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Sotto l’aquila di Roma
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Sotto l’aquila di Roma
E-book436 pagine5 ore

Sotto l’aquila di Roma

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Info su questo ebook

Dall’autore del bestseller Il centurione

È il 42 d.C., e il centurione Macrone, eroe di mille battaglie, è distaccato con la Seconda Legione nel cuore della Germania. Il suo secondo, Catone, è un giovane novizio, e dovrà dimostrare tutto il proprio valore per non perdere la stima dei soldati. L’occasione giusta è una violenta schermaglia con una delle tribù locali, poco prima che la legione si disponga ad affrontare il nemico più temuto: i Britanni. Macrone e Catone si troveranno coinvolti loro malgrado in una oscura cospirazione che minaccia di rovesciare l’imperatore Claudio. Un appassionante romanzo storico ricco di vividi dettagli e di azione incalzante: un capolavoro di realismo militare che inaugura una serie dedicata alle eroiche imprese di Macrone e Catone.

«Un romanzo storico poderoso che si distingue per la dettagliatissima descrizione della vita nell’esercito romano.»

Booklist

«Una lettura superba, dal ritmo incalzante.»

Bernard Cornwell, autore di Il cavaliere nero e L’arciere del re

«Sotto l’aquila di Roma mi ha sorpreso. Non è solo un libro che tiene incollati alla pagina. Più di una volta mi sono fermato ad apprezzare tutta la profondità e il fascino della scrittura di Scarrow.»

Steven Saylor, autore di Sangue su Roma e Lo schiavo di Roma

«Scarrow scava fino in fondo nel mondo delle legioni romane impegnate contro i Britanni, raccontando con perizia tutti gli aspetti della vita militare.»

Kirkus Reviews

Simon Scarrow

è nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito a Norfolk, in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici a essere pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. La Newton Compton ha pubblicato anche Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore e Roma alla conquista del mondo. Il suo indirizzo internet è www.scarrow.co.uk.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2010
ISBN9788854126572
Sotto l’aquila di Roma
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Sotto l’aquila di Roma - Simon Scarrow

    Capitolo Uno

    Una gelida folata di vento entrò nella latrina insieme alla sentinella.

    «Il carro è in avvicinamento, signore».

    «Chiudi quella maledetta porta! C’è altro?»

    «Una piccola colonna di uomini».

    «Soldati?»

    «Improbabile». La sentinella fece una smorfia. «A meno che non ci sia stato un cambiamento nelle esercitazioni di marcia».

    Il centurione di turno alzò bruscamente lo sguardo. «Non ricordo di aver chiesto un’opinione politica, soldato».

    «Nossignore!». La sentinella scattò sull’attenti sotto lo sguardo irato del suo superiore. Solo pochi mesi prima, Lucio Cornelio Macrone era un optio e trovava ancora la promozione al centurionato difficile da gestire. I suoi vecchi commilitoni erano ancora inclini a trattarlo come un loro pari. Non era facile per loro mostrarsi rispettosi verso un uomo che fino a pochissimo tempo prima avevano visto svuotarsi le budella dopo un pieno di vino scadente. Ma, a partire da alcuni mesi prima della promozione, Macrone aveva avuto la consapevolezza che gli ufficiali superiori lo stessero prendendo in considerazione per il primo posto che si fosse reso libero nel centurionato e aveva fatto del suo meglio per ridurre al minimo le indiscrezioni. Perché, se si soppesavano tutte le sua qualità, non si poteva negare che Macrone fosse un bravo soldato – nelle occasioni in cui c’era la necessità di fare i bravi soldati – coscienzioso nei propri doveri, affidabile e obbediente, e si poteva contare su di lui quando si trattava di tener duro in battaglia e stimolare gli altri a fare altrettanto.

    Macrone si accorse all’improvviso di aver fissato a lungo la sentinella: il legionario si muoveva a disagio sotto il suo sguardo esaminatore, come si tende a fare al cospetto di un superiore che ci osserva in silenzio. E gli ufficiali potevano essere dei veri imprevedibili bastardi, pensava nervosamente la sentinella, il primo assaggio di potere e non sapevano come comportarsi, oppure insistevano a dare comandi stupidi e fastidiosi.

    «Quali sono i vostri ordini, signore?»

    «Ordini?». Macrone corrugò per un attimo la fronte. «Va bene, allora. Arrivo. Tu torna al cancello».

    «Sissignore». La sentinella si voltò e si affrettò a uscire dalle latrine dei giovani ufficiali, tirandosi dietro la porta, consapevole della mezza dozzina di centurioni che lo stavano guardando. C’era un regola non scritta secondo cui nessuno, proprio nessuno, permetteva ai propri uomini di interrompere le procedure in latrina. Per pulirsi, Macrone usò un bastoncino con una spugna in cima, poi si tirò su le brache e si scusò con gli altri centurioni prima di correre fuori.

    Era una notte orribile e un freddo vento settentrionale portava la pioggia dalle foreste germaniche. Spazzava il Reno, abbattendosi sulle mura della fortezza e incanalandosi in gelide folate tra gli edifici della caserma. Macrone aveva il sospetto che i suoi pari lo disapprovassero vivamente ed era determinato a dimostrare che si sbagliavano. Non che la sua determinazione stesse producendo grandi risultati. I doveri amministrativi relativi al comando di ottanta uomini si stavano dimostrando un incubo: raccolta viveri, turni per le latrine, turni di guardia, ispezione delle armi, ispezione della caserma, registro delle punizioni, ricevute per l’approvigionamento degli equipaggiamenti, foraggio per i muli, gestione dei pagamenti, dei risparmi e dei funerali.

    L’unico aiuto a disposizione per eseguire questi compiti era il segretario della centuria, un vecchio rugoso di nome Pisone, che Macrone sospettava di disonestà o di semplice incompetenza. Macrone non aveva modo di scoprirlo da sé visto che era pressoché analfabeta. Cresciuto con solo una rudimentale conoscenza di lettere e numeri, riusciva a riconoscere la maggior parte dei singoli caratteri, ma più di quello era impossibile. E adesso era un centurione, una condizione sociale per cui il saper leggere e scrivere era un prerequisito. Senza dubbio il legato aveva dato per scontato che Macrone sapesse leggere e scrivere nell’approvare la nomina. Se si fosse saputo che non era più letterato di un fattore campano, Macrone sapeva che sarebbe stato retrocesso immediatamente. Finora era riuscito ad aggirare il problema delegando le scartoffie a Pisone e affermando che gli altri suoi incarichi lo tenevano fin troppo occupato, ma era certo che l’impiegato avesse cominciato a sospettare la verità. Scosse la testa e si avviò faticosamente verso il portone della fortezza, avvolgendosi nel mantello rosso.

    Era una notte scura, resa più buia dalle nuvole basse che avevano completamente oscurato il cielo: segno sicuro che la neve era in arrivo. Dal buio circostante, Macrone sentiva giungere quei suoni tipici della vita della fortezza che facevano parte della sua esistenza da ormai quattordici anni.

    I muli ragliavano dalle stalle, poste al limitare di ogni edificio della caserma, e le voci dei soldati che parlavano e gridavano si disperdevano attraverso le finestre illuminate. Il fragore di una risata esplose da una camerata mentre Macrone vi passava davanti, seguito da una più leggera risata femminile. Macrone si fermò e si mise in ascolto. Qualcuno era riuscito a far intrufolare una donna nella base. La donna rise di nuovo e poi cominciò a parlare in latino con una forte inflessione, ma venne prontamente zittita dal suo compagno. Questa era una flagrante infrazione del regolamento, così Macrone si girò bruscamente e fece per mettere mano al chiavistello. Poi si fermò, pensieroso. A rigor di logica, avrebbe dovuto fare irruzione sbraitando come in una piazza d’armi, spedire il soldato in guardina e far buttare fuori la donna dalla base. Ma ciò equivaleva a riempire un’altra voce sul registro delle punizioni: altro dannato scrivere.

    Stringendo i denti, Macro allentò la presa e silenziosamente tornò in strada, proprio mentre la donna lanciava un’altra risata stridula, che gli punzecchiò la coscienza. Una rapida occhiata per accertarsi che nessun altro fosse lì ad assistere alla sua mancata reazione e Macrone si affrettò verso la porta sud. Dannato soldato, si meritava una buona dose di calci, e se fosse appartenuto alla centuria di Macrone avrebbe ricevuto un bel trattamento: nessuna scartoffia, solo un bel calcio nelle palle in modo che la punizione fosse adatta al crimine. Per di più, dalla voce non poteva che trattarsi di una di quelle sudicie sgualdrine germaniche provenienti dall’insediamento di indigeni che si estendeva disordinatamente proprio fuori della base. Macrone si consolò con il pensiero che il legionario in questione si sarebbe preso la sua bella razione di scolo.

    Nonostante le strade fossero buie, Macrone procedeva istintivamente nella direzione giusta poiché nessuna base di legionari si scostava dalla pianta standardizzata utilizzata per tutti i campi e le fortezze. Nel giro di pochi minuti si ritrovò nella larghissima via Praetoria e, a passo di marcia, si diresse verso le porte, nel punto in cui la strada attraversava le mura per condurre alla parte meridionale della base. La sentinella che aveva interrotto Macrone nella latrina lo aspettava ai piedi delle scale. Lo condusse nel corpo di guardia e da lì su per la stretta scalinata in legno che portava al bastione, dove un braciere ardente inondava di un chiarore rossiccio la postazione della vedetta. Quattro legionari erano accovacciati vicino al fuoco e giocavano a dadi. Non appena videro la testa del centurione apparire sulle scale si misero sull’attenti.

    «Riposo, ragazzi», disse Macrone. «Continuate».

    La porta di legno che conduceva al bastione si spostò verso l’interno per il vento quando Macrone aprì il chiavistello, e il braciere per un attimo scoppiettò mentre usciva e se la richiudeva alle spalle. Lassù, sulla postazione della vedetta, il vento era sferzante e il mantello di Macrone si gonfiò, strattonando la fibbia sulla spalla. Macrone rabbrividì e lo afferrò, avvolgendoselo strettamente attorno al corpo.

    «Dove?».

    La sentinella scrutò tra le merlature nell’oscurità e puntò la lancia in direzione di una luce tremolante che dondolava dal retro di un carro che si stava avvicinando da sud. Sforzando la vista per guardare, nonostante il vento, Macrone riuscì a intravedere la sagoma del carro e, dietro di esso, un gruppo di uomini che arrancava lungo la strada.

    In fondo alla colonna procedeva più ordinatamente la scorta, il cui compito era di impedire a chi era rimasto indietro di rallentare l’andatura. Forse duecento uomini in tutto.

    «Do l’allarme, signore?».

    Macrone si voltò verso la sentinella. «Cosa hai detto?»

    «Do l’allarme, signore?».

    Macrone guardò stancamente l’uomo. Siro era uno dei più giovani della centuria e, nonostante Macrone avesse imparato il nome di gran parte dei suoi sottoposti, sapeva poco dei loro caratteri o delle loro storie.

    «Sei nell’esercito da tanto?»

    «Nossignore. Solo un anno a dicembre».

    Ancora fresco di addestramento, allora, pensò Macrone. Un accanito sostenitore del regolamento, che indubbiamente applicava in ogni circostanza. Con il tempo avrebbe imparato a capire quando si doveva seguire rigidamente la procedura e quando bisognava arrangiarsi per tirare avanti.

    «Allora, perché abbiamo bisogno di dare l’allarme?»

    «Il regolamento, signore. Se un gruppo non identificato di uomini si avvicina al campo in gran numero, si dovrebbe dare l’allarme a chi sta di guardia alle porte e alle mura adiacenti».

    Macrone alzò il sopracciglio per la sorpresa. La risposta era una citazione fedele del regolamento. Siro, era evidente, aveva preso sul serio l’addestramento. «E poi?»

    «Signore?»

    «Cosa succede dopo?»

    «Il centurione di guardia, dopo aver valutato la situazione, stabilisce se dare o meno l’allarme generale», continuò Siro monotono, poi aggiunse frettolosamente: «Signore».

    «Bravo». Macrone sorrise e la sentinella ricambiò, sollevata, prima che Macrone si voltasse nuovamente verso la colonna in avvicinamento. «Dunque, esattamente, quanto credi sia minaccioso quel gruppetto? Ti spaventano, soldato? Credi che tutti e duecento vogliano attaccarci, scalare queste mura e massacrare tutti gli uomini della Seconda Legione... allora? Sì?».

    La sentinella fissò Macrone, guardò attentamente la luce tremolante per qualche attimo e poi si girò. Era visibilmente imbarazzato. «Non credo».

    «Non credo, signore», disse arcigno Macrone, colpendo il ragazzo sulla spalla.

    «Chiedo scusa, signore».

    «Dimmi, Siro. Hai partecipato alla riunione informativa prima di montare la guardia?»

    «Certamente, signore».

    «Hai prestato attenzione a ogni dettaglio?»

    «Credo di sì, signore».

    «Allora ricorderai di avermi sentito dire che l’arrivo di un convoglio di rimpiazzo era previsto alla base, non è vero? Così non avresti dovuto trascinarmi fuori dalla latrina e rovinarmi una bella cacata».

    La sentinella era mortificata e non riusciva a sostenere l’espressione di sufficienza sulla faccia del suo centurione. «Chiedo scusa, signore. Non succederà più».

    «Sarà meglio. Altrimenti avrai turni doppi per il resto dell’anno. Ora fai schierare il resto dei ragazzi davanti alle porte. Mi occuperò io dell’identificazione».

    Rosso di vergogna, Siro fece il saluto e ritornò nel corpo di guardia. Ben presto Macrone poté sentire i rumori delle guardie che si svegliavano e scendevano le scale di legno verso la porta principale. Macrone sorrise. Il ragazzo era un entusiasta e si sentiva in colpa per il proprio errore. Abbastanza in colpa da fare in modo che la cosa non si ripetesse più. Era una buona cosa. Era così che si formavano soldati affidabili: nessuno nasce già addestrato, rifletté Macrone.

    Un’improvvisa folata di vento lo colpì, e andò a ripararsi nel corpo di guardia. Una volta dentro, si mise vicino al braciere ardente ed emise un sospiro di sollievo sentendo il calore pervadergli il corpo. Dopo qualche momento aprì la feritoia e guardò fuori nella notte. Il convoglio ora era più vicino e riusciva a distinguere bene il carro, così come i singoli uomini che procedevano incolonnati. Un misero gruppo di reclute, pensò, senza un grammo di energia. Si capiva dal modo apatico in cui si trascinavano, nonostante la prospettiva di un riparo.

    Poi iniziò a piovere, quasi all’improvviso; larghe gocce cadevano diagonalmente seguendo il vento che sferzava la pelle. Neanche questo riuscì a far accelerare l’andatura del convoglio e, scuotendo sconsolato la testa, Macrone cominciò le formalità. Aprì la finestra principale, vi infilò la testa e si riempì i polmoni.

    «Altolà!», gridò. «Identificatevi!».

    Il carro si fermò a una trentina di metri dalle mura e una figura dietro il conducente si levò per rispondere.

    «Convoglio di rinforzo da Aventicum e scorta, Lucio Batiaco Bestia comandante».

    «Parola d’ordine?», chiese ancora Macrone anche se conosceva Bestia abbastanza bene: era il centurione superiore della Seconda Legione e perciò suo diretto superiore.

    «Istrice. Permesso di avvicinamento?»

    «Accordato, amico».

    Con uno schiocco della frusta il carrettiere spronò i buoi lungo l’erta che conduceva alle porte e Macrone attraversò la stanza per andare alla finestra che si apriva sull’interno del forte. Di sotto, le sentinelle si stringevano ai lati delle porte cercando di evitare la pioggia.

    «Aprite le porte», gridò Macrone. Uno dei soldati tirò rapidamente il chiavistello e gli altri fecero scivolare l’asta nel suo alloggiamento. Con un pesante gemito legnoso le porte si aprirono proprio quando il carro raggiunse la cima dell’erta e l’inerzia lo portò fin dentro alla base. Guardando giù dal corpo di guardia, Macrone vide il carro accostare. Bestia saltò giù dal posto del conducente e agitò il bastone di vite verso il fradicio corteo delle nuove reclute che gli passavano davanti.

    «Avanti, bastardi! Muovetevi! Veloci! Prima entrate, prima vi riscalderete e vi asciugherete».

    Le reclute, che avevano seguito il carro per oltre trecento chilometri, automaticamente cominciarono a girare in tondo attorno a esso. La gran parte indossava mantelli da viaggio e portava i propri pochi averi in coperte legate attorno alle spalle. Le reclute più povere non avevano nulla, alcune neanche il mantello e tremavano penosamente sotto il vento e la pioggia gelata. Nella retroguardia c’era una piccola squadra di forzati in catene che avevano optato per l’esercito piuttosto che restare in prigione.

    Bestia si aprì immediatamente un varco tra la folla crescente facendosi largo con il bastone.

    «Non rimanete lì come un gregge di pecore! Fate largo a dei veri soldati. Andate dall’altro lato della strada e allineatevi rivolti da questa parte. ADESSO!».

    Le ultime reclute attraversarono vacillando le porte e seguirono i compagni per formare una fila irregolare di fronte al carro. Alla fine entrò la scorta a passo di marcia, venti uomini che si fermarono simultaneamente a una sola parola di comando di Bestia. Questi fece una pausa a effetto per sottolineare l’implicito paragone mentre Macrone ordinò alle sentinelle di chiudere le porte e tornare ai propri incarichi. Bestia si rivolse nuovamente alle reclute, gambe divaricate e mani sui fianchi.

    «Quegli uomini», con la testa Bestia fece un cenno oltre la sua spalla, «appartengono alla Seconda Legione – l’Augusta – la più forte dell’intero esercito romano, e voi farete meglio a non dimenticarlo. Non c’è tribù barbara, remota che sia, che non abbia sentito parlare di noi e che non abbia una paura mortale di noi. La Seconda ha ucciso parecchia gentaglia e ha conquistato molti dei loro territori, molto più di ogni altra unità. Siamo stati in grado di farlo perché addestriamo gli uomini a essere i guerrieri più formidabili, più sleali, più duri del mondo civilizzato... Voi, invece, siete uno smidollato mucchio di merda senza valore. Non siete neanche uomini. Siete la più fottutamente bassa forma di vita che abbia il diritto di chiamarsi romana. Vi disprezzo dal primo all’ultimo, fottuti bastardi, ed estirperò ogni inutile rifiuto, così che solo i migliori potranno unirsi alla mia amata Seconda Legione e servire sotto la nostra aquila. Vi ho tenuti d’occhio da Aventicum e, signorine, non sono impressionato. Vi siete arruolati e ora siete tutti miei. Io vi addestrerò, vi farò male, vi renderò degli uomini. Poi, se e quando deciderò che siete pronti, vi lascerò diventare dei legionari. Se c’è qualcuno che non mi darà fino all’ultimo briciolo di energia e impegno, allora lo spezzerò: con questo». Tenne sollevato il nodoso bastone di vite perché tutti potessero vederlo. «Avete capito, pezzi di merda?».

    Dalle reclute si levò un mormorio di assenso; alcuni erano talmente stanchi che si limitarono ad annuire.

    «Cosa sarebbe questo?», urlò Bestia rabbiosamente. «Cazzo, riesco a malapena a sentirvi!».

    Si avvicinò alla folla e afferrò rudemente una recluta per il collo del mantello. Macrone si accorse che era vestito in modo diverso dagli altri. Il taglio del suo mantello era inconfondibilmente costoso, pur se incrostato di fango. Era più alto degli altri, ma esile e dall’aspetto delicato: la vittima perfetta, che poteva essere d’esempio per tutti.

    «Cosa diavolo è questo? Cosa diavolo ci fa una recluta con un mantello che neanche io posso permettermi? L’hai rubato, ragazzo?»

    «No», rispose con calma la recluta. «Me lo ha dato un amico».

    Bestia colpì con il bastone lo stomaco del ragazzo e la recluta si piegò in due accasciandosi al suolo, con le mani che affondavano in una pozzanghera. Bestia gli stava addosso con il bastone sollevato, pronto a colpirlo nuovamente.

    «Ogni volta che apri la bocca devi chiamarmi signore! Intesi?».

    Macrone guardò il giovane che ansimava nel tentativo di rispondere, poi Bestia fece calare il bastone sulla sua schiena e il ragazzo gemette.

    «Ho detto, hai capito?»

    «Sì, s-signore!», gridò la recluta.

    «Più forte!».

    «SÌ, SIGNORE!».

    «Così va meglio. Ora vediamo cos’altro hai».

    Il centurione afferrò la coperta avvololtolata e con uno strattone la aprì. Il contenuto si riversò sul suolo fangoso: alcuni vestiti di ricambio, una fiaschetta, del pane, due rotoli di pergamena e un set da scrittura rilegato in pelle.

    «Ma che...?». Il centurione fissò questi ultimi oggetti. Poi, lentamente, alzò lo sguardo sulla nuova recluta. «Questo cos’è?»

    «Il mio materiale da scrittura, signore!».

    «Materiale da scrittura? Cosa ci fa un legionario con del materiale da scrittura?»

    «Ho promesso ai miei amici di Roma che avrei scritto, signore».

    «I tuoi amici?». Bestia sogghignò. «Nessuna madre a cui scrivere? Nessun padre, eh?»

    «Morto, signore».

    «Sai il suo nome?»

    «Certo, signore. Era...».

    «Silenzio!», lo interruppe Bestia. «Me ne sbatto di chi era. Qui, per quanto mi riguarda, siete tutti dei bastardi. Allora, qual è il tuo nome, bastardo?»

    «Quinto Licinio Catone... signore».

    «Bene, allora, Catone, conosco solo due tipi di legionari che sanno scrivere: le spie e coloro che credono di essere così maledettamente meravigliosi da diventare ufficiali. Quale dei due sei tu?».

    La recluta lo guardò cautamente. «Nessuno dei due, signore».

    «Allora non ti serve questa roba, non è vero?». Bestia diede un calcio al set da scrittura e ai rotoli, facendoli finire vicino al fosso di scolo al centro della strada.

    «Attenzione, signore!».

    «Cosa hai detto?». Il centurione fece un giro su se stesso, il bastone pronto all’uso. «Cosa mi hai detto?»

    «Ho detto attenzione, signore. Uno di quei rotoli è un messaggio personale per il legato».

    «Un messaggio personale per il legato! Bene, io...».

    Sogghignando, Macrone vide che il brizzolato centurione era rimasto per un momento senza parole. Le aveva già sentite tutte, ogni scusa, ogni spiegazione; ma questa no. Cosa diavolo ci faceva una recluta con una lettera per il legato? Un mistero di prim’ordine, tale da far saltare Bestia sulla sella. Non per molto, tuttavia: il centurione infilzò il bastone tra i rotoli.

    «Bene, dannazione, raccogli quella roba e portala qui. Non sei nemmeno arrivato e già stai incasinando la base! Fottute reclute», borbottò. «Mi fate vomitare. Be’, mi hai sentito. Raccogli!».

    Mentre l’alta recluta si chinava per recuperare i suoi averi, Bestia abbaiò una serie di ordini, assegnando gruppi di reclute ai membri della scorta affinché conducessero ciascuno alla propria unità.

    «Adesso, muoversi! NON TU!», urlò Bestia alla recluta solitaria, che era riuscita a infilare nuovamente i suoi averi nell’involto e si stava dirigendo verso la sicurezza dei commilitoni, fermi sotto la pioggia scrosciante. «Qui! Cosa guardate voi altri?».

    I legionari della scorta cominciarono a rimproverare gli uomini di cui dovevano occuparsi. Mentre le reclute venivano radunate in gruppi, Bestia afferrò il rotolo che Catone gli porgeva. Facendo attenzione a ripararlo dalla pioggia il più possibile, lesse l’indirizzo impresso sulla cera. Controllò anche il sigillo, ricontrollò l’indirizzo e si fermò un istante per valutare la mossa successiva. Per caso, alzò lo sguardo verso la porta e vide Macrone sogghignare. Questo risolveva la faccenda.

    «Macrone! Porta il culo quaggiù».

    Qualche istante dopo Macrone era fermo sull’attenti di fronte a Bestia, con gli occhi socchiusi per difendersi dalla pioggia che gocciolava dall’orlo dell’elmo.

    «Sembra autentico». Bestia agitò il rotolo sotto il naso del giovane ufficiale. «Voglio che tu prenda questo e che scorti il nostro amico fino al quartier generale».

    «Sono di guardia».

    «Bene, allora ti sollevo dall’incarico fino a quando torni. Muoviti».

    Bastardo! Macrone imprecò silenziosamente. Bestia non aveva idea dell’importanza della lettera, non sapeva neppure se fosse autentica. Ma non osava assumersi il rischio. Le comunicazioni ai legati prendevano strane strade in quei giorni, persino quando provenivano dalle fonti più in alto. Meglio lasciare che qualcun altro si prendesse il biasimo se la lettera si fosse dimostrata priva di valore.

    «Sissignore», rispose Macrone amaramente, prendendo il rotolo.

    «Non metterci troppo, Macrone. Ho un letto caldo che mi aspetta».

    Bestia si diresse a grandi passi verso il corpo di guardia e si arrampicò su per le scale che portavano al riparo della postazione. Macrone lo seguì con lo sguardo. Poi si girò per guardare meglio la nuova recluta a causa della quale avrebbe dovuto fare un lungo tragitto fino agli edifici del quartier generale sotto la pioggia battente. Dovette alzare la testa per studiare il ragazzo, che era quasi trenta centimetri più alto di lui. Il bordo del mantello da viaggio lasciava intravedere una zazzera di capelli neri che la pioggia aveva scompigliato in ciocche disordinate. Sotto la fronte liscia, un paio di penetranti occhi marroni profondamente incavati luccicavano ai lati di un naso lungo e sottile. La bocca del ragazzo era serrata, ma il labbro inferiore tremava leggermente. Nonostante gli abiti fossero zuppi e incrostati di fango dopo il lungo viaggio dal centro di addestramento di Aventicum, apparivano di qualità sorprendentemente buona. E poi il set da scrittura, i libri e quella lettera per il legato... Be’, quel ragazzo era diverso. Evidentemente conosceva bene il denaro, ma allora, perché diavolo era entrato nell’esercito?

    «Catone, giusto?»

    «Sì».

    «Anch’io vengo chiamato signore», sorrise Macrone.

    Catone si irrigidì in un approssimativo attenti e Macrone rise. «Riposo, ragazzo. Riposo. Non sei in rassegna fino a domani mattina. Adesso andiamo a consegnare questa lettera».

    Macrone spinse gentilmente il ragazzo in direzione del centro della base, dove gli edifici del quartier generale si stagliavano in lontananza. Camminando, guardò per la prima volta la lettera con attenzione ed emise un sottile fischio.

    «Sai cos’è questo sigillo?»

    «Sì, signore. Il sigillo imperiale».

    «E perché il servizio imperiale userebbe una recluta come corriere?»

    «Non ne ho idea, signore», rispose Catone.

    «Chi è il mittente?»

    «L’imperatore».

    Macrone soffocò un’esclamazione. Ora sì che il ragazzo suscitava tutta la sua attenzione. Perché diavolo l’imperatore mandava un dispaccio tramite una dannata recluta? A meno che non ci fosse qualcos’altro nel ragazzo che non saltava all’occhio. Macrone decise che un approccio insolitamente premuroso sarebbe stato l’ideale se voleva saperne di più.

    «Scusa se te lo chiedo, ma cosa ci fai qui?»

    «Cosa ci faccio qui, signore? Mi sono arruolato nell’esercito, signore».

    «Ma perché?», insisté Macrone.

    «È per mio padre, signore. Era nel servizio imperiale prima di morire».

    «Cosa faceva?».

    Quando il ragazzo non rispose, Macrone si voltò e vide che aveva la testa bassa e un’espressione turbata.

    «Allora?»

    «Era uno schiavo, signore». L’imbarazzo dell’ammissione era evidente, persino per un tipo rozzo come Macrone. «Prima che Tiberio lo affrancasse. Io nacqui poco prima».

    «Questa sì che è sfortuna», lo compatì Macrone: lo status di liberto non si estendeva agli eredi. «Immagino che tu sia stato affrancato subito dopo. Tuo padre ti ha comprato?»

    «Non gli fu permesso, signore. Per qualche ragione Tiberio non ha voluto. Mio padre è morto qualche mese fa. Nelle sue ultime volontà pregò che io fossi liberato a condizione che continuassi a servire l’impero. L’imperatore Claudio acconsentì, posto che entrassi nell’esercito, ed eccomi qui».

    «Uhmmmm. Non proprio un affare».

    «Non sono d’accordo, signore. Sono libero ora. Meglio che essere uno schiavo».

    «Lo credi davvero?». Macrone sorrise. Sembrava un cambio di status piuttosto svantaggioso: dagli agi del palazzo alla durezza della vita militare, con il rischio di perdere la vita ed essere fatti a pezzi in battaglia. Macrone aveva sentito dire che alcuni dei più agiati e potenti uomini di Roma erano schiavi o liberti impiegati nel servizio imperiale.

    «A ogni modo, signore», concluse Catone, con una vena di amarezza, «non ho avuto alcuna possibilità di scelta a riguardo».

    Capitolo Due

    Le guardie al cancello del quartier generale incrociarono le lance quando due figure emersero dall’oscurità. Uno aveva l’elmo piumato da centurione e l’altro era un giovane malconcio. Avanzarono nel cono di luce tremolante delle torce fissate nel portico.

    «Parola d’ordine?», chiese una guardia facendo un passo avanti.

    «Istrice».

    «La vostra richiesta, signore?»

    «Questo ragazzo ha un dispaccio per il legato».

    «Solo un momento, signore». La guardia scomparve nel cortile interno lasciandoli sotto lo sguardo vigile degli altri tre, uomini di corporatura massiccia, scelti appositamente per la compagnia di guardie del corpo del legato.

    Macrone sciolse la cinghia sotto il mento, si tolse l’elmo e se lo infilò sotto un braccio, preparandosi a incontrare un ufficiale superiore. Catone spinse indietro il cappuccio e con le mani si sistemò da un lato i capelli disordinati.

    Mentre aspettavano, Macrone si accorse che il giovane cercava di mostrarsi fiero nonostante tremasse. Macrone sentì un moto di simpatia, e gli tornarono alla memoria le proprie sensazioni al momento dell’arruolamento: l’eccitazione mista alla paura per l’ingresso in un mondo del tutto nuovo, con le sue regole rigide, i suoi pericoli, la vita dura lontana dagli agi della sua casa dell’infanzia.

    Catone era impegnato a strizzarsi il mantello fradicio e presto ai piedi del ragazzo si formò una pozzanghera.

    «Smettila!», scattò Macrone. «Stai facendo un pasticcio. Ti asciugherai dopo».

    Catone alzò lo sguardo, le mani strette attorno a un lembo del mantello. Era sul punto di ribattere quando si rese conto che tutti i soldati lo stavano guardando con seria disapprovazione.

    «Mi dispiace terribilmente», mormorò e lasciò andare l’orlo del mantello.

    «Ascolta, ragazzo», disse Macrone il più gentilmente possibile. «Nessuno fa caso a un soldato malconcio se non è colpa sua. Ma quello che dà fastidio è un soldato che si agita e si dimena. È una cosa che fa ammattire l’esercito. Dico bene, ragazzi?». Si girò verso le guardie che annuirono energicamente. «Perciò, da ora in poi, basta cincischiare. Abituati a rimanere fermo e ad aspettare. Scoprirai che è questo ciò che facciamo per la maggior parte del tempo».

    Le guardie sospirarono solidali.

    Un rumore di passi proveniente dal cortile interno li avvertì che la guardia era tornata al portico.

    «Signore, vi prego, seguitemi. Anche il ragazzo».

    «Il legato vuole vederci?»

    «Non lo so, signore. Mi è stato ordinato di scortarvi prima dal tribuno superiore. Da questa parte, prego».

    Li condusse attraverso un largo arco che si apriva su un cortile circondato da un porticato. La pioggia zampillava giù per le tegole nelle grondaie che la convogliavano fuori dall’edificio. La guardia fece percorrere loro l’intero perimetro del cortile fino a che giunsero davanti a un’altra entrata, dalla parte opposta del portico. Oltre quella porta, l’edificio si apriva su un grande atrio con uffici disposti lungo i lati, a eccezione della parete opposta dove una tenda viola nascondeva alla vista il sacrario della Legione. Due portavessillo con le spade sguainate stavano sull’attenti di fronte alla tenda. La guardia girò a sinistra, si fermò fuori da una porta e bussò due volte.

    «Avanti», disse una voce e la guardia aprì velocemente le porte. Macrone fu il primo a entrare, e fece cenno a Catone di seguirlo. La stanza era stretta, ma abbastanza lunga da ospitare uno scrittoio accostato a una parete e uno scaffale per i rotoli di pergamena in fondo. Un braciere ardeva proprio al centro della stanza, riempiendola di un tepore stantio.

    Seduto allo scrittoio c’era un tribuno. Macrone lo conosceva di vista: Aulo Vitellio, un ex dongiovanni a Roma, ma ora sulla via di una carriera politica che iniziava con il comando di una legione. Vitellio era un uomo in sovrappeso e dalla carnagione olivastra, che tradiva la sua provenienza dall’Italia Meridionale. Quando i visitatori entrarono, spinse indietro la sedia e si rivolse a loro.

    «Dov’è questa lettera?». La voce era profonda e venata di impazienza.

    Macrone gliela porse e fece un passo indietro. Catone rimase silenzioso al suo fianco, accanto al braciere. Un lieve sorriso di soddisfazione gli increspò le labbra quando fu pervaso dal calore e il tremito cessò.

    Vitellio diede una rapida occhiata alla lettera e poi fece scorrere le dita sul sigillo imperiale, consumato dalla curiosità.

    «Sai di cosa si tratta?»

    «Il ragazzo dice che...».

    «Non lo sto chiedendo a te, centurione... Ebbene?»

    «Credo che sia una lettera personale da parte dell’imperatore Claudio, signore», rispose Catone.

    L’accento che Catone pose su personale non sfuggì al tribuno, che fissò il ragazzo con uno sguardo gelido.

    «E cosa credi che possa esserci di così personale da convincere l’imperatore ad affidare la consegna a te?»

    «Non lo so, signore».

    «Proprio così. Perciò penso che tu possa lasciarmela tranquillamente. Farò in modo che il legato la riceva a tempo debito. Siete congedati».

    Macrone si diresse immediatamente verso la porta, ma la giovane recluta esitò. «Scusate, signore. Il rotolo?».

    Vitellio lo guardò sconcertato mentre Macrone afferrava rapidamente il giovane per un braccio.

    «Andiamo via, ragazzo. Il tribuno è un uomo molto impegnato».

    «Mi è stato detto di consegnare personalmente il rotolo, signore».

    «Come osi», disse piano Vitellio, aggrottando le sopracciglia mentre i riflessi del braciere guizzavano nei suoi occhi scuri.

    Per un momento Macrone assisté allo scambio di occhiate: il tribuno che si sforzava di contenere l’ira, e il ragazzo timoroso ma spavaldo. Poi gli occhi del tribuno lampeggiarono in direzione del centurione, che si sforzò di atteggiare le labbra in un sorriso.

    «Va bene, allora, personalmente sia». Vitellio si alzò tenendo in mano il rotolo. «Venite con me».

    Vitellio li condusse, lungo un breve passaggio, in un’anticamera dove il segretario personale del legato lavorava a una scrivania accanto a una grande porta decorata. Il segretario alzò la testa sentendoli arrivare e, vedendo Vitellio, si alzò stancamente in piedi.

    «Posso vedere il legato?», chiese energicamente Vitellio.

    «È urgente, signore?»

    «Dispaccio imperiale». Vitellio tenne la lettera in modo che il sigillo fosse visibile. All’istante il segretario bussò all’ufficio del legato ed entrò senza aspettare risposta, chiudendosi la porta alle spalle. Ci fu silenzio per un momento e poi la porta si aprì di nuovo. Il segretario invitò Vitellio a entrare e alzò una mano per fermare gli altri due. Da fuori, Macrone riusciva a sentire una voce concitata, interrotta dai rari monosillabi di Vitellio. La strigliata fu misericordiosamente breve, ma il tribuno fece in modo di scoccare un’occhiata fredda e ostile al centurione quando uscì dall’ufficio per tornare nel proprio.

    «Vi riceverà adesso». Il segretario gli fece cenno di entrare.

    Macrone ribolliva di silenziosa rabbia contro Bestia.

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