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Il tempio maledetto
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E-book303 pagine4 ore

Il tempio maledetto

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Info su questo ebook

Ci sono scoperte che nessuno dovrebbe fare

Un grande thriller

Un enigma archeologico rimasto irrisolto per secoli sta per essere svelato

Marmarica, 74 d.C. Sotto un sole cocente, una centuria di legionari romani vaga nello sterminato deserto egiziano. L’obiettivo della missione è ritrovare un antico tempio dedicato al dio Amon, al cui interno si celerebbe un oggetto leggendario, smarrito fra le pieghe dei secoli. Turchia, 1985. Lungo le coste del Chersoneso Tracico, lo studioso greco Yoannis Travlos ha riportato alla luce i resti dell’antica città di Lisimachia. Due settimane dopo, Travlos parte in segreto, alle prime luci dell’alba, deciso a raggiungere il vero obiettivo della sua campagna di scavi: una bassa collina a diversi chilometri di distanza dal confine autorizzato.
Napoli, 2013. L’archeologo Robert Ferrazzi, ancora sconvolto per la morte del suo amico Alziwa, riceve una mattina la visita di una donna: è Melanie Scott Forster, figlia di Andrew Cameron, suo ex datore di lavoro scomparso misteriosamente. Quando intuisce che la sparizione dell’uomo s’intreccia con l’ultima ricerca archeologica del suo amico Alziwa – il ritrovamento di un antico tempio egizio sepolto sotto le dune del Sahara – Robert accetta di assistere la giovane e parte alla volta dell’Egitto. Un viaggio tra misteri e pericoli per far luce su una verità che il tempo sembra avere inghiottito…

Un antico tempio sepolto nel deserto
Un oggetto leggendario riemerge dal passato
La storia sta per essere riscritta

«Una trama coinvolgente affascina il lettore fin dall’incipit. La narrazione scorre veloce, gli intrighi non mancano e gli espedienti narrativi non risultano mai banali. Davvero un ottimo thriller.»
Fabio Sorrentino
È nato nel 1983 e vive a San Giorgio a Cremano. È un ingegnere civile. Ha scritto i romanzi storici Ante Actium. Il destino di un guerriero e Sangue imperiale, tradotti in Spagna. La Newton Compton ha pubblicato Il segreto dell’Anticristo e Il tempio maledetto.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2016
ISBN9788854192157
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    Anteprima del libro

    Il tempio maledetto - Fabio Sorrentino

    1

    Marmarica. 74 d.C.

    40 miglia romane a sud-ovest del campo di Ammoniakè

    Diventava sempre più difficile.

    Marco Cetego si passò il dorso della sinistra sulla fronte grondante di sudore e inghiottì un respiro infuocato, voltandosi per un istante a guardare il resto della colonna in marcia. Due file dietro, Aurelio Prisco barcollava trascinando l’insegna della centuria, le guance screpolate dalle scottature, mentre gli altri legionari avanzavano ciondolanti e con le schiene curve in un silenzio quasi irreale, rotto soltanto dal tintinnio degli elmi pendenti dai gomiti e dal fruscio delle caligae azzannate dalla terra bollente.

    Senza parlare, Cetego tornò a fissare lo sfondo interminabile del grande mare di sabbia che tremolava lontano oltre una catena di dune solidago e si sforzò di dare il buon esempio ai suoi uomini tenendosi dritto e allungando il passo, insensibile al bruciore causato dalle vesciche e dalle piaghe sanguinanti fra le dita dei piedi.

    A pochi metri di distanza dal suo scudo, le tre guide garamanti parlottavano sommessamente nel loro barbaro idioma e di tanto in tanto indirizzavano lo sguardo verso le creste sabbiose che s’innalzavano sulla loro destra, distanti una decina di stadi dall’orma del vecchio uadi in cui arrancava la colonna di soldati.

    D’un tratto una piccola placca metallica scivolò dal balteus di Cetego e il centurione si chinò in avanti per recuperarla, affondando pollice e indice nella polvere che brillava cocente davanti ai suoi calzari. Prima di rinfilarla dietro la cintura in cuoio, il veterano la osservò per qualche istante e ripensò al motivo per il quale gli era stato affidato il comando di quell’assurda spedizione in terra d’Egitto.

    Erano partiti da Cesarea di Palestina tre settimane prima, imbarcandosi a bordo di una vecchia bireme diretta a Paraetonium, lungo la costa cirenaica, e da lì avevano marciato per sei giorni alla volta dell’antica città degli Ammoni, chiamata anche Isola dei Giusti, una sottile striscia di palme e di vita immersa nella sabbia millenaria del deserto africano e isolata dalla civiltà fin dalla notte dei tempi.

    Per raggiungerla, i suoi uomini avevano attraversato un oceano incandescente, fatto d’infinite distese di ghiaia color ruggine e di ciottoli di roccia dura e nuda, sviscerata e scheggiata dall’incessante lavoro dei venti e trasformata in un unico tappeto lucido e argilloso.

    E alla fine ce l’avevano fatta.

    Adesso, accompagnati da dieci dromedari carichi di provviste e da tre guide con l’aria da predoni, gli ottanta soldati che aveva scelto tra i migliori elementi della prima corte della legione si ritrovavano ad arrancare in un nuovo e più infido mantello di polvere maledetta, alla ricerca di un tempio eretto da un oscuro faraone quasi un millennio prima nel cuore del nulla sahariano e ben presto dimenticato dalle parole e dalla memoria degli uomini.

    Dopo circa tre ore di cammino, Cetego ordinò ai legionari di sospendere la loro marcia a ridosso di una serie di alte rupi e la lunga coda metallica della colonna di armati si arrese al flagellare continuo di un sole che irradiava la sua impressionante potenza di luce. In breve gli uomini condussero le bestie al riparo delle ristrette chiazze d’ombra offerte dagli spuntoni rocciosi e si sdraiarono a riposare, mangiando pane e carne secca e sorseggiando la loro razione di vino allungato.

    Approfittando della sosta, il centurione si sciacquò il viso con l’acqua di un otre e andò a sedersi in prossimità delle tre guide africane, leggermente defilato dai gruppetti formati dai suoi soldati. Trovato un macigno appiattito vicino a un grande sperone di arenaria, Cetego vi si gettò sopra poggiando lorica e nuca alla superficie scabra della pietra e si costrinse a serrare le palpebre per recuperare un po’ di forze.

    «Credi che ci riusciremo?», esordì poco dopo una voce roca e profonda.

    Il centurione aprì gli occhi con lentezza, strizzandoli un paio di volte per riabituarli alla luce del deserto. Gaio Pacuvio, l’optio della centuria, era ritto di fronte a lui con l’elmo piumato stretto sotto il braccio destro.

    «Cosa?».

    Pacuvio estrasse la sua placca metallica da una piega della tunica e cominciò a scrutarla impensierito.

    «Mi hai capito», disse, indicando con il mento i tre barbari dalla pelle scura. Gli occhi tornarono sul cartiglio egizio impresso nella lamina di bronzo. «Sei sicuro che quei tre sappiano dove portarci?»

    «Gli ho dato un’altra mezza giornata di tempo», confessò a bassa voce il veterano, fissando le schiene delle guide, avvolte in lunghe tuniche di lana scura. «Poi ne sgozzerò uno a ogni tramonto fin quando non avremo intravisto la sagoma di quel dannato tempio».

    L’optio scosse la testa disilluso e scivolò veloce al suo fianco, poggiando l’elmo in un fazzoletto di sabbia ombrosa. Poi allentò la stretta del focale intorno al collo e slacciò il cingulum che ospitava il fodero del gladio. «Allora mi restano solo tre giorni prima di sapere con certezza che morirò in questo merdoso mare di polvere».

    «Che vuoi farci. Gli dèi ti hanno maledetto», replicò Cetego, lasciandosi sfuggire una smorfia divertita.

    Pacuvio lo fissò negli occhi scuri e profondi. «Non sono stati gli dèi, centurione, ma la cupidigia di Tito Flavio Vespasiano».

    «Pensa alla tua, di cupidigia! A Hierosolyma ti sei affannato a tendere la mano per intascare il donativo di cento denari che Tito aveva destinato a ognuno di voi. Che c’è, adesso? L’audace Gaia si lascia impaurire da una manciata di sabbia e da un po’ di sole?».

    «Senti, centurione…».

    «Hai parlato abbastanza», lo zittì imperioso Cetego, puntandogli contro il suo bastone di vite. «Un’altra parola e giuro che scalzi nella lista il primo di quei predoni! E ora torna in mezzo agli altri. Muto».

    Piccato nell’orgoglio, l’optio recuperò elmo e cingulum e si alzò dal suo posto, avviandosi verso i commilitoni a labbra serrate per lo sdegno.

    Il centurione ruotò impercettibilmente il capo e lo seguì allontanarsi con gli occhi appena socchiusi.

    Pacuvio era sempre stato risoluto e un valido attendente in battaglia. Se anche lui cominciava a cedere, ciò significava che la truppa non nutriva più alcuna speranza di riuscire nell’impresa.

    La macchia opalescente del sole lambiva ormai l’esile striscia dell’orizzonte e un cielo corallo cominciava a confondersi in lontananza con la linea tracciata dai profili arrotondati delle dune. La centuria era in marcia nel deserto dall’alba, con appena tre soste in un’intera giornata, e gli uomini stremati. Quattro ore dopo l’ultimo breve rancio, Cetego aveva deciso di mantenere fede alla sua promessa, facendo circondare la più giovane delle guide da una trentina di soldati. Aveva poi obbligato il berbero a inginocchiarsi ed estratto il gladio dal fodero, soppesandolo minacciosamente sopra la testa del reo. Con gli occhi spalancati per il terrore, il garamante l’aveva supplicato lacrimando in un abbozzo di latino e si era salvato dalla lama del centurione solo grazie all’intervento del collega più anziano, che prima aveva provato, invano, a garantire la prossimità della meta, poi aveva spinto l’altra guida a forzare con lui il cerchio dei romani per inginocchiarsi entrambi accanto all’amico. «Coraggio, soldato», aveva esortato il capo delle guide, mostrando di conoscere la lingua dell’impero, «ammazza noi e condanna pure te e i tuoi uomini».

    Era stata la mano di Aurelio Prisco a salvare le teste dei garamanti. Proprio nel momento in cui Cetego stava per caricare il colpo sul collo del primo selvaggio, il signifer aveva bloccato a fatica l’avambraccio del centurione e si era frapposto tra lui e le tre sagome chine. «Il vecchio ha ragione», gli aveva mormorato, con il viso stravolto dallo sfinimento. «Loro sono la nostra unica speranza di ritorno».

    Aurelio non aveva sbagliato.

    Era l’ultima ora prima del tramonto e la colonna stava avanzando in una disagevole gola rocciosa, un affilato crepaccio che spaccava in due un enorme blocco di calcare, striato da mille venature ruggine e porpora. L’ammasso svettava isolato e maestoso, come una torre solitaria affiorante da un interminabile banco di bruma dorata, e limitava per un lungo tratto la vista di chi era costretto a traversarlo.

    Le guide sfilavano con destrezza fra i saliscendi e le gincane create dagli spuntoni di pietra delle pareti scoscese, seguite a circa quaranta passi da Cetego, Pacuvio e dalla coda sfaldata dei legionari, ormai divisi in tanti piccoli gruppi ravvicinati. D’improvviso, dopo essere sparite dalla visuale del centurione dietro la sporgenza di un grosso costone di levante, una serie di alte grida berbere percosse l’aria rimbalzando ovunque tra gli anfratti accolti dai versanti di roccia secolare. Con un impulso istintivo, Cetego sgranò gli occhi sul viso barbuto del suo optio e sfilò veloce il gladio dal fodero. «Presto, di corsa!», ordinò stentoreo, voltandosi verso i legionari più vicini. «Bisogna raggiungere immediatamente quei tre!».

    Il crepitio ritmato delle caligae sul fondo breccioso della strettoia si diffuse istantaneo nello spazio tra le due fiancate pietrose e in pochi minuti i soldati superarono l’ansa creata dall’ingombro naturale, oltre il quale si erano eclissate le figure dei garamanti. Procedendo rapidi per quanto potevano e in fila per uno, i romani si ritrovarono davanti all’ultimo tratto di sentiero, un angusto letto di sabbia e frammenti di scisto che si sviluppava in leggera discesa, al centro del quale, aprendo le braccia, gli uomini potevano quasi toccare entrambe le pareti della fenditura.

    «Eccoli lì!», gracchiò Pacuvio, indicando tre macchie nere che fischiavano e si sbracciavano qualche metro più sotto, oltre il limite della gola. «Sono già fuori e puntano verso ovest!».

    Usciti dal fondo del crepaccio, i legionari rividero la sconfinata distesa desertica fondersi con i riflessi ramati del cielo e notarono il profilo paglierino di una struttura allungarsi a circa quaranta stadi dalla loro posizione.

    La guida più anziana attese immobile il loro arrivo, quindi attraversò il primo gruppo di soldati e si affiancò alla sagoma trafelata di Cetego. «Il nostro dio non ci ha dimenticato», esclamò soddisfatta, «e ha guidato la nostra marcia fino alla sua più antica dimora terrena».

    A braccia spalancate, il berbero mosse qualche passo in direzione del lontano edificio e rapì gli sguardi increduli della centuria. «Quello è ciò che cercavate», proruppe in tono quasi profetico, voltandosi di scatto con l’indice della destra rivolto alla costruzione, «e noi non abbiamo fallito nel nostro compito: ecco il tempio desertico dell’altissimo Ammone».

    Un silenzio impregnato di emozione avvolse per qualche istante le menti e i corpi dei legionari, imbambolati ad ammirare il brandello occidentale del panorama che si dispiegava davanti alle loro facce smunte, scottate per intere settimane dal bacio rovente del Sahara.

    Aurelio emise una risata liberatoria, sciolse la presa sullo scudo e si lasciò cadere sulle ginocchia, abbandonandosi di schiena nella sabbia del deserto. «Non ci credo. Alla fine l’abbiamo trovato!», mormorò con le labbra increspate in un sorriso e gli occhi chiusi, rivolti al cielo.

    Mentre gli altri soldati, sollevati nello spirito, seguivano l’esempio del signifer sedendosi nella polvere per un’ultima sosta, Cetego prese un otre pendente dal dorso di uno dei dromedari e si avvicinò alle guide berbere per offrirgli del vino. Uno stridulo ululato giunse alto e nitido dal retro della colonna, riecheggiando attraverso la lunga gola che i suoi uomini avevano percorso fino a poco prima, e altri quattro richiami simili si propagarono da alcuni punti nascosti, attutiti dalla maggiore distanza. «Che cosa sono?», chiese il centurione, porgendo la ghirba al capo dei garamanti. L’africano la rifiutò con un cenno della mano e strizzò gli occhi per concentrarsi, restando muto a osservare delle piccole volute di polvere sollevate a distanza da un improvviso soffio di vento caldo.

    «Allora?», ripeté il veterano, innervosito dall’espressione pensierosa del berbero.

    Il garamante scambiò qualche battuta concitata con i suoi compagni e indicò loro i piccoli vortici di sabbia che si duplicavano velocemente lungo il tragitto che avrebbero dovuto seguire. «Volpi del deserto», rispose atono e senza guardarlo, annusando le folate che spiravano sempre più intense e scrutando il cielo.

    «Noi li chiamiamo fennec. Non è bene restare ancora qui, dobbiamo riprendere subito il cammino».

    Cetego serrò le mascelle, turbato dalle sue parole ermetiche. «Perché?»

    «I fennec sono predatori notturni e di giorno sono muti e invisibili. Ne hai sentiti cinque e quelli erano richiami d’allarme. Il pericolo è in questo vento…». La guida s’interruppe, raccolse un pugno di sabbia e lo lasciò scivolare in un nuovo, vigoroso, sbuffo di corrente. «Simum», bisbigliò tra sé, aggrottando le sopracciglia. «Ora dobbiamo andare».

    Con l’animo inquieto, il veterano ordinò alla sua centuria di riformare alla svelta la colonna d’avanzamento e divise i dromedari su entrambi i lati del plotone. Gli animali, terrorizzati, stentavano a procedere, e sbuffavano scalciando nervosamente contro i legionari.

    Le guide riuscirono ad ammansirli con grande fatica e quando finalmente la marcia riprese, ognuna di loro conduceva per il morso la propria bestia, mentre le altre procedevano legate a gruppi di tre o quattro sui fianchi della centuria.

    Nel cielo insanguinato dal sole morente, i soldati combatterono contro la cappa di calore trasportata dalle raffiche di vento, sempre più insistenti e infuocate, e attraversarono con le ultime stille di energia il vasto quadrante sabbioso che li divideva dal contorno allungato del tempio.

    A quasi dieci stadi dalla meta, Cetego riconobbe le forme di un breve corridoio di colonne che anticipava un grandioso pilone decorato.

    «Ci siamo», urlò stentoreo ai suoi uomini, con la stessa baldanza di quando li preparava alla battaglia, «ho scelto i migliori uomini della x e loro non mi hanno mai deluso. Il tempio è lì, davanti a voi, e adesso non resta altro che terminare la parte più semplice della missione. Ogni contubernium ha il suo cartiglio e, una volta dentro, sapete bene cosa cercare. Qualsiasi altra cosa potrete razziarla».

    A quelle parole, le ovazioni delle prime file di legionari si mescolarono a strane imprecazioni di ribrezzo provenienti dalla retroguardia della colonna armata.

    «Che avete lì dietro?», rimbrottò a gran voce Pacuvio.

    «Maledette cavallette!», gridò una voce dal fondo, «ci siamo ritrovati in uno sciame enorme. Queste bastarde sembrano impazzite!».

    In pochi istanti, l’attacco delle locuste si espanse fulmineo alla lunghezza dell’intera centuria. Erano diverse centinaia, di grande taglia e di un verde intenso, e zirlavano ossessionate investendo le loriche e gli scudi dei soldati, quasi fossero attratte dai loro colori.

    Un rombo cupo e profondo si propagò lontano da sud est, simile al gorgoglio di un gigante furioso, e gli uomini si voltarono tutti alla loro destra, in attesa di capire cosa avesse provocato quella sorta di boato represso.

    Furono le voci impaurite dei garamanti e dar subito loro la risposta.

    «Presto! Correte al tempio!».

    «È la mano del Simum, un’enorme tempesta di sabbia! Spazza via ogni cosa e non lascia scampo».

    «Bisogna entrare subito nella casa di Ammone. Veloci, veloci!».

    I legionari filarono a perdifiato verso i due muraglioni rastremati che formavano l’imponente pilone del tempio, il simbolo delle montagne tra cui il sole nasce e muore, seguiti dappresso da un fragore sempre più alto e da un vento incandescente. Sulla soglia del corridoio di colonne che anticipava la facciata decorata dell’ingresso, Cetego si fermò a riprendere fiato nell’aria riarsa e carica di polvere. Piegato in avanti, con le mani sulle ginocchia, si voltò per un attimo a guardare il tragitto che aveva percorso correndo e un’immensa sensazione di paura gli offuscò i pensieri. A una velocità impressionante e con la potenza distruttiva di un ciclone, un colossale muro di polvere rossa avanzava verso sud, offuscando cielo e terra in un turbinio convulso e inarrestabile.

    Era uno spettacolo spaventoso: un terrificante fronte compatto che duplicava le stesse forme dei marosi in tempesta e che si elevava per circa sei stadi, ingoiando al suo passaggio intere dune e rimodellando a suo piacere il profilo brunito del deserto.

    «Superiamo il peristilio e cerchiamo di raggiungere al più presto la cella», urlò quasi disperato il centurione.

    «Oh grande Giove, tra pochissimo ci sarà addosso!», mormorò al suo fianco Pacuvio.

    I legionari attraversarono la facciata decorata del tempio, stretta fra i due alti trapezi rocciosi del pilone, e corsero oltre la sala ipostila seguiti dal ringhio disumano della tempesta.

    Tallonando i compagni di legione, Cetego e Pacuvio gettarono un’occhiata alle loro spalle, e intravidero le tre guide che s’inginocchiavano davanti al corridoio di colonne fuori dall’edificio, innalzando preghiere al dio Ammone.

    I due romani continuarono a correre, scambiandosi un angosciato sguardo d’intesa.

    Prigionieri del deserto.

    Ecco cosa sarebbero diventati.

    Prigionieri del deserto per il resto dell’eternità.

    2

    Turchia. Aprile 1985

    Ad alcune miglia da Güneyli. Provincia di Çanakkale

    Il van arrancava sul pietrisco dello sterrato, attraversando gli ultimi brandelli di foschia rischiarati dalla luce nascente del giorno.

    Superata l’ennesima curva di quel tortuoso sentiero in salita, l’uomo abbassò il finestrino del lato guidatore e lasciò che la frizzante frescura dell’alba invadesse l’abitacolo, pizzicandogli le guance e il collo come la sveglia di un’amante vogliosa.

    Non appena la pendenza del percorso scemò, il tipo al volante ingranò la terza e aumentò l’andatura del vecchio Mercedes, gettando un’occhiata attraverso il retrovisore ai due assistenti che russavano stravaccati nel lungo sedile posteriore. Erano gli unici collaboratori di cui si fidasse e i soli nell’intero gruppo di spedizione ai quali sentiva di poter rivelare il vero motivo di quella campagna archeologica.

    Dopo un altro tratto scosceso, il van superò l’erta che scalava il fianco della piccola altura e avanzò lungo il fronte ondulato del contrafforte, attraversando una stradina più ampia, costeggiata ai lati da lunghe macchie di prunalbi e cespugli di rovi. Accelerando ancora un po’, l’uomo spinse lo sguardo oltre i contorni del paesaggio circostante, ormai nitido nel primo chiarore mattutino, e si portò alle labbra il filtro di una Camel: ancora quattro chilometri in quel dolce e solitario saliscendi, quindi sarebbe finalmente giunto alle spalle del grande tumulo.

    Alla seconda boccata di fumo, il conducente si accorse che aveva i palmi sudati e sentì i battiti del cuore pulsargli nelle orecchie. Colpa dell’eccitazione, di quell’idea che poco a poco gli permeava le pareti della mente e si sforzava di trasformare il suo sogno nell’anticamera della realtà.

    C’erano voluti due anni.

    Ventiquattro lunghissimi mesi nei quali aveva continuato a studiare, approfondire e analizzare tutti i dati in suo possesso per organizzare quella campagna di scavi lungo le coste del Chersoneso Tracico.

    Dal principio era sembrata un’impresa titanica.

    Era da tempo che un team di archeologi occidentali non s’interessava a una ricognizione nell’antica terra degli ottomani e, del resto, la ritrosia delle autorità turche nella concessione dei permessi di scavo non incoraggiava certo lo sviluppo di nuove attività internazionali di ricerca e di studio in quella regione. L’iter per ottenere le autorizzazioni necessarie era lungo e difficoltoso. Chi sceglieva di affrontarlo si infilava nel labirinto di una burocrazia impantanata e spesso corrotta, che faceva arenare il progetto archeologico davanti a una specie di supercommissione ministeriale, istituita ad hoc dal governo per scoraggiare eventuali interessamenti esteri nell’esplorazione delle aree d’interesse turche.

    Ciononostante, dopo tutti quei mesi di lavoro e di attesa, la sua caparbietà, l’ombra lunga del suo mentore e la validità del suo programma d’indagine erano riuscite a strappare il tanto agognato contratto di concessione.

    A circa due lustri di distanza, quello che un tempo era stato il giovane e promettente aiutante del famoso archeologo Andronikos Manolis durante l’incredibile scavo di Verghina, adesso era diventato uno studioso affermato, capo di un’équipe archeologica impegnata in una sfida mai tentata prima: l’individuazione e il recupero dei resti dell’antica città di Lisimachia, capitale del regno nato dalle gesta militari del satrapo Lisimaco – guardia del corpo e generale del più grande condottiero di tutti i tempi.

    Alessandro Magno.

    Erano passate circa otto settimane da quando il suo team aveva raggiunto le coste del Chersoneso e le battute di sterri avevano già riportato risultati interessanti. Nella piana poco distante dal campo base, a quattro chilometri dal mare, erano stati rinvenuti stralci di fortificazioni realizzate con grossi blocchi di pietra, probabilmente afferenti alle antiche mura cittadine, mentre nella parte più interna e collinare dell’area inscritta nell’ipotetico perimetro dell’antica Lisimachia erano emersi diversi monconi di parete e parecchi frammenti di colonne, insieme a tracce di fondamenta edili. Sulla base di queste scoperte gli archeologi ipotizzavano di aver individuato con insperata velocità l’antica acropoli.

    Per quanto avessero lavorato tutti con instancabile zelo, c’era ancora molto da scavare e ciò che la terra aveva restituito al presente non era altro che brandelli di roccia estratti a caso da un oceano di pietra. Il sito andava esplorato a lungo, analizzato e ridisegnato sulla base dei nuovi ritrovamenti, e ogni volta la proiezione tridimensionale del suo aspetto doveva interfacciarsi correttamente con le planimetrie di scavo aggiornate e gli ultimi volumi architettonici recuperati dalle viscere del suolo.

    Con le labbra increspate da un sorriso sornione, l’uomo deviò nel ramo ascendente della strada che stava percorrendo e avanzò ancora per qualche centinaio di metri in un tratturo che serpeggiava ai margini di un oliveto selvatico.

    Al diavolo l’obiettivo ufficiale del suo progetto archeologico e fanculo alle intere settimane di sterri trascorse a liberare le pietre millenarie di Lisimachia dai banchi terrosi nei quali avevano riposato per oltre due millenni: era quell’ultima fascia collinare che adesso gli si apriva davanti agli occhi a separarlo dal raggiungimento della sua vera meta.

    Recuperare i resti dell’antica città era servito semplicemente a tappare la bocca dell’autorità turca con dei risultati concreti e a infondere nella soprintendenza locale la speranza del ritrovamento di un nuovo, grande parco archeologico da inserire nell’elenco dei siti ad alto interesse turistico.

    Un piano perfetto, studiato a tavolino in ogni minimo dettaglio. Un lavoro di fino che, portato a termine senza sbavature, gli avrebbe donato l’occasione che inseguiva segretamente ormai da cinque anni.

    E così era stato.

    Non un errore, né un’incertezza nel suo comportamento: i turchi gli avevano perfino profilato l’idea di allungare la durata della sua concessione.

    I raggi del sole avevano appena scalzato i candidi riflessi dell’alba e il cielo cominciava a intingersi in una bella tempera dalle sfumature celeste pastello quando il van superò il tratto terminale del poggio che aveva preso a risalire pochi

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