piedi del saraceno, che la raccolse con circospezione, temendo che ci fosse sotto qualche trucco.

    «Ernaut, zotico villoso!», urlò Reynald. «Questo grassone è tuo».

    Ernaut si mise l’elmo e si fece avanti. Appena estrasse la spada, Reynald girò la clessidra. Un clamore eccitato si levò dalla folla, e cominciarono a piovere le prime scommesse sul tempo che Ernaut avrebbe impiegato per eliminare il saraceno. Alcuni puntarono anche sui tempi lunghi e sulla vittoria del saraceno, ma le probabilità erano scarse. Ernaut non era alto quanto l’avversario, ma era più massiccio, e se il saraceno aveva solo la spada per difendersi, Ernaut reggeva uno scudo e indossava una lunga cotta di maglia.

    «Due monete su Ernaut vincente entro il primo giro di clessidra!», gridò Coniglio agitando le monete.

    «Ci sto», rispose un uomo alle sue spalle.

    Coniglio si rivolse a John. «Non vuoi scommettere?». Il ragazzo scosse la testa. Una cosa era un combattimento leale, tutt’altra era quella sorta di sanguinoso passatempo. John era venuto in Terra Santa per la redenzione, non per questo.

    Ernaut avanzò verso il centro del cerchio facendo indietreggiare il saraceno, tra i fischi e gli insulti della folla. Gli uomini lungo il perimetro della pista sguainarono le spade e le usarono per punzecchiare il prigioniero, sospingendolo verso il centro dove Ernaut era in attesa. Appena il saraceno si mosse, Ernaut si lanciò all’attacco, puntando la lama contro il busto indifeso del grosso avversario. Ma il saraceno era più veloce di quanto sembrasse: parò l’affondo di Ernaut, ruotò agilmente su se stesso e calò la lama sul rivale, che riuscì ad alzare lo scudo appena in tempo per deviare il colpo. La folla rumoreggiò mentre i duellanti si separavano. John lanciò un’occhiata alla clessidra, vuota per un quarto.

    «Finiscilo!», gridò qualcuno. Chi aveva puntato su una rapida conclusione dello scontro cominciò a protestare. Con un ruggito, Ernaut sollevò la spada sopra la testa e si lanciò contro l’avversario, calando la lama con precisione micidiale. All’ultimo istante, il saraceno schivò il colpo e, con un grido di trionfo, vibrò un fendente al fianco sguarnito di Ernaut. Il colpo avrebbe potuto ucciderlo, invece la spada rimbalzò sulla

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