Il calice della felicità: Harmony Destiny
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Alexandra Sellers
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Il calice della felicità - Alexandra Sellers
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Prologo
Omar e il Calice della Felicità
Al principe Omar era stato assegnato l'Emirato del Barakat Centrale, una terra per certi versi prospera, più a sud desolata e brulla, a nord abbellita dalle alte vette innevate delle montagne di Noor, con le loro incantevoli vallate. A lui venne affidato anche il Calice del suo antenato Jalal, un prezioso oggetto d'oro massiccio, tempestato di rubini e smeraldi: stando a un'antica leggenda, esso aveva il potere di portare felicità a chiunque lo avesse posseduto. Per Omar non era stato così. Dal momento in cui, per volontà del padre, ne aveva preso possesso, la sua vita era stata un susseguirsi di bocconi amari, e di sventure.
1
Lo stallone nero procedeva al galoppo, sollevando una scia di sabbia nel deserto. Il suo manto lucido di sudore baluginava, e i ricami dorati della sella e dei finimenti scintillavano sotto i primi raggi del sole che faceva capolino al di là delle cime delle montagne, in lontananza.
Il cavaliere che lo montava sembrava tutt'uno con il maestoso animale, che sfrecciava con ampie falcate verso il fiume. I folti capelli, neri come il destriero, ondeggiavano nel vento, scoprendo una fronte alta e spaziosa. L'agile corpo longilineo, appena chino in avanti, si sollevava seguendo il ritmo dell'animale, mentre con le ginocchia lo esortava ad aumentare la velocità in prossimità del fiume, che intendeva fargli saltare.
In quel punto, l'impetuoso corso d'acqua avrebbe intimorito qualsiasi altro cavaliere, che avrebbe desistito; non lui. Diede il comando all'ultimo momento, serrando le ginocchia, e lo stallone obbedì. Si sollevò con un salto poderoso, agitando le agili zampe per aria, e qualche istante più tardi atterrò sulla sponda opposta del fiume.
A vederli più da vicino, appariva evidente che i capelli neri del cavaliere erano striati d'argento, e l'ampia fronte era perennemente accigliata sopra due occhi verdi tormentati.
Si arrestarono lì, sia l'uomo che la bestia; mentre il cavaliere scrutava l'orizzonte, il cavallo sbuffava e scalpitava, come per riprendersi dalla fatica. Gli occhi turbati non sembravano trarre piacere dalla vista di quella distesa dorata di sabbia, o del profilo frastagliato delle impervie montagne che si rincorrevano lungo l'orizzonte; una barba appuntita e un paio di baffi ben curati circondavano una bocca che un tempo era stata sorridente e generosa, ma ora sembrava segnata dall'amarezza. Gli occhi sembrarono seguire il fiume in direzione dell'oceano nel quale il corso d'acqua sfociava, a centinaia di chilometri di distanza, dopo avere attraversato terre infinitamente più ridenti.
Le terre di suo fratello. Il fiume segnava il confine dei possedimenti lasciatigli da suo padre. Tutto ciò che si trovava sull'altra parte della sponda apparteneva a uno dei suoi fratelli. Se avesse proseguito a ovest, diverse miglia più in là, si sarebbe ritrovato sul confine col regno del terzo fratello.
I suoi fratelli... per modo di dire. Suo padre e sua madre erano morti. Sua moglie era morta. Coi suoi fratelli non aveva più nessun genere di rapporti. Che cosa gli era rimasto? Una terra arida e sassosa, quasi del tutto inospitale; eppure, il suo diritto di governarla ora veniva messo in discussione da un fanatico che non si sarebbe fermato davanti a nulla, pur di sottrargli il trono. E due figlie che conosceva appena, e non riusciva ad amare.
Non amava più nessuno al mondo, riconobbe con avvilente certezza. Aveva amato suo padre, ma il vecchio sceicco era morto, e lo aveva pugnalato alle spalle lasciandogli quella terra arsa e desolata. E se mai aveva provato amore per sua madre, quell'amore era stato distrutto dalle sciocche ambizioni e pretese che lei aveva avanzato per il figlio; presa com'era stata, in vita, dalla brama di farlo diventare re, non si era mai preoccupata della sua felicità e lo aveva costretto a sposare una donna che non amava. Una donna che, ironia della sorte, aveva messo al mondo solo due figlie femmine.
I suoi fratelli? Sì, un tempo era stato legato a loro, finché non lo avevano deluso, venendo meno alla promessa fatta al capezzale del vecchio padre, ormai in fin di vita. Per questo sua moglie era morta, e pur non avendola mai amata, lui aveva pianto sulla sua tomba, sentendosi responsabile di quella tragica fine.
Ora il suo cuore era freddo e arido, come il suo corpo era indurito dalle avversità e dai dolori. Eccezion fatta per gli istinti primordiali, che molte donne erano disposte a soddisfare, non aveva più desideri, e non aveva amore da dare: solo una feroce determinazione a tenersi stretta quella terra, inospitale quanto fosse, e a tramandarla alle sue figlie. Non desiderava nemmeno più ritrovare la capacità di amare. Non desiderava nulla che potesse intaccare la sua durezza, la sua capacità di affrontare tutte le avversità che aveva in serbo per lui il destino.
Non aveva figli maschi. Le sue figlie forse sarebbero state osteggiate dai capi delle tribù del deserto, e non sarebbero salite al trono. In quel caso, il regno sarebbe stato suddiviso tra gli eredi dei fratelli e il suo nome sarebbe scomparso dalla faccia della terra: tuttavia non intendeva risposarsi e accollarsi il fardello di un'altra moglie al solo scopo di concepire un erede maschio. Era arrivato al punto che dalla vita non desiderava più niente.
I minuti scorrevano, lenti. Il sole si sollevò ancora nel cielo, alla sua sinistra, staccandosi dalle cime delle montagne e illuminando i contorni delle case del villaggio in cui aveva trascorso la notte.
Rimase a fissarle, pensoso, restando in sella al suo stallone.
Fu lo scalpiccio di altri cavalli che si avvicinavano a destarlo da quella sorta di trance. Si voltò appena nella direzione da cui proveniva il rumore, e si diede dello stupido per essersi scoperto in quel modo. Gli erano già addosso: sei uomini a cavallo, sei mantelli bianchi sollevati nel vento, che puntavano dritti su di lui coi fucili sollevati, lanciando un feroce urlo di battaglia.
Lo stallone si impennò, facendogli quasi scivolare di mano il fucile che aveva prontamente sfilato dalla custodia, sulla sella. Spronando il cavallo a partire al galoppo per affrontare i suoi aggressori, l'uomo fece fuoco tre volte in rapida successione, e tre dei sei uomini lanciarono grida di dolore. Due fucili e un uomo caddero nella sabbia, ma i tre cavalli proseguirono la loro folle corsa verso di lui.
Non volevano ammazzarlo, e questo era il suo vantaggio: volevano catturarlo. Mentre per lui non faceva differenza saperli vivi o morti. Se li avesse uccisi, i loro cadaveri sarebbero rimasti distesi lì, alla mercé degli avvoltoi. Se li avesse soltanto feriti, sarebbero tornati nel deserto, dal loro capo. Lui non voleva ribelli nelle sue prigioni.
Sparò ancora quando i tre uomini furono vicinissimi: un cavallo tagliò la strada all'altro e due cavalieri finirono nella sabbia.
Un solo predone era rimasto in sella.
«Ci rivediamo, figlio di Daud!» gridò, e ora l'uomo lo riconobbe.
«E sarà l'ultima volta, spero» rispose il principe Hajji Omar Durran ibn Daud ibn Hassan al Quraishi, a occhi serrati. Sollevò l'arma.
Ma il predone scaraventò il suo fucile per terra. «Non ho più proiettili.»
Per un istante, nulla si mosse, se non la nuvola di sabbia sollevata dai due cavalli scalpitanti. Al di là della polvere, Omar mise a fuoco l'uomo che voleva portargli via il trono, e i cui tentativi di impossessarsene avevano causato la morte della moglie. Il suo dito era ancora sul grilletto.
«Tu sei un guerriero, non un giustiziere, Principe del Popolo.»
Omar continuava a fissare il suo più acerrimo nemico negli occhi, senza badare a prendere la mira. Alla fine, abbassò il fucile. «Stai all'erta, Jalal» gli intimò. «Se mai ci incontreremo ancora, dovrai affidarti alla misericordia di Dio, perché io non avrò nessuna pietà della tua miserabile anima!»
Detto questo, girò il cavallo e ripartì al galoppo. Non si guardò indietro: nessuno di quei predoni avrebbe osato rimontare a cavallo per inseguirlo. E nessuno aveva abbastanza fegato da sparargli alle spalle. Dopotutto, era il loro re.
«Perché non prendi la Rolls, cara?» la esortò sua madre, querula. «Fa talmente caldo oggi, e non sarà facile parcheggiare in centro. Chiedi a Michael di accompagnarti, almeno.»
«Fa caldo per tutti, mamma. Non vedo perché anche il povero Michael debba farsi una sudata» rispose Jana.
«Perché è il nostro autista» le fece notare Sarah, col tono leggermente irritato di chi deve spiegare la stessa cosa per la millesima volta. «È il suo lavoro, no?»
Jana sospirò, esasperata. Per i primi sette anni della sua vita, fino a che i suoi non si erano separati, le limousine con autista avevano fatto parte integrante della sua esistenza dorata. Poi si era trasferita a Calgary, con Sarah, e lì aveva ridimensionato il suo stile di vita, vivendo come tutte le sue coetanee. Perciò, quando i suoi si erano riconciliati, dieci anni più tardi, Jana aveva avuto grosse difficoltà a riadattarsi alla sua vecchia vita nel castello scozzese che apparteneva alla famiglia del padre da generazioni. Da allora era sempre stata restia ad accettare le limitazioni che entrambi i genitori pretendevano di imporle perché rientrasse nei ranghi della sua posizione, come figlia di un visconte che discendeva nientemeno che dalla famiglia reale degli Stewart.
Terminata l'università, decisa a dare al mondo un contributo concreto che non fosse soltanto l'organizzazione dei soliti, barbosi balli di beneficenza, Jana era andata a insegnare in una scuola elementare, in una zona poverissima di Londra. I suoi non si erano opposti apertamente finché non avevano scoperto che invece di abitare nel loro lussuoso appartamento di Mayfair, dove avevano una governante e un autista a tempo pieno, Jana aveva affittato un appartamentino a due passi dalla scuola e vi si recava da sola, ogni giorno, al volante della sua piccola monovolume. Poiché tuttavia non le era mai accaduto niente di tragi co, col tempo avevano smesso di farle pressioni perché si licenziasse.
La settimana prima si era concluso l'anno scolastico, e con esso anche la carriera di insegnante a cui Jana teneva tanto; una carriera che le aveva dato gioie e dolori, piccole soddisfazioni ma anche grandi frustrazioni. Soprattutto quelle.
Ora sua madre era arrivata a Londra per parlare del suo futuro. Era caduta dalle nuvole scoprendo che Jana aveva già preso una decisione: infatti stava uscendo per recarsi a un colloquio di lavoro. Un lavoro un po' fuori dal comune: se l'avessero assunta, avrebbe insegnato inglese all'estero, come istitutrice.
«Comunque, Michael non farà alcuna sudata, visto che nella Rolls c'è l'aria condizionata.»
Jana