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L'aquila di Roma
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L'aquila di Roma
E-book1.827 pagine29 ore

L'aquila di Roma

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Info su questo ebook

Un autore da oltre 5 milioni di copie

I primi quattro romanzi della saga che ha conquistato milioni di lettori

Sotto l'aquila di Roma - Roma alla conquista del mondo - La spada di Roma - Roma o morte

42 d.C. Guerre, oscure cospirazioni, complotti, e giochi di potere...
Roma è un sogno grandissimo e fragile; innumerevoli sono gli uomini che ne bramano la caduta. E come sempre, solo la spada dei suoi valorosi soldati può salvare l’impero. Sullo sfondo di epiche battaglie contro abili nemici, tribù ribelli e scaltri traditori, il centurione Macrone e il suo vice Catone saranno costretti a mettere a rischio la propria vita per difendere Roma e l’imperatore Claudio.
Simon Scarrow, seguendo da vicino le vicende dei due protagonisti, disegna un’appassionante epopea storica, ricca di vividi dettagli e di azione incalzante: un capolavoro di realismo militare dedicato alle eroiche imprese di Macrone e Catone. Quattro romanzi che hanno scalato le classifiche di vendita in Italia e in Inghilterra.

Un impero immenso, due eroi valorosi: quattro oscure minacce da sventare, a costo della vita, per difendere Roma e l'imperatore

«Scritto bene e sostenuto da accurate ricerche. Tra gli stranieri da registrare: il nigeriano Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«Simon Scarrow spopola.»
la Repubblica

«Ogni nuovo capitolo della serie di Scarrow sull'esercito romano è come sempre un grande piacere.»
The TimesSimon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi, si è stabilito in Inghilterra. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore delle serie Le aquile dell’impero, Roma arena saga, I conquistatori e Revolution saga. Ha firmato anche i romanzi L’ultimo testimone (con Lee Francis), Eroi in battaglia; La flotta degli invincibili (con T.J. Andrews) e il thriller Blackout. Le sue opere hanno venduto oltre cinque milioni di copie nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2014
ISBN9788854163577
L'aquila di Roma
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    L'aquila di Roma - Simon Scarrow

    CAPITOLO UNO

    Una gelida folata di vento entrò nella latrina insieme alla sentinella.

    «Il carro è in avvicinamento, signore».

    «Chiudi quella maledetta porta! C’è altro?»

    «Una piccola colonna di uomini».

    «Soldati?»

    «Improbabile». La sentinella fece una smorfia. «A meno che non ci sia stato un cambiamento nelle esercitazioni di marcia».

    Il centurione di turno alzò bruscamente lo sguardo. «Non ricordo di aver chiesto un’opinione politica, soldato».

    «Nossignore!». La sentinella scattò sull’attenti sotto lo sguardo irato del suo superiore. Solo pochi mesi prima, Lucio Cornelio Macrone era un optio e trovava ancora la promozione al centurionato difficile da gestire. I suoi vecchi commilitoni erano ancora inclini a trattarlo come un loro pari. Non era facile per loro mostrarsi rispettosi verso un uomo che fino a pochissimo tempo prima avevano visto svuotarsi le budella dopo un pieno di vino scadente. Ma, a partire da alcuni mesi prima della promozione, Macrone aveva avuto la consapevolezza che gli ufficiali superiori lo stessero prendendo in considerazione per il primo posto che si fosse reso libero nel centurionato e aveva fatto del suo meglio per ridurre al minimo le indiscrezioni. Perché, se si soppesavano tutte le sua qualità, non si poteva negare che Macrone fosse un bravo soldato – nelle occasioni in cui c’era la necessità di fare i bravi soldati – coscienzioso nei propri doveri, affidabile e obbediente, e si poteva contare su di lui quando si trattava di tener duro in battaglia e stimolare gli altri a fare altrettanto.

    Macrone si accorse all’improvviso di aver fissato a lungo la sentinella: il legionario si muoveva a disagio sotto il suo sguardo esaminatore, come si tende a fare al cospetto di un superiore che ci osserva in silenzio. E gli ufficiali potevano essere dei veri imprevedibili bastardi, pensava nervosamente la sentinella, il primo assaggio di potere e non sapevano come comportarsi, oppure insistevano a dare comandi stupidi e fastidiosi.

    «Quali sono i vostri ordini, signore?»

    «Ordini?». Macrone corrugò per un attimo la fronte. «Va bene, allora. Arrivo. Tu torna al cancello».

    «Sissignore». La sentinella si voltò e si affrettò a uscire dalle latrine dei giovani ufficiali, tirandosi dietro la porta, consapevole della mezza dozzina di centurioni che lo stavano guardando. C’era un regola non scritta secondo cui nessuno, proprio nessuno, permetteva ai propri uomini di interrompere le procedure in latrina. Per pulirsi, Macrone usò un bastoncino con una spugna in cima, poi si tirò su le brache e si scusò con gli altri centurioni prima di correre fuori.

    Era una notte orribile e un freddo vento settentrionale portava la pioggia dalle foreste germaniche. Spazzava il Reno, abbattendosi sulle mura della fortezza e incanalandosi in gelide folate tra gli edifici della caserma. Macrone aveva il sospetto che i suoi pari lo disapprovassero vivamente ed era determinato a dimostrare che si sbagliavano. Non che la sua determinazione stesse producendo grandi risultati. I doveri amministrativi relativi al comando di ottanta uomini si stavano dimostrando un incubo: raccolta viveri, turni per le latrine, turni di guardia, ispezione delle armi, ispezione della caserma, registro delle punizioni, ricevute per l’approvigionamento degli equipaggiamenti, foraggio per i muli, gestione dei pagamenti, dei risparmi e dei funerali.

    L’unico aiuto a disposizione per eseguire questi compiti era il segretario della centuria, un vecchio rugoso di nome Pisone, che Macrone sospettava di disonestà o di semplice incompetenza. Macrone non aveva modo di scoprirlo da sé visto che era pressoché analfabeta. Cresciuto con solo una rudimentale conoscenza di lettere e numeri, riusciva a riconoscere la maggior parte dei singoli caratteri, ma più di quello era impossibile. E adesso era un centurione, una condizione sociale per cui il saper leggere e scrivere era un prerequisito. Senza dubbio il legato aveva dato per scontato che Macrone sapesse leggere e scrivere nell’approvare la nomina. Se si fosse saputo che non era più letterato di un fattore campano, Macrone sapeva che sarebbe stato retrocesso immediatamente. Finora era riuscito ad aggirare il problema delegando le scartoffie a Pisone e affermando che gli altri suoi incarichi lo tenevano fin troppo occupato, ma era certo che l’impiegato avesse cominciato a sospettare la verità. Scosse la testa e si avviò faticosamente verso il portone della fortezza, avvolgendosi nel mantello rosso.

    Era una notte scura, resa più buia dalle nuvole basse che avevano completamente oscurato il cielo: segno sicuro che la neve era in arrivo. Dal buio circostante, Macrone sentiva giungere quei suoni tipici della vita della fortezza che facevano parte della sua esistenza da ormai quattordici anni.

    I muli ragliavano dalle stalle, poste al limitare di ogni edificio della caserma, e le voci dei soldati che parlavano e gridavano si disperdevano attraverso le finestre illuminate. Il fragore di una risata esplose da una camerata mentre Macrone vi passava davanti, seguito da una più leggera risata femminile. Macrone si fermò e si mise in ascolto. Qualcuno era riuscito a far intrufolare una donna nella base. La donna rise di nuovo e poi cominciò a parlare in latino con una forte inflessione, ma venne prontamente zittita dal suo compagno. Questa era una flagrante infrazione del regolamento, così Macrone si girò bruscamente e fece per mettere mano al chiavistello. Poi si fermò, pensieroso. A rigor di logica, avrebbe dovuto fare irruzione sbraitando come in una piazza d’armi, spedire il soldato in guardina e far buttare fuori la donna dalla base. Ma ciò equivaleva a riempire un’altra voce sul registro delle punizioni: altro dannato scrivere.

    Stringendo i denti, Macro allentò la presa e silenziosamente tornò in strada, proprio mentre la donna lanciava un’altra risata stridula, che gli punzecchiò la coscienza. Una rapida occhiata per accertarsi che nessun altro fosse lì ad assistere alla sua mancata reazione e Macrone si affrettò verso la porta sud. Dannato soldato, si meritava una buona dose di calci, e se fosse appartenuto alla centuria di Macrone avrebbe ricevuto un bel trattamento: nessuna scartoffia, solo un bel calcio nelle palle in modo che la punizione fosse adatta al crimine. Per di più, dalla voce non poteva che trattarsi di una di quelle sudicie sgualdrine germaniche provenienti dall’insediamento di indigeni che si estendeva disordinatamente proprio fuori della base. Macrone si consolò con il pensiero che il legionario in questione si sarebbe preso la sua bella razione di scolo.

    Nonostante le strade fossero buie, Macrone procedeva istintivamente nella direzione giusta poiché nessuna base di legionari si scostava dalla pianta standardizzata utilizzata per tutti i campi e le fortezze. Nel giro di pochi minuti si ritrovò nella larghissima via Praetoria e, a passo di marcia, si diresse verso le porte, nel punto in cui la strada attraversava le mura per condurre alla parte meridionale della base. La sentinella che aveva interrotto Macrone nella latrina lo aspettava ai piedi delle scale. Lo condusse nel corpo di guardia e da lì su per la stretta scalinata in legno che portava al bastione, dove un braciere ardente inondava di un chiarore rossiccio la postazione della vedetta. Quattro legionari erano accovacciati vicino al fuoco e giocavano a dadi. Non appena videro la testa del centurione apparire sulle scale si misero sull’attenti.

    «Riposo, ragazzi», disse Macrone. «Continuate».

    La porta di legno che conduceva al bastione si spostò verso l’interno per il vento quando Macrone aprì il chiavistello, e il braciere per un attimo scoppiettò mentre usciva e se la richiudeva alle spalle. Lassù, sulla postazione della vedetta, il vento era sferzante e il mantello di Macrone si gonfiò, strattonando la fibbia sulla spalla. Macrone rabbrividì e lo afferrò, avvolgendoselo strettamente attorno al corpo.

    «Dove?».

    La sentinella scrutò tra le merlature nell’oscurità e puntò la lancia in direzione di una luce tremolante che dondolava dal retro di un carro che si stava avvicinando da sud. Sforzando la vista per guardare, nonostante il vento, Macrone riuscì a intravedere la sagoma del carro e, dietro di esso, un gruppo di uomini che arrancava lungo la strada.

    In fondo alla colonna procedeva più ordinatamente la scorta, il cui compito era di impedire a chi era rimasto indietro di rallentare l’andatura. Forse duecento uomini in tutto.

    «Do l’allarme, signore?».

    Macrone si voltò verso la sentinella. «Cosa hai detto?»

    «Do l’allarme, signore?».

    Macrone guardò stancamente l’uomo. Siro era uno dei più giovani della centuria e, nonostante Macrone avesse imparato il nome di gran parte dei suoi sottoposti, sapeva poco dei loro caratteri o delle loro storie.

    «Sei nell’esercito da tanto?»

    «Nossignore. Solo un anno a dicembre».

    Ancora fresco di addestramento, allora, pensò Macrone. Un accanito sostenitore del regolamento, che indubbiamente applicava in ogni circostanza. Con il tempo avrebbe imparato a capire quando si doveva seguire rigidamente la procedura e quando bisognava arrangiarsi per tirare avanti.

    «Allora, perché abbiamo bisogno di dare l’allarme?»

    «Il regolamento, signore. Se un gruppo non identificato di uomini si avvicina al campo in gran numero, si dovrebbe dare l’allarme a chi sta di guardia alle porte e alle mura adiacenti».

    Macrone alzò il sopracciglio per la sorpresa. La risposta era una citazione fedele del regolamento. Siro, era evidente, aveva preso sul serio l’addestramento. «E poi?»

    «Signore?»

    «Cosa succede dopo?»

    «Il centurione di guardia, dopo aver valutato la situazione, stabilisce se dare o meno l’allarme generale», continuò Siro monotono, poi aggiunse frettolosamente: «Signore».

    «Bravo». Macrone sorrise e la sentinella ricambiò, sollevata, prima che Macrone si voltasse nuovamente verso la colonna in avvicinamento. «Dunque, esattamente, quanto credi sia minaccioso quel gruppetto? Ti spaventano, soldato? Credi che tutti e duecento vogliano attaccarci, scalare queste mura e massacrare tutti gli uomini della Seconda Legione... allora? Sì?».

    La sentinella fissò Macrone, guardò attentamente la luce tremolante per qualche attimo e poi si girò. Era visibilmente imbarazzato. «Non credo».

    «Non credo, signore», disse arcigno Macrone, colpendo il ragazzo sulla spalla.

    «Chiedo scusa, signore».

    «Dimmi, Siro. Hai partecipato alla riunione informativa prima di montare la guardia?»

    «Certamente, signore».

    «Hai prestato attenzione a ogni dettaglio?»

    «Credo di sì, signore».

    «Allora ricorderai di avermi sentito dire che l’arrivo di un convoglio di rimpiazzo era previsto alla base, non è vero? Così non avresti dovuto trascinarmi fuori dalla latrina e rovinarmi una bella cacata».

    La sentinella era mortificata e non riusciva a sostenere l’espressione di sufficienza sulla faccia del suo centurione. «Chiedo scusa, signore. Non succederà più».

    «Sarà meglio. Altrimenti avrai turni doppi per il resto dell’anno. Ora fai schierare il resto dei ragazzi davanti alle porte. Mi occuperò io dell’identificazione».

    Rosso di vergogna, Siro fece il saluto e ritornò nel corpo di guardia. Ben presto Macrone poté sentire i rumori delle guardie che si svegliavano e scendevano le scale di legno verso la porta principale. Macrone sorrise. Il ragazzo era un entusiasta e si sentiva in colpa per il proprio errore. Abbastanza in colpa da fare in modo che la cosa non si ripetesse più. Era una buona cosa. Era così che si formavano soldati affidabili: nessuno nasce già addestrato, rifletté Macrone.

    Un’improvvisa folata di vento lo colpì, e andò a ripararsi nel corpo di guardia. Una volta dentro, si mise vicino al braciere ardente ed emise un sospiro di sollievo sentendo il calore pervadergli il corpo. Dopo qualche momento aprì la feritoia e guardò fuori nella notte. Il convoglio ora era più vicino e riusciva a distinguere bene il carro, così come i singoli uomini che procedevano incolonnati. Un misero gruppo di reclute, pensò, senza un grammo di energia. Si capiva dal modo apatico in cui si trascinavano, nonostante la prospettiva di un riparo.

    Poi iniziò a piovere, quasi all’improvviso; larghe gocce cadevano diagonalmente seguendo il vento che sferzava la pelle. Neanche questo riuscì a far accelerare l’andatura del convoglio e, scuotendo sconsolato la testa, Macrone cominciò le formalità. Aprì la finestra principale, vi infilò la testa e si riempì i polmoni.

    «Altolà!», gridò. «Identificatevi!».

    Il carro si fermò a una trentina di metri dalle mura e una figura dietro il conducente si levò per rispondere.

    «Convoglio di rinforzo da Aventicum e scorta, Lucio Batiaco Bestia comandante».

    «Parola d’ordine?», chiese ancora Macrone anche se conosceva Bestia abbastanza bene: era il centurione superiore della Seconda Legione e perciò suo diretto superiore.

    «Istrice. Permesso di avvicinamento?»

    «Accordato, amico».

    Con uno schiocco della frusta il carrettiere spronò i buoi lungo l’erta che conduceva alle porte e Macrone attraversò la stanza per andare alla finestra che si apriva sull’interno del forte. Di sotto, le sentinelle si stringevano ai lati delle porte cercando di evitare la pioggia.

    «Aprite le porte», gridò Macrone. Uno dei soldati tirò rapidamente il chiavistello e gli altri fecero scivolare l’asta nel suo alloggiamento. Con un pesante gemito legnoso le porte si aprirono proprio quando il carro raggiunse la cima dell’erta e l’inerzia lo portò fin dentro alla base. Guardando giù dal corpo di guardia, Macrone vide il carro accostare. Bestia saltò giù dal posto del conducente e agitò il bastone di vite verso il fradicio corteo delle nuove reclute che gli passavano davanti.

    «Avanti, bastardi! Muovetevi! Veloci! Prima entrate, prima vi riscalderete e vi asciugherete».

    Le reclute, che avevano seguito il carro per oltre trecento chilometri, automaticamente cominciarono a girare in tondo attorno a esso. La gran parte indossava mantelli da viaggio e portava i propri pochi averi in coperte legate attorno alle spalle. Le reclute più povere non avevano nulla, alcune neanche il mantello e tremavano penosamente sotto il vento e la pioggia gelata. Nella retroguardia c’era una piccola squadra di forzati in catene che avevano optato per l’esercito piuttosto che restare in prigione.

    Bestia si aprì immediatamente un varco tra la folla crescente facendosi largo con il bastone.

    «Non rimanete lì come un gregge di pecore! Fate largo a dei veri soldati. Andate dall’altro lato della strada e allineatevi rivolti da questa parte. ADESSO!».

    Le ultime reclute attraversarono vacillando le porte e seguirono i compagni per formare una fila irregolare di fronte al carro. Alla fine entrò la scorta a passo di marcia, venti uomini che si fermarono simultaneamente a una sola parola di comando di Bestia. Questi fece una pausa a effetto per sottolineare l’implicito paragone mentre Macrone ordinò alle sentinelle di chiudere le porte e tornare ai propri incarichi. Bestia si rivolse nuovamente alle reclute, gambe divaricate e mani sui fianchi.

    «Quegli uomini», con la testa Bestia fece un cenno oltre la sua spalla, «appartengono alla Seconda Legione – l’Augusta – la più forte dell’intero esercito romano, e voi farete meglio a non dimenticarlo. Non c’è tribù barbara, remota che sia, che non abbia sentito parlare di noi e che non abbia una paura mortale di noi. La Seconda ha ucciso parecchia gentaglia e ha conquistato molti dei loro territori, molto più di ogni altra unità. Siamo stati in grado di farlo perché addestriamo gli uomini a essere i guerrieri più formidabili, più sleali, più duri del mondo civilizzato... Voi, invece, siete uno smidollato mucchio di merda senza valore. Non siete neanche uomini. Siete la più fottutamente bassa forma di vita che abbia il diritto di chiamarsi romana. Vi disprezzo dal primo all’ultimo, fottuti bastardi, ed estirperò ogni inutile rifiuto, così che solo i migliori potranno unirsi alla mia amata Seconda Legione e servire sotto la nostra aquila. Vi ho tenuti d’occhio da Aventicum e, signorine, non sono impressionato. Vi siete arruolati e ora siete tutti miei. Io vi addestrerò, vi farò male, vi renderò degli uomini. Poi, se e quando deciderò che siete pronti, vi lascerò diventare dei legionari. Se c’è qualcuno che non mi darà fino all’ultimo briciolo di energia e impegno, allora lo spezzerò: con questo». Tenne sollevato il nodoso bastone di vite perché tutti potessero vederlo. «Avete capito, pezzi di merda?».

    Dalle reclute si levò un mormorio di assenso; alcuni erano talmente stanchi che si limitarono ad annuire.

    «Cosa sarebbe questo?», urlò Bestia rabbiosamente. «Cazzo, riesco a malapena a sentirvi!».

    Si avvicinò alla folla e afferrò rudemente una recluta per il collo del mantello. Macrone si accorse che era vestito in modo diverso dagli altri. Il taglio del suo mantello era inconfondibilmente costoso, pur se incrostato di fango. Era più alto degli altri, ma esile e dall’aspetto delicato: la vittima perfetta, che poteva essere d’esempio per tutti.

    «Cosa diavolo è questo? Cosa diavolo ci fa una recluta con un mantello che neanche io posso permettermi? L’hai rubato, ragazzo?»

    «No», rispose con calma la recluta. «Me lo ha dato un amico».

    Bestia colpì con il bastone lo stomaco del ragazzo e la recluta si piegò in due accasciandosi al suolo, con le mani che affondavano in una pozzanghera. Bestia gli stava addosso con il bastone sollevato, pronto a colpirlo nuovamente.

    «Ogni volta che apri la bocca devi chiamarmi signore! Intesi?».

    Macrone guardò il giovane che ansimava nel tentativo di rispondere, poi Bestia fece calare il bastone sulla sua schiena e il ragazzo gemette.

    «Ho detto, hai capito?»

    «Sì, s-signore!», gridò la recluta.

    «Più forte!».

    «SÌ, SIGNORE!».

    «Così va meglio. Ora vediamo cos’altro hai».

    Il centurione afferrò la coperta avvololtolata e con uno strattone la aprì. Il contenuto si riversò sul suolo fangoso: alcuni vestiti di ricambio, una fiaschetta, del pane, due rotoli di pergamena e un set da scrittura rilegato in pelle.

    «Ma che...?». Il centurione fissò questi ultimi oggetti. Poi, lentamente, alzò lo sguardo sulla nuova recluta. «Questo cos’è?»

    «Il mio materiale da scrittura, signore!».

    «Materiale da scrittura? Cosa ci fa un legionario con del materiale da scrittura?»

    «Ho promesso ai miei amici di Roma che avrei scritto, signore».

    «I tuoi amici?». Bestia sogghignò. «Nessuna madre a cui scrivere? Nessun padre, eh?»

    «Morto, signore».

    «Sai il suo nome?»

    «Certo, signore. Era...».

    «Silenzio!», lo interruppe Bestia. «Me ne sbatto di chi era. Qui, per quanto mi riguarda, siete tutti dei bastardi. Allora, qual è il tuo nome, bastardo?»

    «Quinto Licinio Catone... signore».

    «Bene, allora, Catone, conosco solo due tipi di legionari che sanno scrivere: le spie e coloro che credono di essere così maledettamente meravigliosi da diventare ufficiali. Quale dei due sei tu?».

    La recluta lo guardò cautamente. «Nessuno dei due, signore».

    «Allora non ti serve questa roba, non è vero?». Bestia diede un calcio al set da scrittura e ai rotoli, facendoli finire vicino al fosso di scolo al centro della strada.

    «Attenzione, signore!».

    «Cosa hai detto?». Il centurione fece un giro su se stesso, il bastone pronto all’uso. «Cosa mi hai detto?»

    «Ho detto attenzione, signore. Uno di quei rotoli è un messaggio personale per il legato».

    «Un messaggio personale per il legato! Bene, io...».

    Sogghignando, Macrone vide che il brizzolato centurione era rimasto per un momento senza parole. Le aveva già sentite tutte, ogni scusa, ogni spiegazione; ma questa no. Cosa diavolo ci faceva una recluta con una lettera per il legato? Un mistero di prim’ordine, tale da far saltare Bestia sulla sella. Non per molto, tuttavia: il centurione infilzò il bastone tra i rotoli.

    «Bene, dannazione, raccogli quella roba e portala qui. Non sei nemmeno arrivato e già stai incasinando la base! Fottute reclute», borbottò. «Mi fate vomitare. Be’, mi hai sentito. Raccogli!».

    Mentre l’alta recluta si chinava per recuperare i suoi averi, Bestia abbaiò una serie di ordini, assegnando gruppi di reclute ai membri della scorta affinché conducessero ciascuno alla propria unità.

    «Adesso, muoversi! NON TU!», urlò Bestia alla recluta solitaria, che era riuscita a infilare nuovamente i suoi averi nell’involto e si stava dirigendo verso la sicurezza dei commilitoni, fermi sotto la pioggia scrosciante. «Qui! Cosa guardate voi altri?».

    I legionari della scorta cominciarono a rimproverare gli uomini di cui dovevano occuparsi. Mentre le reclute venivano radunate in gruppi, Bestia afferrò il rotolo che Catone gli porgeva. Facendo attenzione a ripararlo dalla pioggia il più possibile, lesse l’indirizzo impresso sulla cera. Controllò anche il sigillo, ricontrollò l’indirizzo e si fermò un istante per valutare la mossa successiva. Per caso, alzò lo sguardo verso la porta e vide Macrone sogghignare. Questo risolveva la faccenda.

    «Macrone! Porta il culo quaggiù».

    Qualche istante dopo Macrone era fermo sull’attenti di fronte a Bestia, con gli occhi socchiusi per difendersi dalla pioggia che gocciolava dall’orlo dell’elmo.

    «Sembra autentico». Bestia agitò il rotolo sotto il naso del giovane ufficiale. «Voglio che tu prenda questo e che scorti il nostro amico fino al quartier generale».

    «Sono di guardia».

    «Bene, allora ti sollevo dall’incarico fino a quando torni. Muoviti».

    Bastardo! Macrone imprecò silenziosamente. Bestia non aveva idea dell’importanza della lettera, non sapeva neppure se fosse autentica. Ma non osava assumersi il rischio. Le comunicazioni ai legati prendevano strane strade in quei giorni, persino quando provenivano dalle fonti più in alto. Meglio lasciare che qualcun altro si prendesse il biasimo se la lettera si fosse dimostrata priva di valore.

    «Sissignore», rispose Macrone amaramente, prendendo il rotolo.

    «Non metterci troppo, Macrone. Ho un letto caldo che mi aspetta».

    Bestia si diresse a grandi passi verso il corpo di guardia e si arrampicò su per le scale che portavano al riparo della postazione. Macrone lo seguì con lo sguardo. Poi si girò per guardare meglio la nuova recluta a causa della quale avrebbe dovuto fare un lungo tragitto fino agli edifici del quartier generale sotto la pioggia battente. Dovette alzare la testa per studiare il ragazzo, che era quasi trenta centimetri più alto di lui. Il bordo del mantello da viaggio lasciava intravedere una zazzera di capelli neri che la pioggia aveva scompigliato in ciocche disordinate. Sotto la fronte liscia, un paio di penetranti occhi marroni profondamente incavati luccicavano ai lati di un naso lungo e sottile. La bocca del ragazzo era serrata, ma il labbro inferiore tremava leggermente. Nonostante gli abiti fossero zuppi e incrostati di fango dopo il lungo viaggio dal centro di addestramento di Aventicum, apparivano di qualità sorprendentemente buona. E poi il set da scrittura, i libri e quella lettera per il legato... Be’, quel ragazzo era diverso. Evidentemente conosceva bene il denaro, ma allora, perché diavolo era entrato nell’esercito?

    «Catone, giusto?»

    «Sì».

    «Anch’io vengo chiamato signore», sorrise Macrone.

    Catone si irrigidì in un approssimativo attenti e Macrone rise. «Riposo, ragazzo. Riposo. Non sei in rassegna fino a domani mattina. Adesso andiamo a consegnare questa lettera».

    Macrone spinse gentilmente il ragazzo in direzione del centro della base, dove gli edifici del quartier generale si stagliavano in lontananza. Camminando, guardò per la prima volta la lettera con attenzione ed emise un sottile fischio.

    «Sai cos’è questo sigillo?»

    «Sì, signore. Il sigillo imperiale».

    «E perché il servizio imperiale userebbe una recluta come corriere?»

    «Non ne ho idea, signore», rispose Catone.

    «Chi è il mittente?»

    «L’imperatore».

    Macrone soffocò un’esclamazione. Ora sì che il ragazzo suscitava tutta la sua attenzione. Perché diavolo l’imperatore mandava un dispaccio tramite una dannata recluta? A meno che non ci fosse qualcos’altro nel ragazzo che non saltava all’occhio. Macrone decise che un approccio insolitamente premuroso sarebbe stato l’ideale se voleva saperne di più.

    «Scusa se te lo chiedo, ma cosa ci fai qui?»

    «Cosa ci faccio qui, signore? Mi sono arruolato nell’esercito, signore».

    «Ma perché?», insisté Macrone.

    «È per mio padre, signore. Era nel servizio imperiale prima di morire».

    «Cosa faceva?».

    Quando il ragazzo non rispose, Macrone si voltò e vide che aveva la testa bassa e un’espressione turbata.

    «Allora?»

    «Era uno schiavo, signore». L’imbarazzo dell’ammissione era evidente, persino per un tipo rozzo come Macrone. «Prima che Tiberio lo affrancasse. Io nacqui poco prima».

    «Questa sì che è sfortuna», lo compatì Macrone: lo status di liberto non si estendeva agli eredi. «Immagino che tu sia stato affrancato subito dopo. Tuo padre ti ha comprato?»

    «Non gli fu permesso, signore. Per qualche ragione Tiberio non ha voluto. Mio padre è morto qualche mese fa. Nelle sue ultime volontà pregò che io fossi liberato a condizione che continuassi a servire l’impero. L’imperatore Claudio acconsentì, posto che entrassi nell’esercito, ed eccomi qui».

    «Uhmmmm. Non proprio un affare».

    «Non sono d’accordo, signore. Sono libero ora. Meglio che essere uno schiavo».

    «Lo credi davvero?». Macrone sorrise. Sembrava un cambio di status piuttosto svantaggioso: dagli agi del palazzo alla durezza della vita militare, con il rischio di perdere la vita ed essere fatti a pezzi in battaglia. Macrone aveva sentito dire che alcuni dei più agiati e potenti uomini di Roma erano schiavi o liberti impiegati nel servizio imperiale.

    «A ogni modo, signore», concluse Catone, con una vena di amarezza, «non ho avuto alcuna possibilità di scelta a riguardo».

    CAPITOLO DUE

    Le guardie al cancello del quartier generale incrociarono le lance quando due figure emersero dall’oscurità. Uno aveva l’elmo piumato da centurione e l’altro era un giovane malconcio. Avanzarono nel cono di luce tremolante delle torce fissate nel portico.

    «Parola d’ordine?», chiese una guardia facendo un passo avanti.

    «Istrice».

    «La vostra richiesta, signore?»

    «Questo ragazzo ha un dispaccio per il legato».

    «Solo un momento, signore». La guardia scomparve nel cortile interno lasciandoli sotto lo sguardo vigile degli altri tre, uomini di corporatura massiccia, scelti appositamente per la compagnia di guardie del corpo del legato.

    Macrone sciolse la cinghia sotto il mento, si tolse l’elmo e se lo infilò sotto un braccio, preparandosi a incontrare un ufficiale superiore. Catone spinse indietro il cappuccio e con le mani si sistemò da un lato i capelli disordinati.

    Mentre aspettavano, Macrone si accorse che il giovane cercava di mostrarsi fiero nonostante tremasse. Macrone sentì un moto di simpatia, e gli tornarono alla memoria le proprie sensazioni al momento dell’arruolamento: l’eccitazione mista alla paura per l’ingresso in un mondo del tutto nuovo, con le sue regole rigide, i suoi pericoli, la vita dura lontana dagli agi della sua casa dell’infanzia.

    Catone era impegnato a strizzarsi il mantello fradicio e presto ai piedi del ragazzo si formò una pozzanghera.

    «Smettila!», scattò Macrone. «Stai facendo un pasticcio. Ti asciugherai dopo».

    Catone alzò lo sguardo, le mani strette attorno a un lembo del mantello. Era sul punto di ribattere quando si rese conto che tutti i soldati lo stavano guardando con seria disapprovazione.

    «Mi dispiace terribilmente», mormorò e lasciò andare l’orlo del mantello.

    «Ascolta, ragazzo», disse Macrone il più gentilmente possibile. «Nessuno fa caso a un soldato malconcio se non è colpa sua. Ma quello che dà fastidio è un soldato che si agita e si dimena. È una cosa che fa ammattire l’esercito. Dico bene, ragazzi?». Si girò verso le guardie che annuirono energicamente. «Perciò, da ora in poi, basta cincischiare. Abituati a rimanere fermo e ad aspettare. Scoprirai che è questo ciò che facciamo per la maggior parte del tempo».

    Le guardie sospirarono solidali.

    Un rumore di passi proveniente dal cortile interno li avvertì che la guardia era tornata al portico.

    «Signore, vi prego, seguitemi. Anche il ragazzo».

    «Il legato vuole vederci?»

    «Non lo so, signore. Mi è stato ordinato di scortarvi prima dal tribuno superiore. Da questa parte, prego».

    Li condusse attraverso un largo arco che si apriva su un cortile circondato da un porticato. La pioggia zampillava giù per le tegole nelle grondaie che la convogliavano fuori dall’edificio. La guardia fece percorrere loro l’intero perimetro del cortile fino a che giunsero davanti a un’altra entrata, dalla parte opposta del portico. Oltre quella porta, l’edificio si apriva su un grande atrio con uffici disposti lungo i lati, a eccezione della parete opposta dove una tenda viola nascondeva alla vista il sacrario della Legione. Due portavessillo con le spade sguainate stavano sull’attenti di fronte alla tenda. La guardia girò a sinistra, si fermò fuori da una porta e bussò due volte.

    «Avanti», disse una voce e la guardia aprì velocemente le porte. Macrone fu il primo a entrare, e fece cenno a Catone di seguirlo. La stanza era stretta, ma abbastanza lunga da ospitare uno scrittoio accostato a una parete e uno scaffale per i rotoli di pergamena in fondo. Un braciere ardeva proprio al centro della stanza, riempiendola di un tepore stantio.

    Seduto allo scrittoio c’era un tribuno. Macrone lo conosceva di vista: Aulo Vitellio, un ex dongiovanni a Roma, ma ora sulla via di una carriera politica che iniziava con il comando di una legione. Vitellio era un uomo in sovrappeso e dalla carnagione olivastra, che tradiva la sua provenienza dall’Italia Meridionale. Quando i visitatori entrarono, spinse indietro la sedia e si rivolse a loro.

    «Dov’è questa lettera?». La voce era profonda e venata di impazienza.

    Macrone gliela porse e fece un passo indietro. Catone rimase silenzioso al suo fianco, accanto al braciere. Un lieve sorriso di soddisfazione gli increspò le labbra quando fu pervaso dal calore e il tremito cessò.

    Vitellio diede una rapida occhiata alla lettera e poi fece scorrere le dita sul sigillo imperiale, consumato dalla curiosità.

    «Sai di cosa si tratta?»

    «Il ragazzo dice che...».

    «Non lo sto chiedendo a te, centurione... Ebbene?»

    «Credo che sia una lettera personale da parte dell’imperatore Claudio, signore», rispose Catone.

    L’accento che Catone pose su personale non sfuggì al tribuno, che fissò il ragazzo con uno sguardo gelido.

    «E cosa credi che possa esserci di così personale da convincere l’imperatore ad affidare la consegna a te?»

    «Non lo so, signore».

    «Proprio così. Perciò penso che tu possa lasciarmela tranquillamente. Farò in modo che il legato la riceva a tempo debito. Siete congedati».

    Macrone si diresse immediatamente verso la porta, ma la giovane recluta esitò. «Scusate, signore. Il rotolo?».

    Vitellio lo guardò sconcertato mentre Macrone afferrava rapidamente il giovane per un braccio.

    «Andiamo via, ragazzo. Il tribuno è un uomo molto impegnato».

    «Mi è stato detto di consegnare personalmente il rotolo, signore».

    «Come osi», disse piano Vitellio, aggrottando le sopracciglia mentre i riflessi del braciere guizzavano nei suoi occhi scuri.

    Per un momento Macrone assisté allo scambio di occhiate: il tribuno che si sforzava di contenere l’ira, e il ragazzo timoroso ma spavaldo. Poi gli occhi del tribuno lampeggiarono in direzione del centurione, che si sforzò di atteggiare le labbra in un sorriso.

    «Va bene, allora, personalmente sia». Vitellio si alzò tenendo in mano il rotolo. «Venite con me».

    Vitellio li condusse, lungo un breve passaggio, in un’anticamera dove il segretario personale del legato lavorava a una scrivania accanto a una grande porta decorata. Il segretario alzò la testa sentendoli arrivare e, vedendo Vitellio, si alzò stancamente in piedi.

    «Posso vedere il legato?», chiese energicamente Vitellio.

    «È urgente, signore?»

    «Dispaccio imperiale». Vitellio tenne la lettera in modo che il sigillo fosse visibile. All’istante il segretario bussò all’ufficio del legato ed entrò senza aspettare risposta, chiudendosi la porta alle spalle. Ci fu silenzio per un momento e poi la porta si aprì di nuovo. Il segretario invitò Vitellio a entrare e alzò una mano per fermare gli altri due. Da fuori, Macrone riusciva a sentire una voce concitata, interrotta dai rari monosillabi di Vitellio. La strigliata fu misericordiosamente breve, ma il tribuno fece in modo di scoccare un’occhiata fredda e ostile al centurione quando uscì dall’ufficio per tornare nel proprio.

    «Vi riceverà adesso». Il segretario gli fece cenno di entrare.

    Macrone ribolliva di silenziosa rabbia contro Bestia. Quella dannata lettera l’aveva messo fuori combattimento. Avendo ricevuto l’ordine di guidare il ragazzo al quartier generale, Macrone stava per affrontare l’ira del legato per avergli fatto perdere il suo prezioso tempo. Se Vitellio, un tribuno, poteva essere sgridato, solo gli dèi sapevano quello che il legato avrebbe detto all’umile centurione. Ed era tutta colpa di quel dannato ragazzo. Macrone, istintivamente, ignorò lo sguardo che aveva ricevuto da Vitellio, poi deglutì nervosamente varcando di buon passo la porta e lasciandosi alla spalle l’espressione compiaciuta del segretario. In quel momento avrebbe preferito trovarsi con una mano sola di fronte a dieci guerrieri Galli urlanti e furiosi.

    L’ufficio del legato era prevedibilmente spazioso. La parete opposta era dominata da un tavolo con il piano di marmo nero, dietro il quale sedeva Tito Flavio Sabino Vespasiano, accigliato dopo aver aperto la lettera che aveva davanti a sé.

    «Allora, centurione. Cosa ci fai qui?»

    «Signore?»

    «Dovresti essere di guardia».

    «Ordini, signore. Mi è stato detto di mostrare a questa nuova recluta il quartier generale e di fare in modo che voi aveste la lettera».

    «Chi te l’ha ordinato?»

    «Lucio Batiaco Bestia. Copre il turno fino al mio ritorno».

    «Ah, sì?». Una ruga solcò la vasta fronte di Vespasiano. Poi il suo sguardo si spostò sulla giovane recluta ferma un passo più indietro rispetto a Macrone: sembrava che il ragazzo sperasse che l’immobilità potesse portarlo all’invisibilità. Gli occhi del legato lo esaminarono rapidamente, valutando il suo potenziale. «Tu sei Quinto Licinio Catone?»

    «Sissignore».

    «Del palazzo?»

    «Sissignore».

    «Un po’ insolito, a dir poco», disse fra sé e sé Vespasiano. «Il palazzo non produce molte reclute per le legioni, a eccezione di mia moglie; persino lei trova difficile adattarsi allo squallore della residenza privata di un legato. Dubito che troverai i nostri modi di tuo gusto, ma ora sei un soldato e il discorso è chiuso».

    «Sissignore».

    «Questa», Vespasiano agitò la lettera, «è una lettera di presentazione. Normalmente è il mio segretario a occuparsi di queste faccende di poco conto, poiché io ho di meglio da fare: ad esempio, comandare una legione. Perciò potete immaginare quanto mi secchi che il tribuno abbia sprecato il suo tempo e, ben più importante, il mio con una cosa del genere».

    Vespasiano fece una pausa e i due visitatori furono raggelati dal suo sguardo. Poi continuò, in tono più pacato. «Tuttavia, poiché questa lettera viene da Claudio, come tu senza dubbio sai, devo sottostare al potere che ha di disturbare uno dei suoi legati con tali insignificanti minuzie. Mi dice che, grato per i servigi che il tuo defunto padre ha reso a Roma, ti ha affrancato e desidera che io ti nomini centurione nella mia legione».

    «Oh», rispose Catone. «È una cosa buona, signore?».

    Macrone per un attimo sbuffò di rabbia, poi recuperò il controllo e strinse forte i pugni contro le cosce.

    «Problemi, centurione?», domandò Vespasiano.

    «No, signore», si sforzò di rispondere Macrone a denti stretti.

    «Allora, Catone», continuò gentilmente il legato. «Non c’è assolutamente nessuna possibilità che io ti nomini centurione, qualunque cosa desideri l’imperatore. Quanti anni hai?»

    «Sedici, signore. Diciassette il mese prossimo».

    «Sedici... troppo pochi per essere un uomo. Certamente troppo pochi per guidarne altri».

    «Con tutto il rispetto, signore, ma Alessandro aveva solo sedici anni quando condusse il suo primo esercito in battaglia».

    Le sopracciglia di Vespasiano si sollevarono per lo stupore. «Ti consideri un Alessandro? Cosa ne sai di faccende militari?»

    «Le ho studiate, signore. Ho familiarità con le opere di Senofonte, Erodoto, Livio e, naturalmente, Cesare».

    «E questo ti rende un esperto del moderno esercito romano?». Vespasiano trovava divertente la boria del giovane. «Be’, devo ammetterlo, vorrei solo che tutte le nostre reclute fossero così pratiche dell’arte della guerra. Sarebbe originale avere un esercito che marcia con il cervello anziché con lo stomaco. Sarebbe meraviglioso, non è vero, centurione?»

    «Sissignore», rispose Macrone. «Avremmo tutti mal di testa anziché mal di stomaco, signore».

    Vespasiano guardò sorpreso Macrone. «Voleva essere una battuta, centurione? Non approvo i giovani ufficiali che fanno gli spiritosi. Questo è l’esercito, non una commedia di Plauto».

    «Sissignore. Chi, signore?»

    «Un commediografo», spiegò pazientemente Catone a Macrone. «Plauto adattò materiali del teatro greco».

    «Basta così, figliolo», tagliò corto Vespasiano. «Risparmiatelo per i salotti letterari, dovessi mai tornare a Roma. Per ora ho deciso. Non sarai un centurione».

    «Ma, signore...».

    Vespasiano alzò una mano per zittirlo e poi fece cenno a Macrone. «Vedi quest’uomo? Ora, lui è un centurione. L’uomo che vi ha scortati qui da Aventicum è anch’egli un centurione. Come pensi che siano diventati dei centurioni?».

    Catone scrollò le spalle. «Non ne ho assolutamente idea, signore».

    «Nessuna idea? Bene, allora ascolta. Quest’uomo, Macrone, è stato legionario per molti anni; quanti, centurione?»

    «Quattordici, signore».

    «Quattordici anni. E durante quel tempo ha marciato più o meno per tutto il mondo conosciuto. Giove sa in quante battaglie e scontri minori ha combattuto quest’uomo. È stato addestrato a usare ogni arma nell’esercito. Riesce a marciare fino a trenta chilometri al giorno con l’armatura completa portandosi dietro tutto l’equipaggiamento. È stato addestrato a nuotare, a costruire strade, ponti e fortini. Ha anche altre qualità. Quest’uomo ha portato in salvo i suoi uomini quando i Germani li hanno bloccati sulla sponda opposta del Reno. Allora, e solo allora, è stato preso in considerazione per la promozione a centurione. Ora, quali di queste cose sei in grado di fare tu? In questo momento?».

    Catone ci pensò un momento. «So nuotare, signore... un po’».

    «Hai preso in considerazione una carriera nella flotta navale?», chiese speranzoso Vespasiano.

    «No. Soffro il mal di mare».

    «Per Giove! Be’, temo che il nuoto non ti renda abbastanza qualificato per il comando, ma poiché ci servirà qualsiasi uomo che sia possibile addestrare per il prossimo anno, ti concedo di entrare a far parte della Seconda Legione. Congedato... questo è il modo che si usa nell’esercito per dire: per favore stà buono e aspetta fuori».

    «Sissignore».

    Una volta che la porta si fu chiusa alle spalle del giovane, Vespasiano scosse la testa. «Dove sta andando a finire il mondo? Pensi che potremo farne un soldato, centurione?»

    «No, signore», rispose prontamente Macrone. «L’esercito è un posto troppo pericoloso per i critici teatrali».

    «Anche Roma», sospirò Vespasiano, ricordandosi di coloro che avevano sconsideratamente osato esprimere un’opinione sulla produzione letteraria del defunto Caligola. Non che le cose andassero meglio sotto il suo successore, Claudio. Il primo segretario del nuovo imperatore, il liberto Narciso, aveva spie ovunque, impegnate a stilare rapporti sulla lealtà di ogni Romano che potesse costituire la benché minima minaccia al nuovo regime. L’atmosfera nella capitale era velenosa a seguito del tentativo di colpo di stato a opera di Scribonio e Vespasiano era stato recentemente informato che diversi amici di sua moglie erano già in arresto. La stessa Flavia l’aveva solo di recente raggiunto alla base, piena di agitazione e paura e, non per la prima volta, Vespasiano desiderò che fosse più cauta nella scelta dei propri amici mondani. Ma ecco cosa accade, rifletté Vespasiano, quando si sposa una donna che era stata allevata nell’atmosfera intrisa di politica della casa imperiale. Come il giovane che aspettava di fuori. Vespasiano alzò lo sguardo dalla scrivania.

    «Bene, centurione, vedremo cosa possiamo fare per il tuo Catone. La tua centuria è al completo? Non hai perso di recente il tuo comandante in seconda?»

    «Sì, signore. L’optio è morto questa mattina».

    «Bene, questo semplifica le cose. Arruola il ragazzo nella tua centuria e fanne un optio».

    «Ma, signore!».

    «Niente ma. È un ordine. Non possiamo farne un centurione e non posso modificare troppo un precetto imperiale. Dunque dobbiamo farcene carico. Congedato».

    «Sissignore». Macrone fece il saluto, si girò rapidamente e marciò fuori dall’ufficio, imprecando sotto i baffi. L’optio era tradizionalmente nominato dal centurione, ed era una posizione che valeva un bel po’ di denaro. Avrebbe solo dovuto fare in modo che il ragazzo non durasse troppo a lungo, in un modo o nell’altro. Dopo tutto, un molle cittadino che non sembrava troppo contento di stare lì poteva, con il giusto tipo di stimoli, essere facilmente indotto a chiedere un esonero.

    Catone lo stava aspettando fuori. Il ragazzo fece un mezzo sorriso e Macrone fu sul punto di prenderlo a calci.

    «Allora cosa ne sarà di me, signore?»

    «Chiudi il becco e seguimi».

    «Sissignore».

    «Ragazzi, vorrei presentarvi il nuovo optio».

    Nella mensa quasi completamente buia, illuminata solo dal pallido arancione delle poche lampade che ci si poteva permettere di accendere, tutte le facce si voltarono verso il centurione. Dopo che i loro sguardi si spostarono dal loro centurione al giovane alto al suo fianco, pochi riuscirono a nascondere lo stupore.

    «Avete detto... il nuovo optio, signore?», chiese qualcuno.

    «Proprio così, Piras».

    «Non è un po’, be’, giovane?»

    «A quanto pare no», replicò amaramente Macrone. «L’imperatore ha stabilito una nuova procedura di selezione per gli ufficiali subalterni. Bisogna essere alti, pelle e ossa ed esperti di storia greca e latina. E coloro che si sono presi il disturbo di leggere altre opere letterarie avranno un trattamento preferenziale».

    Gli uomini lo guardarono senza capire, ma Macrone era troppo contrariato per dare una qualsiasi spiegazione. «A ogni modo, eccolo qui. Piras, voglio che lo porti dal mio segretario. Fallo iscrivere e consegnagli un sigillo. Farà parte della nostra unità».

    «Signore, credevo che le reclute potessero essere iscritte solo dagli ufficiali».

    «Ascolta, sono troppo occupato in questo momento», rispose Macrone aggressivamente. «A ogni modo, è un ordine. È sotto la tua responsabilità. Perciò pensaci tu».

    Macrone uscì di corsa dalla mensa e si affrettò a tornare ai suoi alloggi. Pisone aspettava fuori dal suo piccolo ufficio con delle carte.

    «Signore, se solo poteste firmare...».

    «Più tardi». Macrone gli fece un cenno con la mano e raccolse in fretta e furia un mantello asciutto dirigendosi verso l’uscita. «Devo tornare di servizio».

    La porta sbatté dietro di lui. Pisone alzò le spalle e tornò alla scrivania.

    Poco dopo, Catone sedeva impalato sulla cuccetta più alta di una camerata. La sua altezza era tale che con la testa poteva sentire la paglia sotto le tegole. Trasalì, chiedendosi d’un tratto se ci fossero dei topi fra i travetti, e strinse nervosamente la piccola barra di piombo che gli pendeva da una cinghia legata attorno al collo. Vi erano impressi il suo nome, la sua legione e il sigillo imperiale. Sarebbe rimasta con lui fino a che non avesse lasciato l’esercito, o fosse morto in battaglia. Allora sarebbe stata usata per identificare il suo corpo. Con il mento appoggiato sulle ginocchia, Catone si domandava come sarebbe uscito da quella spaventosa situazione. La camerata, dotata di minuscole cuccette per otto uomini, non era migliore delle stalle riservate ai cavalli da lavoro del palazzo.

    E quegli uomini!

    Be’, erano animali. Piras gli aveva fatto fare il giro della mensa e Catone aveva dovuto reprimere a fatica il suo disgusto per i maleodoranti e alticci legionari che ruttavano ed emettevano peti. Da parte loro, i soldati erano sembrati incerti su come comportarsi nei suoi confronti. Di sicuro c’era del risentimento. A quanto pareva, quello di optio era un grado che tanti lottavano per raggiungere. In teoria lui era un loro superiore, ma non gli avevano certo fatto capire che sarebbe stato trattato come tale.

    La conversazione si limitò a una discussione su chi si fosse scopato più donne, chi avesse ucciso più barbari, chi sputava più lontano, chi scorreggiava più forte: questo genere di cose. Eccitante per i sensi, forse, ma la mente restava piuttosto indifferente. Dopo un ragionevole lasso di tempo, Catone aveva chiesto a Piras se poteva essere così gentile da mostrargli la sua camera. Ogni faccia nella stanza si era girata verso di lui, alcuni con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Catone capì che in qualche modo aveva fatto una gaffe e decise che addormentandosi presto si sarebbe chiarito le idee.

    CAPITOLO TRE

    Nel tardo pomeriggio del giorno dopo, quando il crepuscolo si addensava attorno alla fortezza e la rigida aria invernale cominciava a farsi pungente, un esausto Catone trascinò i suoi piedi nella caserma. La camerata era silenziosa ma, chiudendo la porta, Catone si accorse di non essere solo. Provò una fitta di irritazione per l’intrusione in quel momento di solitudine che aveva tanto desiderato. Piras era seduto sulla sua cuccetta, intento a rammendare una tunica di ricambio alla luce fioca che entrava da uno scuro aperto. Alzò lo sguardo quando Catone arrivò alla sua cuccetta e vi si arrampicò con i vestiti ancora indosso.

    «Giornata pesante, ragazzo nuovo?»

    «Sì», brontolò Catone. Non aveva voglia di iniziare alcuna conversazione.

    «Andrà sempre peggio».

    «Oh».

    «Pensi di riuscire a farcela?»

    «Sì», disse risolutamente Catone. «Ce la farò».

    «Nah!». Piras scosse la testa. «Sei troppo delicato. Ti dò un mese».

    «Un mese?», rispose rabbiosamente Catone.

    «Già. Un mese se sei saggio... di più se sei uno sciocco».

    «Di cosa stai parlando?»

    «Non ha senso che tu stia qui. Non ci sei tagliato, sei solo un moccioso».

    «Ho quasi diciassette anni. Posso essere un soldato».

    «Ancora troppo giovane per essere un soldato. E non sei in forma. Bestia ti spezzerà in pochissimo tempo».

    «Non lo farà! Te lo giuro». Catone, poco saggiamente, si concesse uno sfoggio di baldanza adolescenziale. «Piuttosto muoio».

    «Si potrebbe anche arrivare a questo». Piras scrollò le spalle. «Non si può dire che dispiacerebbe a tanti».

    «Cosa vuoi dire?»

    «Niente...». Scrollò di nuovo le spalle e continuò a cucire sotto lo sguardo di Catone, noncurante della bruciante umiliazione che aveva inferto al ragazzo. Piras era intento a far sì che i punti del rammendo seguissero una linea dritta. Catone lo guardava senza interesse: aveva visto gli schiavi del palazzo rammendare indumenti per tutta la sua vita. Tuttavia, filare, tessere e cucire era sempre stato un lavoro da donne ed era piuttosto singolare vedere un uomo così abile a maneggiare un ago.

    Catone era perfettamente consapevole che la sua nomina a optio gli stava causando parecchie inimicizie. Gli sembrava di essere già ai ferri corti con Bestia, il centurione incaricato dell’addestramento. E peggio ancora, alcune reclute gli erano apertamente ostili, in modo particolare un gruppo di uomini inviati presso la legione da una prigione in Perusia, che erano stati incatenati per tutta la durata del viaggio. Quello che se ne era autoproclamato capo era un uomo tarchiato, talmente brutto da essere inevitabilmente soprannominato Pulcro, il bello. Un giorno, durante la marcia, Catone si era ritrovato proprio dietro a Pulcro, quando questi gli aveva chiesto di bere dalla sua fiaschetta di vino. Era una fesseria, ma il tono della richiesta era così carico di minaccia che Catone gli aveva porto la fiaschetta all’istante. Pulcro aveva bevuto a lungo, poi, quando Catone gli aveva chiesto di restituirgli la fiaschetta, l’aveva passata ai suoi amici.

    «La vuoi, ragazzo?». Pulcro aveva increspato le labbra in un ghigno. «Allora prenditela».

    «Ridammela».

    «Costringimi».

    A quel ricordo Catone fremette e la sua coscienza ancora una volta gli chiese se fosse quello il comportamento di un vero soldato. Un vero soldato avrebbe colpito quell’uomo all’istante e si sarebbe ripreso la fiaschetta. Ma, ribatté il lato razionale della sua mente, un uomo avrebbe dovuto essere fatto di dannati mattoni per avere la meglio su Pulcro, con quelle membra solide e le mani grosse come badili. Leggendo la sua espressione, Pulcro aveva sogghignato e Catone era istintivamente indietreggiato, suscitando l’ilarità di tutti. Era avvampato per la vergogna, e ne soffriva ancora, nonostante si dicesse che la ritirata di fronte a forze superiori fosse perfettamente sensata, anzi intellettualmente virtuosa. Un benevolo soldato della scorta aveva recuperato la fiaschetta e l’aveva restituita a Catone ridendo. Pulcro aveva sputato nella sua direzione prima che il soldato lo spingesse in riga con il manico della lancia.

    «Ci vedremo sul campo, ragazzo», aveva ringhiato Pulcro, sollevando le sue catene. «Non appena mi sbarazzerò di queste».

    Sin dal loro arrivo alla fortezza, l’esercito aveva tenuto impegnate le reclute e Catone sperava che Pulcro si fosse dimenticato di lui. Aveva cercato di tenersi alla larga da quell’uomo il più possibile, evitando persino di incontrare il suo sguardo, nel tentativo di rendersi invisibile. Ora era tornato in caserma piuttosto che restare con le altre reclute dopo che esse erano state congedate al termine della giornata. Era di vitale importanza, rifletté, che si facesse amici al più presto. Ma come? E chi? Gli altri avevano formato dei gruppetti durante il viaggio da Aventicum, mentre lui aveva letto quel dannato Virgilio, ricordò rabbiosamente a se stesso. Cosa avrebbe dato per ricominciare daccapo il viaggio, ora che sapeva cosa fare...

    Da solo, e lontanissimo dai suoi amici di Roma. Per un momento l’infelicità lo sopraffece e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si voltò verso il muro e seppellì il viso nel ruvido tessuto del guanciale imbottito di paglia. Sentì il petto fremere e d’un tratto provò rabbia, rabbia nei propri confronti, rabbia per non essere abbastanza uomo da ricacciare le lacrime e rabbia perché niente nella sua vita lo aveva preparato a tutto ciò. Tutti quei compiaciuti tutori greci e la loro stupida ammirazione solo per la retorica e la poesia più raffinate: a cosa diavolo gli servivano adesso? Come poteva la poesia proteggerlo da quell’animale, il centurione Bestia? In quel preciso momento avrebbe scambiato tutta la sua conoscenza per un solo amico.

    Piras fece una pausa e alzò la testa, con l’ago sospeso sulla tunica. Aveva sentito il ragazzo nuovo che si girava e aveva riconosciuto il singhiozzo soffocato per quello che era. Scosse la testa tristemente. Molte reclute erano abbastanza grandi e forti per cavarsela. Poi c’erano i ragazzi come questo, che non avrebbero dovuto trovarsi nell’esercito. Poteva rappresentare la loro formazione, come affermavano alcuni soldati, ma allo stesso modo anche la loro distruzione.

    Il ragazzo singhiozzò di nuovo, soffocando il pianto quanto più poteva nel guanciale.

    «Ehi!», disse aspramente Piras. «Ti dispiace? Sto cercando di concentrarmi, qua sotto».

    Catone si riscosse. «Scusa. Penso di avere il raffreddore».

    «Certo», annuì Piras. «Sicuro. È un destino, con questo tempo».

    Catone si strofinò la faccia con un angolo della ruvida coperta militare, asciugandosi le lacrime e fingendo di soffiarsi il naso. «Fatto».

    «Meglio?»

    «Sì, grazie», rispose Catone, riconoscente che qualcuno si interessasse a lui. Poi lo assalì la preoccupazione che quell’opportunità di parlare da solo con Piras gli venisse impedita dall’ingresso di qualcuno. «Dove sono tutti gli altri?»

    «Giocano a dadi nella mensa. Li raggiungo dopo avere rammendato questa. Vuoi venire con me e vedere i ragazzi?»

    «No, grazie. Ho bisogno di dormire».

    «Come vuoi».

    «Dimmi». D’un tratto Catone si girò e si tirò su. «Quel centurione, Bestia, è proprio il bastardo che sembra?»

    «Come credi che si sia guadagnato il nome Bestia? Ma non prenderla sul personale, tratta tutte le reclute allo stesso modo».

    «Forse», disse dubbioso Catone. «Ma sembra che ce l’abbia con me in particolare».

    «Cosa ti aspettavi?», disse Piras mentre con i denti stringeva un nodo, tagliando poi il filo che pendeva. «Sei nel campo da una notte e vieni promosso a un grado per ottenere il quale la maggior parte di noi deve aspettare anni».

    Catone guardò attentamente l’uomo prima di rispondere. «Tu te la sei presa?»

    «Certamente. Non hai dato prova del tuo valore in nessun modo. Sei solo un ragazzo». Alzò le spalle. «Non è giusto».

    Catone arrossì per il senso di colpa e l’imbarazzo, felice che la luce fioca gli nascondesse in parte il volto. «Non sono stato io a chiederlo».

    «Non ha senso. Le nomine dirette vengono fatte per uomini con qualche tipo di esperienza militare. Ma tu? Vorrei davvero sapere il perché».

    «È stata una ricompensa per mio padre».

    «Hah! Questa è buona».

    Fuori era calato il buio. Piras mise da parte la tunica e il set da cucito. «A proposito». Piras si fermò vicino alla porta. «Non addormentarti con la divisa. Ti servirà pulita la mattina. Bestia odia i soldati in disordine. Se ti ha preso di mira, non dargli la possibilità di approfittarsene, eh?»

    «Grazie».

    «Dormi bene, ragazzo nuovo».

    «Mi chiamo...», fece per dire Catone, ma la porta si era già chiusa dietro a Piras e la stanza buia inghiottì la sua protesta. Rimase immobile per un momento, sul punto di addormentarsi, ma l’avvertimento di Piras lo strappò dal torpore. Si mise seduto, cercando a tentoni con le dita stanche le fibbie sul fianco del farsetto di cuoio. Gli istruttori avevano tenuto in piedi le nuove reclute sin da quando era sorta l’alba: sembrava passato un secolo. Era stato buttato giù dal letto quando era ancora buio e spinto in strada dove si stavano radunando le altre reclute. Ancora mezzo addormentati, tremando nel freddo pallore dell’alba e riluttanti per la sottile pioggerella, il loro respiro si era condensato in nuvolette grige mentre venivano condotti ai magazzini del quartier generale, dove le insegne della vita da civili erano state strappate via e sostituite con l’uniforme del legionario.

    «Scusatemi!», aveva gridato Catone. «Scusatemi».

    L’assistente del quartiermastro si voltò. «Cosa c’è?»

    «Be’, questa tunica sembra troppo grande per me».

    L’assistente rise. «No, amico. È la misura giusta. Sei tu quello con la misura sbagliata. Sei nell’esercito, adesso. La taglia è unica per tutti».

    «Ma guardate! È ridicola». Catone alzò la tunica davanti a sé: era davvero troppo larga per la sua esile corporatura, e la sua altezza faceva sì che l’orlo gli arrivasse sopra le ginocchia. «Mi si congeleranno le gambe. Non c’è nient’altro?»

    «No. Ti ci adatterai».

    «Cosa?», rispose incredulo Catone. «Ho la taglia che ho. Non mi accorcerò né diventerò più largo. Ora trovatemi qualcosa della misura giusta».

    «Te l’ho detto. Questa è tutto ciò che c’è, te la prendi e basta».

    Le voci concitate si sentirono in tutto il magazzino; le altre reclute e gli assistenti si fermarono per guardare nella sua direzione. Nel piccolo ufficio dietro al bancone una sedia venne trascinata rumorosamente sul pavimento lastricato e un uomo corpulento emerse rabbioso dalla porta.

    «Cosa sono queste dannate urla?»

    «Siete voi il responsabile qui?», chiese Catone, felice di vedere qualcuno dotato di autorità a cui poter fare le proprie rimostranze. Era scadente quanto alcuni negozi di Roma. A quei tempi ognuno si serviva di assistenti mediocri, personale che non si curava né conosceva le merci che vendeva. Era stato costretto a lamentarsi di situazioni simili con i direttori parecchie volte quando faceva acquisti per il palazzo, e conosceva l’approccio migliore da usare. «Stavo cercando di spiegare a quest’uomo...».

    «Chi diavolo sei tu?», sbraitò il quartiermastro.

    «Quinto Licinio Catone, optio della Sesta Centuria, Quarta Coorte».

    Il quartiermastro aggrottò la fronte per un attimo e poi si mise a ridere. «Ah, ho saputo tutto di te! Optio! Hah! Allora, optio», sorrise. «Qual è il problema?»

    «Guardate qua. Voglio solo che quest’uomo mi dia una tunica della mia misura».

    «Posso?». Il quartiermastro allungò una mano per prendere la tunica e Catone gliela porse di buon grado. L’uomo fece finta di esaminare attentamente l’indumento, facendo scorrere la mano sulla rozza cucitura e alzandola, alla fine, contro la luce che entrava dagli scuri aperti.

    «Sì», concluse. «Questa è una tunica regolamentare. Non ha niente che non vada».

    «Ma...».

    «Chiudi il becco!». Il quartiermastro fece volare la tunica dall’altro lato del bancone. «Adesso prendi questa dannata cosa e non farmi sprecare altro tempo».

    «Ma...».

    «E chiamami signore, novellino saccente che non sei altro!».

    Catone aprì la bocca per esprimere una scandalizzata protesta, ma riuscì a mordersi la lingua all’ultimo momento. «Sì, signore».

    «Bene. Adesso vai a prendere il resto della tua divisa». Il quartiermastro si girò per tornare al suo ufficio, ma poi si accorse che tutti si erano fermati per godersi lo spettacolo. «Che diavolo avete da guardare?».

    Il magazzino tornò all’istante alla sua attività frenetica, mentre le nuove reclute ricevevano le uniformi loro assegnate. Con un’alzata di spalle Catone piegò la tunica e rimase fermo al bancone mentre l’assistente impilava i suoi indumenti e il suo equipaggiamento sul piano di legno. Oltre alla tunica c’erano un paio di brache di lana, un farsetto di cuoio giallo, uno spesso mantello rosso reso impermeabile con del grasso animale, stivali chiodati e una gavetta. L’assistente gli spinse davanti una lavagnetta. «Firma qui, o fai una croce».

    «Cos’è?»

    «Ricevuta per i tuoi abiti borghesi».

    «Cosa?»

    «Non ti è permesso tenere i tuoi vestiti. Li darai a me dopo che avrai indossato l’uniforme. Li venderemo al mercato locale e ti daremo il ricavato».

    «Assolutamente no!», disse Catone con fermezza.

    L’assistente si voltò verso l’ufficio e aprì la bocca per far intervenire il quartiermastro.

    «Aspettate!», lo fermò Catone. «Firmerò. Ma dovete proprio venderli? Vorrei tenere gli stivali e il mantello da viaggio».

    «Le reclute devono portare l’uniforme. Non possono indossare roba vecchia. E poi non c’è spazio per conservare gli abiti. Ma ti prometto che ti farò fare un buon affare».

    Per qualche ragione Catone dubitò che avrebbe visto granché del ricavato della vendita dei suoi indumenti. «Come faccio a essere sicuro che mi darete l’intera somma?»

    «Mi stai accusando di disonestà?», replicò l’assistente fingendosi inorridito.

    Catone si spogliò lentamente e si infilò la tunica regolamentare. Gli stava male quanto aveva temuto: gli ricordava le corte tuniche indossate dalle prostitute a Roma. I calzoni erano scomodi e dovette legarli stretti sui fianchi ossuti per impedire che cadessero. E prudevano terribilmente. Quasi altrettanto scomodi erano i pesanti scarponi militari, fatti di spesso cuoio e legati con rozze cinghie. Le borchie sulla suola producevano un forte tintinnio sul pavimento di pietra; alcune delle reclute più giovani si divertivano a sfregarvele per far scaturire scintille, fino a che il quartiermastro cacciò la testa fuori dalla porta e urlò loro di smetterla.

    Una volta allacciati gli scarponi, Catone si infilò il pesante farsetto di cuoio e agganciò le fibbie su entrambi i lati. Era difficile, essendo la pelle del farsetto nuovo ancora rigida. Era dura piegarsi in avanti, e riuscì a raggiungere le cinghie solo con grande sforzo. Notò che, per qualche ragione, il suo farsetto aveva un pezzo di lino bianco cucito sulla spalla destra; una rapida occhiata nello stanzone gli rivelò che era l’unico farsetto con un rattoppo.

    L’ingresso principale del magazzino si oscurò per un istante. Catone alzò lo sguardo per vedere il centurione Bestia entrare e fermarsi nella stanza, scuotendo penosamente la testa alla vista delle nuove reclute e battendosi i gambali argentati con la punta del bastone.

    «Fermi!», urlò, e la stanza si fece immediatamente silenziosa. Mentre passeggiava lentamente lungo il magazzino, le reclute si disposero nervosamente con le spalle al muro.

    Bestia sbuffò in modo derisorio. «Hah! Non ho mai visto un simile gruppo di donnicciole! Allora, ragazze, adesso, fuori!».

    La pioggerella si era dissolta con l’alba e il sole brillava squarciando una leggera foschia. L’aria era abbastanza fresca e, tutt’intorno, la fortezza brulicava di attività. Addestrare le nuove reclute era una cosa che divertiva molto Bestia. Come ogni istruttore, aveva accumulato una serie di invettive utili per ogni occasione e si calava a proprio agio nel necessario ruolo di dura intolleranza venata di genuino interesse per i suoi compiti. Con il tempo sarebbero arrivati a considerarlo una figura paterna, anche se non proprio tutti.

    Gli occhi di Bestia percorsero le righe per poi posarsi su Catone, che spiccava su tutti gli altri di quasi mezza testa; la sua altezza era sottolineata dal fatto che si trovava proprio alla sinistra di Pulcro.

    «Tu! Sì, tu, Signor-ho-una-dannata-lettera-del-mio-amico-l’imperatore!», sbraitò Bestia avanzando verso Catone. Colpì bruscamente con il bastone la toppa bianca sulla spalla. «Cosa diavolo è questo?».

    Catone sobbalzò. «Non lo so, signore».

    «Non lo so! Da quanto tempo sei nell’esercito? Quasi mezzo dannato giorno e ancora non sai riconoscere i galloni dei gradi!». Fermo di fronte a Catone, guardò dritto in faccia il ragazzo a meno di una spanna di distanza. «Ma che razza di fottuto soldato sei?»

    «Non lo so, signore, io...».

    «Non abbassare gli occhi per guardarmi!», urlò Bestia, spruzzando saliva. «Tieni i tuoi fottuti occhi dritti davanti a te! Per tutto il tempo! Mi hai capito?».

    Catone rivolse immediatamente lo sguardo in avanti e si irrigidì. «Sissignore».

    «Allora, cosa diavolo ci fai con la mostrina di optio

    «Io sono un optio, signore».

    «Cazzate!», urlò Bestia. «Noi non promuoviamo le signorine dopo una sola notte».

    «Sono stato, in effetti, nominato optio la notte scorsa, signore», spiegò Catone.

    «Così, allora, optio oggi, centurione domani, tribuno il giorno dopo... Di questo passo sarai un fottuto imperatore alla fine della settimana! Mi prendi per uno stupido, ragazzo?»

    «Ehm, scusate, signore», disse piano uno degli istruttori alle spalle di Bestia. «Lui è un optio, signore».

    «Cosa?». Bestia fece scattare un pollice verso Catone. «Lui?»

    «Temo di sì, signore. Nomina diretta del legato. È stato inserito nel registro delle nuove reclute, signore». L’istruttore tirò fuori una tavoletta di cera e indicò il nome di Catone.

    «Quinto Licinio Catone, optio», lesse ad alta voce Bestia. Poi si girò di nuovo verso Catone con occhi minacciosi. «Ecco, allora, cosa diceva la lettera! Amici in alto loco, eh? Be’, non ti sarà d’aiuto. Optio puoi esserlo, ma fino a che seguirai l’addestramento base avrai lo stesso trattamento di tutti gli altri. Intesi?»

    «Sissignore».

    «Anzi», gli sussurrò Bestia, avvicinandosi a lui. «Ti tratterò peggio. Hai avuto la promozione e adesso, cazzo, dovrai meritartela».

    Poi si girò e andò via a grandi passi. Prese posto dieci passi avanti alla prima fila di reclute. «Lezione numero uno, signore. L’attenti. I vostri istruttori vi hanno diviso in quattro file, esattamente a un passo dall’uomo accanto a voi, e ci sono due passi tra ogni fila. Memorizzate la vostra posizione. In futuro, quando vi dirò di formare le righe, voi vi schiererete nella posizione in cui siete ora, immediatamente. La postura corretta per l’attenti disarmato è questa».

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