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Il sangue dell'Impero
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E-book554 pagine7 ore

Il sangue dell'Impero

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Info su questo ebook

Scarrow è leggenda

Se non conosci Scarrow, non conosci Roma

Da quasi dieci anni i soldati di Roma combattono incessantemente per rafforzare il dominio dell’Impero in Britannia.
Eppure il feroce guerriero Carataco continua a guidare la strenua opposizione delle tribù barbare. Adesso il prefetto Catone e il centurione Macrone sono stati convocati dal governatore Ostorio a Londinium. Ma li attende una missione impossibile: dovranno avanzare nel cuore della regione oggi conosciuta come Galles e sbaragliare le forze della resistenza locale. Con i piani ambiziosi di Carataco da una parte, e il malcontento e la disillusione che serpeggiano tra i legionari dall’altra, i soldati dell’Urbe sono veramente chiamati alla prova definitiva, quasi oltre i limiti umani. Perché non ci sono solo i selvaggi guerrieri delle tribù, incitati dalle arti oscure dei sanguinari druidi: negli avamposti più sperduti dell’esercito, alcuni Romani sono diventati più brutali e spietati dei barbari che stanno combattendo…

Una nuova avventura attende i centurioni Catone e Macrone, strenui difensori della grandezza di Roma
Un autore bestseller 
Oltre 200.000 copie in Italia

«Tra gli stranieri da registrare: il nigeriano Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«L'azione è incalzante e frenetica, la tensione altissima, i dettagli vividi e feroci. È storia al massimo livello.»
Telegraph
Simon Scarrow
Vive in Inghilterra. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicati in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi e internazionali. Macrone e Catone sono i protagonisti di: La profezia dell’aquila, Sotto l ’aquila di Roma, Il gladiatore, Roma alla conquista del mondo, La spada di Roma, La legione, Roma o morte, Il pretoriano, La battaglia finale, L’aquila dell’impero e Il sangue dell'impero, tutti pubblicati dalla Newton Compton. In ebook sono disponibili i volumi della serie “Roma Arena Saga”: La conquista, La sfida, La spada del gladiatore, La rivincita e Il campione.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2014
ISBN9788854173590
Il sangue dell'Impero
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Il sangue dell'Impero - Simon Scarrow

    en

    821

    Tutti i personaggi di questo romanzo, tranne quelli chiaramente storici, sono immaginari e qualunque analogia con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titolo originale: The Blood Crows

    Copyright © 2013 Simon Scarrow

    The right of Simon Scarrow to be identified as the Author of the Work has been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    First published in the English language in Great Britain in 2013 by HEADLINE PUBLISHING GROUP

    Traduzione dall’inglese di Elisabetta Colombo (capp. 1-24) e Gian Paolo Gasperi (capp. 25-Nota dell’autore)

    Prima edizione ebook: novembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7359-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Simon Scarrow

    Il sangue dell'Impero

    omino

    Newton Compton editori

    Al mio migliore amico, il più fedele,

    Murray Jones

    catenacomando

    La catena di comando dell'esercito romano.

    BREVE INTRODUZIONE ALL’ESERCITO ROMANO

    La Quattordicesima Legione, come tutte le legioni, era composta da cinquemilacinquecento uomini. L’unità base era la centuria, costituita da ottanta uomini e comandata da un centurione. La centuria si suddivideva in gruppi di otto uomini che condividevano una stessa stanza nella caserma e una stessa tenda durante le campagne militari. Sei centurie formavano una coorte e dieci coorti una legione; la Prima Coorte contava il doppio degli uomini rispetto alle altre. Ogni legione era accompagnata da un reparto di cavalleria di centoventi uomini, suddivisi in quattro squadroni, che svolgevano le funzioni di esploratori e messaggeri. In ordine decrescente, la gerarchia militare prevedeva i seguenti gradi.

    Il legato, una persona di origini aristocratiche, intorno ai trentacinque anni di età. Il legato rimaneva al comando della legione per cinque anni, tentando di distinguersi per poter poi accedere a una successiva carriera politica.

    Il prefetto del campo, in genere un veterano, già centurione capo della legione, all’apice della carriera professionale militare. Era un ufficiale di grande esperienza e integrità, pronto ad assumere il comando della legione in assenza del legato.

    Sei tribuni formavano lo stato maggiore della legione. Si trattava solitamente di giovani ufficiali che avevano da poco passato la ventina, al primo incarico nell’esercito, che doveva servire loro ad accumulare un’adeguata esperienza amministrativa prima di occupare posti subalterni nell’amministrazione civile. Faceva eccezione il tribuno anziano, destinato a un alto incarico politico e, successivamente, al comando della legione.

    Sessanta centurioni rappresentavano la spina dorsale della legione, di cui curavano la disciplina e l’addestramento. Venivano selezionati per l’attitudine al comando ed erano pronti a sacrificare la propria vita per l’esercito. Per questo motivo, la mortalità tra le loro file superava di gran lunga quella di altri ranghi. Il centurione più anziano comandava la Prima Centuria della Prima Coorte ed era un ufficiale pluridecorato e profondamente rispettato.

    I quattro decurioni della legione comandavano gli squadroni di cavalleria. Tuttavia, è possibile che ci fosse anche un centurione al comando supremo del contingente a cavallo della legione, sebbene la questione sia ancora oggetto di dibattito.

    Ogni centurione era affiancato da un optio, che aveva il ruolo di attendente, con incarichi di comando di minore importanza. Gli optiones aspettavano un posto vacante nel centurionato.

    Sotto gli optiones c’erano i legionari, uomini che si arruolavano e prestavano servizio per venticinque anni. In teoria, solo i cittadini romani potevano iscriversi alle liste di arruolamento, ma le popolazioni locali fornivano all’esercito un numero sempre crescente di reclute, che al momento dell’arruolamento ottenevano automaticamente la cittadinanza romana. I legionari avevano un buon salario e, di tanto in tanto, potevano contare su speciali gratifiche dall’imperatore (quando la loro lealtà aveva bisogno di essere consolidata!).

    Il grado più basso, al di sotto dei legionari, era occupato dagli uomini delle coorti ausiliarie. Venivano reclutati nelle province e fornivano all’impero romano cavalleria, fanteria leggera e altre competenze specialistiche. Al termine dei venticinque anni di servizio, venivano ricompensati con la cittadinanza romana. Le unità di cavalleria, come la Seconda Coorte Tracia, contavano approssimativamente cinquecento o mille uomini, comandati da generali con un alto grado di esperienza e competenza. Esistevano anche coorti miste, formate da un terzo di cavalieri e due terzi di fanti, impiegate per presidiare il territorio circostante.

    britannia

    La Britannia nel 51 a.C.

    CAPITOLO UNO

    Febbraio, 51 d.C.

    La colonna di cavalieri arrancava lungo il sentiero che conduceva alla cima della piccola altura quando il comandante alzò una mano segnalando di fermarsi, e tirò le redini. La pioggia recente aveva trasformato il terreno in una distesa sconnessa e dissestata di fango appiccicoso, e i destrieri della cavalleria sbuffavano e ansimavano, mentre i loro zoccoli venivano catturati dal pantano. Nell’aria fresca risuonava lo scalpiccio bagnato dei cavalli che rallentavano per poi fermarsi, soffiando sbuffi di fiato umido. Il comandante indossava uno spesso mantello rosso sopra il pettorale splendente, attraversato da bande annodate che stavano a indicare il suo grado. Era il legato Quintato, comandante della Quattordicesima Legione, responsabile della difesa della frontiera occidentale della provincia della Britannia, recentemente annessa all’impero.

    Non era un compito facile, rifletté amaramente fra sé. Erano passati ormai otto anni da quando l’esercito era sbarcato sull’isola che si trovava ai confini del mondo conosciuto. A quel tempo, Quintato era un tribuno poco più che ventenne, pervaso dal senso del dovere e dal desiderio di conquistare gloria per se stesso, per Roma e per il nuovo imperatore Claudio. L’esercito si era fatto strada combattendo verso l’entroterra, sconfiggendo la potente forza messa insieme dalle tribù indigene, sotto il comando di Carataco. Battaglia dopo battaglia, avevano sopraffatto i nativi, finché, alla fine, le legioni erano riuscite ad annientare i guerrieri dopo una strenua, ultima resistenza davanti alla loro capitale, Camulodunum.

    Lo scontro era sembrato decisivo a quel tempo. Lo stesso imperatore era giunto per assistere alla vittoria. E ne aveva rivendicato il pieno merito. Dopo che i capi di gran parte delle tribù native avevano stretto accordi con l’imperatore, Claudio era tornato a Roma per reclamare il suo trionfo e annunciare alla folla che la conquista della Britannia era completata. Solo che non era vero. Il legato si accigliò. Tutt’altro. La battaglia finale non aveva piegato la volontà di Carataco di resistere. Gli aveva semplicemente insegnato che era avventato scatenare i propri valorosi ma scarsamente addestrati guerrieri contro le legioni, in una lotta all’ultimo sangue. Il capo dei Britanni aveva imparato a giocare più astutamente, tendendo imboscate alle colonne romane e inviando gruppi di rapidi incursori a razziare le linee di rifornimento e gli avamposti delle legioni. C’erano voluti sette anni di campagne per spingere Carataco tra le montagne inespugnabili in cui vivevano le tribù dei Siluri e degli Ordovici. Erano genti bellicose, spronate dalla furia fanatica dei druidi, e determinate a resistere alla potenza di Roma fino all’ultimo respiro. Avevano accettato Carataco come loro comandante e quel nuovo polo della resistenza aveva attratto da ogni angolo dell’isola guerrieri che nutrivano un profondo disprezzo per Roma.

    Era stato un inverno rigido, i venti freddi e la pioggia ghiacciata avevano costretto l’esercito romano a limitare le proprie attività durante i lunghi mesi bui. Solo verso la fine della stagione, le basse nubi e la foschia si erano diradate nelle regioni montagnose oltre la frontiera, permettendo alle legioni di riprendere la campagna contro i nativi. Il governatore della provincia, Ostorio Scapula, aveva ordinato alla Quattordicesima di spingersi nelle valli boschive e costruire una catena di forti. Sarebbero serviti come basi per l’offensiva principale, prevista in primavera. Il nemico aveva risposto con una rapidità e una ferocia che avevano sorpreso il legato Quintato, attaccando gran parte delle schiere che egli aveva inviato nelle sue terre. Due coorti di legionari, quasi ottocento uomini. Il tribuno al comando della colonna aveva inviato un cavaliere al legato nel momento in cui era iniziato l’attacco, richiedendo sostegno immediato. Alle prime luci del mattino, Quintato aveva guidato il resto della legione fuori dalla base di Glevum e mentre gli uomini si avvicinavano al forte, lui era andato avanti in ricognizione insieme a una scorta, con il cuore oppresso dal timore al pensiero di ciò che avrebbero potuto trovare.

    Al di là della piccola altura si stendeva la vallata che si addentrava nei territori dei Siluri. Il legato tese le orecchie, sforzandosi di non prestare attenzione ai rumori dei cavalli alle sue spalle. Ma non riusciva a udire alcun suono davanti a sé. Né i colpi sordi e ritmici delle asce dei legionari che abbattevano gli alberi per procurare legname, per la costruzione del forte e per creare un ampio cordone di terra sgombra intorno al fosso perimetrale; né le voci dei soldati che riecheggiavano lungo i declivi su entrambi i lati della vallata. E nemmeno il rumore della battaglia.

    «Siamo arrivati troppo tardi», mormorò a mezza voce. «Troppo tardi».

    Si irritò per non essere riuscito a tenere per sé i suoi timori e si guardò rapidamente intorno, nel caso le sue parole fossero state udite. Gli uomini della scorta più vicini a lui sedevano impassibili in sella. No, si corresse. Non impassibili. C’era ansia nei loro sguardi, mentre gli occhi saettavano lungo il paesaggio circostante alla ricerca di qualche traccia del nemico. Il legato tirò un profondo respiro rincuorante e fece un ampio gesto in avanti con il braccio, colpendo leggermente i fianchi del c\avallo con i calcagni. Il destriero avanzò, muovendo a scatti le orecchie appuntite, come se percepisse il nervosismo del suo padrone. Il sentiero tornò in piano e, un attimo più tardi, il cavaliere in testa alla colonna ebbe la visuale sgombra sull’imboccatura della vallata.

    Il cantiere si trovava a circa un miglio di distanza. Un ampio spiazzo era stato sgombrato dai pini e i ceppi si stagliavano come denti rotti nella terra smossa. Il profilo del forte si distingueva ancora, ma nel punto in cui avrebbero dovuto esserci un profondo fossato, un bastione e le palizzate, c’era soltanto un mucchio disordinato di legname bruciato, insieme a carri carbonizzati e ai resti delle file di tende, le cui protezioni in pelle di capra erano state strappate e calpestate nel fango. Molti settori del baluardo erano stati distrutti e il terreno e le fondamenta di legno erano crollati nel fossato. C’erano anche dei corpi: uomini, muli e cavalli. I cadaveri erano stati spogliati e, vista da quella distanza, la carne pallida rievocò alla mente del legato l’immagine delle larve. Rabbrividì al pensiero e lo allontanò in fretta dalla sua testa. Sentì gli uomini trattenere il fiato davanti a quello spettacolo e udì qualcuno borbottare imprecazioni, osservando la scena. Il suo cavallo rallentò e si fermò, e Quintato piantò rabbiosamente i talloni nei fianchi dell’animale, facendo schioccare le redini per spronarlo al galoppo.

    Non c’erano segni di pericolo. Il nemico aveva portato a termine il lavoro molte ore prima e se n’era andato con la vittoria e il bottino in tasca. Erano rimaste solo le rovine del forte, i carri e i morti. Quelli, e i corvi che si cibavano delle carogne. Quando i cavalieri scesero lungo il sentiero, gli uccelli si alzarono in volo all’improvviso, riempiendo l’aria con il loro gracchiare allarmato, mentre erano costretti ad abbandonare la loro macabra festa. Volteggiarono in cielo come lembi di stoffa scura catturati da un vento di tempesta e invasero le orecchie del legato con il loro sgradevole verso.

    Quintato fece rallentare il cavallo quando raggiunse i resti del cancello principale. Le torri di legno del forte erano state le prime strutture a essere erette. Ora erano ridotte a intelaiature carbonizzate, dalle quali si levavano ancora sottili volute di fumo che si stagliavano contro lo sfondo di rocce e alberi che coprivano i fianchi delle colline, prima di fondersi con le basse e incombenti nuvole grigie. Su entrambi i lati, il fossato terminava agli angoli del forte, dove si trovavano i resti delle torri. Facendo schioccare la lingua, il legato condusse il cavallo oltre il corpo di guardia in rovina. Dalla parte opposta, era situato il bastione e il cordone di terreno aperto all’interno delle difese. Al di là, si trovava ciò che era rimasto delle file di tende e il primo dei corpi accatastati in un piccolo mucchio. Spogliati dell’armatura, della tunica e degli stivali, gli uomini giacevano scomposti, contusi e imbrattati del sangue colato dalle oscure fauci delle ferite che li avevano uccisi. Si potevano osservare tagli più piccoli e lacerazioni nella carne, dove i becchi dei corvi erano entrati in azione, e diversi cadaveri avevano cavità insanguinate al posto degli occhi, strappati via dagli uccelli. Alcune teste erano state spiccate dal busto e i monconi del collo erano incrostati di sangue rappreso e annerito.

    Mentre Quintato osservava i legionari caduti, uno dei suoi ufficiali di stato maggiore gli si affiancò lentamente con il cavallo, annuendo cupo.

    «Pare che alcuni dei nostri uomini si siano battuti, almeno».

    Il legato non diede segno di aver recepito l’osservazione. Era semplice immaginare gli ultimi istanti di quegli uomini, che avevano combattuto schiena a schiena, tenendo duro fino alla fine. Poi, quando anche l’ultimo dei feriti era stato abbattuto, i nemici li avevano spogliati di armi ed equipaggiamento. Ciò che sarebbe potuto tornare utile a Carataco e ai suoi guerrieri sarebbe stato conservato, il resto gettato nel fiume più vicino o bruciato, per evitare che i Romani lo riportassero nei magazzini della Quattordicesima Legione. Quintato sollevò lo sguardo e osservò il forte. Altri corpi giacevano in mezzo alle tende distrutte, isolati o in piccoli gruppi, a indicare il caos che si era creato quando i guerrieri nemici si erano aperti un varco nelle difese completate per metà.

    «Ordino agli uomini di smontare da cavallo e cominciare a seppellire i corpi, signore?».

    Quintato si voltò a guardare il tribuno, e ci volle un momento perché la domanda penetrasse i suoi cupi pensieri. Scosse la testa. «Lasciali lì finché non arriva il resto della legione».

    L’ufficiale più giovane parve sorpreso. «Sei sicuro, mio signore? Temo che potrebbero nuocere al morale degli uomini. È già abbastanza basso».

    «So bene com’è il morale dei miei uomini, grazie», replicò in malo modo il legato. Si calmò immediatamente. Il tribuno era arrivato da Roma solo di recente, con la sua armatura splendente e desideroso di mettere in pratica la dottrina militare che aveva appreso attraverso racconti di seconda e terza mano. Quintato ricordò che lui non si era comportato diversamente, quando si era unito alla sua prima legione. Si schiarì la gola e si sforzò di parlare in tono pacato.

    «Lascia che gli uomini vedano i corpi». Molti dei soldati si erano uniti da poco alla Quattordicesima, sostituti che erano arrivati sulla prima nave salpata dalla Gallia non appena le tempeste invernali erano finite. «Voglio che capiscano quale sarà il loro destino se permetteranno al nemico di sconfiggerci».

    Il tribuno ebbe un attimo di esitazione prima di annuire. «Ai tuoi ordini».

    Quintato spronò dolcemente il cavallo al passo, e proseguì verso il cuore del forte. Morte e distruzione si estendevano su entrambi i lati dell’ampio e fangoso tracciato che passava attraverso le rovine, intersecato da una seconda via che lo tagliava ad angolo retto. Si avvicinò a ciò che rimaneva della tenda di comando della coorte. Accanto a essa c’era un altro cumulo di cadaveri e il legato sentì un brivido freddo corrergli lungo la spina dorsale, quando riconobbe il viso di Salvio, il centurione anziano di una delle coorti. Il veterano dai capelli grigi giaceva sulla schiena, con lo sguardo fisso e cieco rivolto al cielo, la mascella cascante che metteva in mostra i denti ingialliti e irregolari. Secondo Quintato, era stato un ufficiale eccellente. Tenace, efficiente, coraggioso e pluridecorato, Salvio aveva combattuto da perfetto centurione fino alla fine. Aveva diverse ferite al petto e allo stomaco e il legato era quasi certo che, se il corpo fosse stato rivoltato, non ne avrebbe trovata nessuna sulla schiena. Quintato si disse che forse gli avevano lasciato la testa attaccata in segno di rispetto.

    Rimaneva ancora da trovare il tribuno Marcello, il comandante della squadra di costruzione. Quintato si appoggiò ai corni della sella, fece passare la gamba sopra il dorso del cavallo e smontò, atterrando con un tonfo nel fango. Si avvicinò ai cadaveri e cercò tracce del giovane aristocratico che aveva preso il comando di una squadra per la prima volta, rivelatasi anche l’ultima. Non c’era ragione di guardare fra i corpi senza testa e il legato li evitò durante la ricerca. Non riuscì a trovare Marcello, perfino dopo aver voltato alcuni dei corpi che giacevano proni. Due soldati erano stati malamente feriti in viso, e la carne lacerata, le ossa frantumate e lembi del cuoio capelluto penzoloni rendevano impossibile l’identificazione immediata. Il ritrovamento di Marcello avrebbe dovuto aspettare.

    Poi il legato si irrigidì, colpito da un’improvvisa intuizione. Si drizzò, e fece scorrere lo sguardo sul resto dell’accampamento, stimando il numero approssimativo dei cadaveri sparsi nel fango. Non c’era traccia dei nemici caduti. Ma non li avrebbe trovati. I nativi portavano sempre via i loro morti, per seppellirli segretamente dove i Romani non li avrebbero trovati, in modo da non far sapere il numero delle vittime.

    «Cosa c’è, mio signore?», chiese il tribuno, preoccupato per l’improvvisa reazione del suo superiore.

    «Qui i nostri uomini sono troppo pochi. Da quello che vedo, direi che ne manca almeno un quarto».

    Il tribuno si guardò intorno e annuì. «E allora dove sono?»

    «Dobbiamo supporre che siano stati presi vivi», disse freddamente Quintato. «Prigionieri… Che gli dèi abbiano pietà di loro. Non avrebbero dovuto arrendersi».

    «Cosa succederà loro, signore?».

    Quintato scrollò le spalle. «Se sono fortunati, verranno usati come schiavi e fatti lavorare fino alla morte. Ma prima di allora, verranno condotti di tribù in tribù e mostrati alla gente delle colline come una prova del fatto che Roma può essere battuta. Subiranno abusi e verranno umiliati per tutto il tragitto».

    Il tribuno rimase in silenzio per un momento e poi deglutì nervosamente. «E se non sono fortunati?»

    «Allora verranno consegnati ai druidi e sacrificati ai loro dèi. Scuoiati, o bruciati vivi. Ecco perché è meglio fare in modo di non finire nelle loro mani». Quintato percepì un movimento con la coda dell’occhio e si voltò per guardare la strada che partiva dal cancello centrale. La centuria alla testa del contingente aveva raggiunto la cima della collina e iniziato a scendere lungo il pendio, sforzandosi di mantenere il passo, mentre il terreno diventava sempre più fangoso. Per un breve momento, dalla coltre di nubi riuscì a filtrare un timido raggio di sole, che illuminò la testa della colonna. Un intenso luccichio segnalò la posizione del vessillo con l’aquila della legione, insieme agli altri stendardi che recavano l’immagine dell’imperatore e alle insegne e le decorazioni dei reparti minori. Quintato si chiese se fosse di buon auspicio. Se era così, allora gli dèi avevano uno strano tempismo.

    «E ora, mio signore?», si informò il tribuno.

    «Uhm?»

    «Quali sono i tuoi ordini?»

    «Finiamo ciò che abbiamo iniziato. Non appena la legione arriverà qui, voglio che il fossato e il bastione vengano sistemati, poi si potranno continuare i lavori del forte». Quintato raddrizzò la schiena e guardò gli oscuri versanti boschivi della vallata. «Quei selvaggi hanno avuto la loro piccola vittoria, oggi. Non possiamo farci niente. Staranno festeggiando sulle colline. Sciocchi. Questo rafforzerà solo la determinazione di Roma nel voler annientare anche l’ultimo tentativo di resistenza. Non importa quanto ci vorrà, puoi star sicuro che Ostorio, e l’imperatore, non ci concederanno tregua finché il lavoro non verrà portato a termine». Sulle sue labbra balenò un rapido sorriso amaro. «Meglio non abituarsi alle comodità del forte di Glevum, ragazzo mio».

    Il giovane ufficiale annuì solennemente.

    «Bene, ho bisogno che qui venga piantata una tenda che funga da quartier generale. Fai in modo che alcuni uomini sgombrino il terreno e comincino a lavorare. Manda a chiamare il mio segretario. Il governatore avrà bisogno di un rapporto il più presto possibile». Quintato si strofinò la mascella e osservò di nuovo i corpi del centurione Salvio e dei suoi commilitoni. Sentiva il cuore colmo di dolore per la perdita dei suoi uomini e per il fardello dato dalla consapevolezza che la campagna in arrivo sarebbe stata la più dura e sanguinosa che i Romani avessero mai affrontato da quando avevano messo piede su quella maledetta isola.

    Questo era un modo nuovo di guerreggiare. I soldati di Roma dovevano essere necessariamente spietati, se volevano stroncare lo spirito del nemico. E avevano bisogno di essere guidati da ufficiali che avrebbero dato la caccia ai nemici con una determinazione inesorabile e senza alcuna pietà nel cuore. Fortunatamente, esistono uomini così, pensò Quintato. Ce n’era uno in particolare, il cui nome bastava a far gelare il sangue nelle vene ai nemici. Il centurione Querto. Con un centinaio di ufficiali come lui, le difficoltà che Roma aveva incontrato in Britannia erano destinate a sparire. Uomini simili erano necessari in battaglia. Ma cosa ne sarebbe stato di loro in tempo di pace? Quintato si disse che quello era un problema che riguardava qualcun altro.

    CAPITOLO DUE

    Fiume Tamesis, due mesi dopo

    «Per gli dèi, questo posto è cambiato». Il centurione Macrone indicò la distesa di edifici sulla sponda nord del fiume. La nave da carico aveva appena costeggiato un’ampia ansa del Tamesis e la prua era completamente controvento, così che la vela cominciò a sbatacchiare contro il cielo coperto di nuvole grigie.

    Il capitano mise le mani a coppa davanti alla bocca e sbraitò da un capo all’altro dell’ampio ponte: «Mani alle sartie! Ammainate la vela!».

    Mentre alcuni uomini si arrampicavano sulle strette griselle, il capitano si rivolse al resto dell’equipaggio. «Imbarcate i remi e preparatevi!».

    I marinai, un misto di Galli e Batavi, esitarono per un breve istante prima di adempiere ai loro doveri con espressione imbronciata. Macrone non riuscì a trattenere un sorriso mentre li guardava, cogliendo la loro muta protesta per ciò che era: una questione di forma, più che di sostanza. Succedeva lo stesso anche con i soldati che conosceva da quasi tutta una vita. Spostò di nuovo lo sguardo sul paesaggio basso e ondulato che si estendeva su entrambi i lati del fiume. La maggior parte degli alberi era stata tagliata, e piccole fattorie spuntavano qua e là per la campagna. C’era anche una manciata di edifici più grandi con i tetti coperti di tegole, a testimonianza del fatto che lo stile romano si stava diffondendo nella nuova provincia. Macrone interruppe il flusso dei pensieri per dare un’occhiata al compagno poco distante, fermo, con i gomiti appoggiati alla battagliola della nave e lo sguardo fisso sulla superficie increspata del fiume che scorreva placidamente sotto di lui. Macrone si schiarì la gola in maniera piuttosto ostentata.

    «Ho detto che il posto è cambiato».

    Catone si riscosse, poi sollevò lo sguardo e sorrise fugacemente. «Scusa, avevo la testa altrove».

    Macrone annuì. «I tuoi pensieri sono rivolti a Roma, senza dubbio. Non preoccuparti, amico, Giulia è una brava donna e un’ottima moglie. Vedrai che se la caverà bene fino al tuo ritorno».

    Nonostante l’amico avesse un grado più alto del suo, fra i due si era instaurata un’intimità disinvolta, durante gli otto anni in cui avevano prestato servizio insieme. Una volta Macrone era l’ufficiale più anziano, ma ora Catone l’aveva superato, era stato elevato al grado di prefetto ed era pronto ad assumere, per la prima volta, il comando permanente di una coorte di ausiliari: la Seconda Coorte Tracia di cavalleria. Il precedente comandante della Seconda era stato ucciso nell’ultima campagna e lo stato maggiore imperiale a Roma aveva scelto Catone per coprire il posto vacante.

    «Mi chiedo quando succederà», rispose l’uomo più giovane, la voce velata di amarezza. «Da quel che ho sentito, i trionfali festeggiamenti dell’imperatore per la conquista della Britannia erano alquanto prematuri. Probabilmente, quando saremo vecchi, staremo ancora combattendo contro Carataco e i suoi seguaci».

    «Per me va bene». Macrone scrollò le spalle. «Preferisco il servizio onesto nelle legioni alle cospirazioni che abbiamo dovuto affrontare dall’ultima volta che siamo stati qui».

    «Pensavo detestassi la Britannia. Stai sempre a lamentarti della maledetta umidità, del freddo e della mancanza di cibo decente. Non vedevi l’ora di andartene, dicevi».

    «L’ho detto davvero?». Macrone simulò un’aria innocente, e poi si fregò le mani. «Comunque, eccoci tornati. Qui c’è una rispettabile campagna militare in corso e l’opportunità di ulteriori promozioni e premi. E soprattutto, qui ho la possibilità di rimpinguare il mio fondo pensione. Ho anche sentito delle voci, amico mio, e si parla di una fortuna in argento che si trova sulle montagne nella parte occidentale dell’isola. Se saremo fortunati ce la passeremo piuttosto bene, una volta finito di prendere a calci i nativi per farli scendere a più miti consigli».

    Catone non riuscì a trattenere un sorriso. «Prendere a calci un uomo di solito non serve a farlo diventare ragionevole, almeno secondo la mia esperienza».

    «Non sono d’accordo. Se sai dove calciare, e quanta forza usare, farai fare a un uomo tutto ciò che vuoi».

    «Se lo dici tu». Catone non aveva alcun desiderio di cominciare una discussione. La sua mente era ancora turbata dal pensiero di essere lontano da Giulia. Si erano incontrati qualche anno prima, sul confine orientale dell’impero, dove il padre di Giulia, il senatore Sempronio, prestava servizio come ambasciatore dell’imperatore presso il re di Palmira. Sposare una donna di una famiglia senatoriale garantiva un notevole avanzamento di carriera per un ufficiale legionario di grado inferiore come Catone, ed era per lui motivo di apprensione, perché poteva essere deriso da coloro che appartenevano alle vecchie famiglie aristocratiche. Ma il senatore Sempronio aveva riconosciuto il potenziale di Catone ed era stato lieto di dargli in sposa sua figlia. Il giorno del matrimonio era stato il più felice nella vita di Catone, ma c’era stato poco tempo per abituarsi all’idea di essere un marito, prima di ricevere dal segretario imperiale l’ordine di partire. Narciso era sottoposto a crescenti pressioni da parte della fazione che caldeggiava il giovane principe Nerone come successore dell’imperatore Claudio. Il segretario imperiale si era schierato con i sostenitori di Britannico, il figlio naturale dell’imperatore, che stavano progressivamente perdendo influenza sul vecchio e precario sovrano dell’impero più grande del mondo. Narciso aveva spiegato a Catone che gli stava facendo un enorme favore a mandarlo il più lontano possibile da Roma. Alla morte dell’imperatore sarebbe seguita una lotta per il potere che non avrebbe risparmiato coloro che si trovavano dalla parte dei perdenti, così come chiunque fosse a loro associato. Se Britannico avesse perso, sarebbe stato condannato, e Narciso con lui.

    Dal momento che Catone e Macrone avevano servito degnamente il segretario imperiale, anche se con una certa riluttanza, anche loro sarebbero stati in pericolo. Meglio trovarsi a combattere in qualche remota frontiera, quando il momento sarebbe giunto, lontani dai vendicativi sostenitori di Nerone. Pur avendo da poco salvato la vita a Nerone, Catone aveva ostacolato Pallante, il liberto imperiale che era la mente della fazione del principe. Pallante non era un uomo incline a perdonare coloro che erano d’intralcio alla realizzazione delle sue ambizioni. Il debito che Nerone aveva nei confronti di Catone non lo avrebbe salvato. Quindi, poco più di un mese dopo la celebrazione del matrimonio nella casa del padre di Giulia, Catone e Macrone erano stati convocati a palazzo per ricevere i loro nuovi incarichi: per Catone, il comando di una coorte tracia, e per Macrone, il comando di una coorte nella Quattordicesima Legione. Entrambe le unità prestavano servizio nell’esercito del governatore Ostorio Scapula in Britannia.

    Erano stati versati fiumi di lacrime, quando era arrivato il momento di partire. Giulia si era aggrappata a Catone e lui l’aveva tenuta stretta, e aveva sentito il petto di lei sussultare mentre affondava il viso nelle pieghe del mantello e le sue ciocche scure gli ricadevano sulle mani. Il cuore di Catone si era letteralmente spezzato dal dolore al momento della separazione da Giulia. Ma aveva ricevuto un ordine, e il senso del dovere che legava i cittadini di Roma e che aveva reso possibile la sottomissione dei nemici, non poteva essere rinnegato.

    «Quando tornerai?». La voce di Giulia gli arrivò smorzata dalle pieghe della lana. Aveva sollevato lo sguardo, gli occhi arrossati, e Catone aveva sentito un impeto di angoscia attraversargli il cuore. Si era sforzato di sorridere lievemente.

    «La campagna dovrebbe finire presto, amore mio. Carataco non può resistere ancora a lungo. Verrà sconfitto».

    «E poi?»

    «Poi, aspetterò notizie dal nuovo imperatore, e quando tornare sarà sufficientemente sicuro, farò richiesta per un impiego civile a Roma».

    Lei aveva stretto le labbra per un istante. «Ma potrebbero volerci anni».

    «Sì».

    Erano rimasti entrambi in silenzio per un momento, poi Giulia aveva parlato di nuovo. «Potrei raggiungerti in Britannia».

    Catone aveva piegato la testa di lato. «Forse. Ma non ancora. L’isola, per ora, è poco più di una palude barbara. Ci sono ben poche delle comodità alle quali sei abituata. Ed è pieno di pericoli, non da ultimo l’aria malsana del posto».

    «Non importa. Ho sperimentato di peggio, Catone. E tu lo sai. Dopo tutto ciò che abbiamo passato, meritiamo di stare insieme».

    «Lo so».

    «Allora promettimi che mi manderai a prendere non appena le condizioni saranno sicure per raggiungerti». Aveva rafforzato la presa sul suo mantello e l’aveva guardato intensamente negli occhi. «Promettimelo».

    Catone si avvide che la sua determinazione a difenderla dai pericoli e dai disagi della nuova provincia era svanita. «Lo prometto».

    Lei aveva allentato la presa, si era scostata di un mezzo passo, con un’espressione di dolente sollievo, e aveva annuito. «Non farmi aspettare troppo, mio amato Catone».

    «Non un giorno più del necessario. Lo giuro».

    «Bene». Gli aveva sorriso e si era alzata in punta di piedi per baciarlo sulla bocca, poi aveva fatto un passo indietro e gli aveva stretto ancora le mani prima di raddrizzare la schiena. «Allora devi andare».

    Catone l’aveva guardata un’ultima volta poi aveva fatto un cenno con il capo e si era allontanato dalla casa del senatore, incamminandosi lungo la strada che conduceva alla porta della città, da dove avrebbe preso una barca che, seguendo il corso del Tevere, l’avrebbe portato da Macrone al porto di Ostia. Si era girato a guardare una volta arrivato alla fine della via e l’aveva vista là, ferma sulla soglia. Si era obbligato a voltarsi e a sparire dalla sua vista.

    Il dolore della separazione non si era attenuato nel corso del lungo viaggio per mare fino a Massilia, proseguito poi via terra fino a Gesoriacum, dove si erano imbarcati sulla nave per la tratta finale verso la Britannia. Tornare sull’isola dopo tanti anni gli dava una strana sensazione. Poche ore prima la nave aveva costeggiato la sponda del fiume dove Catone e i suoi commilitoni della Seconda Legione avevano combattuto contro un’orda di guerrieri nativi, incitati da druidi urlanti che scagliavano maledizioni e incantesimi contro gli invasori. Era un promemoria agghiacciante di ciò che li aspettava e Catone temeva che sarebbero passati anni prima che la situazione potesse considerarsi abbastanza sicura per mandare a prendere sua moglie.

    «È quella lì davanti? Londinium?».

    Catone si voltò e vide una donna anziana, esile e con duri tratti del viso uscire dal boccaporto che conduceva agli stretti alloggi per i passeggeri e procedere con cautela lungo il ponte. Indossava uno scialle sopra la testa e qualche ciocca di capelli grigi ondeggiava nella brezza. Catone sorrise per salutarla e Macrone fece una smorfia di benvenuto mentre lei lo raggiungeva alla battagliola.

    «Stai molto meglio, mamma».

    «Ovviamente», replicò lei brusca, «ora che questa maledetta nave ha smesso di rollare. Ero sicura che la tempesta ci avrebbe fatto affondare. E, francamente, sarebbe stato un dono del cielo se l’avesse fatto. Non sono mai stata così male in vita mia».

    «Non era affatto una tempesta», disse Macrone in tono sprezzante.

    «No?». La donna fece un cenno con la testa a Catone. «Tu cosa pensi? Hai vomitato tanto quanto me».

    Catone storse la bocca. I rollii e i beccheggi della nave nella notte precedente l’avevano lasciato in uno stato assolutamente pietoso, piegato a vomitare in una tinozza accanto alla sua branda. Non amava i viaggi in mare nel Mediterraneo, anche nelle migliori condizioni. Il mare burrascoso al largo delle coste della Gallia era una vera tortura.

    Macrone sospirò con noncuranza. «Soffiava a malapena un po’ di vento. E, tutto sommato, aria buona e fresca. Ha riportato un po’ di sale nei miei polmoni».

    «Mentre tirava fuori tutto ciò che avevi nello stomaco», replicò sua madre. «Preferirei morire, piuttosto che rivivere tutto un’altra volta. Comunque, meglio non ricordare. Come dicevo, è Londinium quella laggiù?».

    Gli altri si voltarono per seguire la direzione che stava indicando, e contemplarono gli edifici distanti che si profilavano sulla sponda nord del Tamesis. C’era un pontile costruito con enormi cataste di legno spinte nel letto del fiume, sulle quali posavano le travi maestre saldate con pietre e terra e, in ultimo, lastricate. Diverse navi da carico vi erano già ormeggiate, mentre altrettante erano ancorate a breve distanza e risalivano il fiume, in attesa del loro turno per scaricare la merce trasportata. Sul pontile, squadre di forzati incatenati erano impegnate a portare i carichi dalle stive delle navi fino ai magazzini bassi e oblunghi. Dietro di essi si stendevano altri edifici, molti dei quali ancora in costruzione. La nuova città stava prendendo forma. A un centinaio di passi dalla sponda, si poteva distinguere il secondo piano di un vasto complesso che si innalzava sopra gli altri fabbricati. Catone intuì che si trattava della basilica, con il mercato, i tribunali, le botteghe, gli uffici e le sedi amministrative, come in tutte le città fondate da Roma.

    «Esatto, quella è Londinium», rispose il capitano, avvicinandosi ai suoi passeggeri. «Si sta sviluppando più in fretta di un ascesso sul deretano di un mulo. Ed è altrettanto disgustosa».

    «Davvero?». La madre di Macrone si accigliò.

    «Certo che sì, signora Porzia. Quel posto è una topaia. Strade strette, piene di fango, bettole scadenti e bordelli. Ci vorrà ancora un po’ prima che si sistemi e diventi il genere di città a cui sei abituata».

    Lei sorrise. «Bene. Era ciò che volevo sentire».

    Il capitano la guardò con disapprovazione e Macrone scoppiò a ridere.

    «È venuta qui per mettersi in affari».

    Il capitano osservò con attenzione l’anziana signora. «Che genere di affari?»

    «Ho intenzione di aprire una locanda», rispose Porzia. «C’è sempre la necessità di una bevuta, e di altre comodità, alla fine di un viaggio in mare, e direi che Londinium vede passare per le proprie porte una grande quantità di mercanti, marinai e soldati. Tutti buoni clienti per il genere di servizi che voglio offrire».

    «Oh, c’è la possibilità di fare buoni affari, va bene», il capitano annuì. «Ma la vita è dura. Ancora più dura in una nuova provincia come questa. I mercanti che fanno fortuna qui sono uomini difficili. Non prenderanno bene il fatto che una donna romana cerchi di competere con loro».

    «Avevo a che fare con uomini difficili, alla locanda che possedevo a Ravenna. Dubito che la gente di qui possa causarmi delle difficoltà. Soprattutto quando scopriranno che mio figlio è, guarda caso, un centurione anziano della Quattordicesima Legione». Afferrò il braccio di Macrone e lo strinse con affetto.

    «Ha ragione». Macrone annuì. «Chiunque dia fastidio a mia madre, dà fastidio a me. E chi ci ha provato in passato non ha fatto una bella fine».

    Il capitano osservò il fisico muscoloso del massiccio ufficiale romano e le cicatrici sul viso e sulle braccia e non fece fatica a crederci.

    «In ogni caso, perché sei venuta qui, signora? Saresti stata più tranquilla se ti fossi sistemata a Gesoriacum. Si possono fare buoni affari laggiù».

    Porzia fece una smorfia. «È qui che si possono fare soldi veri, per chi ha voglia di darsi da fare in fretta. Inoltre, questo ragazzo è tutto ciò che ho al mondo, ora. Voglio essergli il più vicino possibile. Chi lo sa, quando andrà in congedo potrebbe mettersi in affari con me».

    Gli occhi di Macrone si illuminarono. «Ah, questa sì che è una buona idea. Tutte le donne e il vino che un uomo potrebbe desiderare, sotto lo stesso tetto!».

    Porzia lo schiaffeggiò sul braccio. «Ripensandoci… Voi soldati siete tutti uguali. In ogni caso, farò fortuna a Londinium, e rimarrò qui fino alla fine dei miei giorni. Sta a te decidere ciò che vuoi fare della tua vita, Macrone. Ma io resterò qui. Questa è la mia ultima casa».

    Mantenendo un ritmo costante, la nave si accostò al pontile. Mentre si avvicinavano alla città, i passeggeri colsero la prima zaffata dell’odore del luogo, un odore acre, di torba e di fogna, mischiato al lezzo del fumo e della legna bruciata che chiudeva la gola.

    «L’aria di mare potrebbe non essere così male, dopotutto», borbottò Catone arricciando il naso.

    Non c’era spazio per ormeggiare lungo il pontile e il capitano diede ordine di manovrare verso la fine della fila dei vascelli ancorati più a monte. Si voltò a guardare i suoi passeggeri con aria di scusa.

    «Ci vorrà ancora un po’ prima che arrivi il nostro turno. Siete liberi di rimanere a bordo, o vi farò accompagnare a riva in barca da uno dei miei ragazzi».

    Catone si sollevò dalla battagliola e adottò l’atteggiamento militare che aveva appreso da Macrone, ritto e risoluto. «Scenderemo a terra. Il centurione e io abbiamo il dovere di fare rapporto all’autorità militare più vicina il prima possibile».

    «Sì, signore». Il capitano si batté la fronte, rendendosi conto all’istante che il tono familiare adottato durante il viaggio non era più ammesso. «Provvederò immediatamente».

    L’uomo mantenne la parola e quando l’ancora si immerse nella corrente e la ciurma imbarcò i remi, le sacche dei due ufficiali e i bauli e le borse che appartenevano a Porzia erano già stati recuperati dalla stiva. La barchetta, un piccolo natante con la prua smussata e un ampio timone, fu calata dalla fiancata. Due rematori vi saltarono sopra agilmente e tesero le mani per aiutare i passeggeri a salire. C’era spazio solo per tre persone, i bagagli sarebbero stati portati a riva separatamente. Catone fu l’ultimo e quando mise piede sulla fragile imbarcazione, agitò le braccia in modo frenetico per mantenere l’equilibrio, prima di abbandonarsi pesantemente su un banco. Macrone gli lanciò un’occhiata snervata che esprimeva impazienza, poi i rematori iniziarono a remare e l’imbarcazione fece rotta verso la riva. Ora che erano più vicini a Londinium, notarono che la superficie del fiume era striata di liquami provenienti dagli scarichi delle fogne che correvano lungo il pontile. Nell’acqua stagnante trattenuta dalla banchina galleggiavano pezzi di legno e rottami, e i ratti correvano dall’uno all’altro, in cerca di qualcosa di commestibile. Una serie di gradini in legno salivano dal fiume fino a una delle estremità del pontile e i rematori si diressero verso di essi. Quando si affiancarono alla scaletta, l’uomo più vicino vi agganciò il remo e allungò la mano per afferrare il viscido gherlino che fungeva da parabordo d’accosto. Vi rimase aggrappato finché i suoi amici non fecero scivolare il cappio di una fune sulla colonna d’ormeggio.

    «Eccoci qui, signori e signora». Sorrise e li aiutò a sbarcare. Con Catone in testa, i tre salirono i gradini fino al pontile e osservarono la via affollata fra le navi e i magazzini. Una cacofonia di voci riempiva il fresco pomeriggio primaverile e tra queste si potevano percepire i ragli dei muli, gli schiocchi delle fruste e le urla dei sorveglianti delle squadre di forzati in catene. Per quanto la scena sembrasse caotica, Catone sapeva che ogni dettaglio era una dimostrazione della trasformazione avvenuta sull’isola, che resisteva al potere di Roma da quasi cento anni. Nel bene e nel male, in Britannia si era verificato un cambiamento e, una volta annientati gli ultimi oppositori, la nuova provincia avrebbe preso forma e sarebbe diventata parte dell’impero.

    Macrone lo raggiunse e si guardò rapidamente intorno prima di mormorare: «Bentornato in Britannia… l’immondo confine della civiltà».

    CAPITOLO TRE

    Una volta che la barca fu tornata con i loro bagagli, Macrone avvicinò un piccolo gruppo di uomini radunati all’esterno del magazzino più vicino.

    «Ho bisogno di alcuni facchini», annunciò, rivolgendosi a loro con la sua voce alta e chiara, da piazza d’armi. Quelli si precipitarono immediatamente verso di lui, e Macrone scelse alcuni degli uomini dall’aspetto più corpulento, uno dei quali portava una striscia di cuoio intorno alla testa per tenere la fronte libera dai capelli biondi, folti e ispidi. Sotto il cuoio, si intravedeva un marchio. Macrone lo riconobbe all’istante. Era l’emblema di Mitra. Il mitraismo era una religione che si stava gradualmente diffondendo fra le truppe dell’esercito romano. «Tu eri un soldato una volta, o sbaglio?».

    L’uomo chinò la testa. «Lo ero, signore. Prima che una lancia siluriana mi trafiggesse la gamba. Mi ha reso claudicante, e mi è stato impossibile tenere il passo con il resto dei miei compagni. L’esercito non ha avuto altra scelta che congedarmi, signore».

    Macrone lo studiò attentamente. L’uomo indossava un logoro mantello militare sopra la tunica e i suoi stivali erano tenuti insieme da strisce di stoffa. «Lasciami indovinare. Hai sperperato la tua gratifica di congedo ed ecco come ti sei ridotto».

    L’ex soldato annuì. «Le cose sono andate più o meno così, signore».

    «Qual è il tuo nome e la tua unità?»

    «Legionario Marco Metellio Decimo, Seconda Legione Augusta, signore!». L’uomo si mise sull’attenti e barcollò, poi allungò una mano per tenere

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