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Il mistero di Villa Saturn
Il mistero di Villa Saturn
Il mistero di Villa Saturn
E-book680 pagine7 ore

Il mistero di Villa Saturn

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Info su questo ebook

Le indagini dei detective di Gower St.

Londra, 1883.
Sidney Grice, il più famoso detective della città, ha accettato un caso nello Yorkshire e ha lasciato la sua pupilla March Middleton a occuparsi della casa in Gower Street. Ma la tranquillità della vita domestica non esercita un particolare fascino su March, che aspira a diventare la più famosa (nonché unica) detective donna di Londra. Così, quando riceve una strana lettera da un facoltoso parente che non sapeva di avere, March, incuriosita, decide di accettare l’invito a trascorrere la notte nella splendida villa Saturn per conoscere il misterioso zio Tolly. Non può certo immaginare che la mattina dopo si ritroverà sulla scena di un crimine. E questa volta la priorità di March non è indagare sul caso, ma difendersi da un’accusa di omicidio…

Intricati enigmi e humour: il detective inglese più eccentrico e affascinante dai tempi di Sherlock Holmes!
Una nuova indagine per i due detective irriverenti e scaltri più famosi di Londra: March Middleton e Sidney Grice non hanno rivali.

«Il brillante romanzo di Kasasian ci presenta un’indimenticabile nuova coppia di detective.»
Publishers Weekly

«Grice e Middleton promettono bene, conviene intercettarli adesso.»
Daily Mail

«Il libro di Kasasian offre uno sguardo deciso sul lato oscuro della Londra vittoriana, tratteggiando il ritratto di un’eroina abbastanza forte da resistere a un detective scontroso. Storia avvincente, humour sottile e personaggi vivaci: una bella sorpresa.» 
Kirkus Reviews
M.R.C. Kasasian
Cresciuto nel Lancashire, prima di diventare uno scrittore, ha fatto molti lavori diversi. Vive con la moglie nel Suffolk durante l’estate e a Malta d’inverno.Il mistero di villa Saturn è il terzo libro della serie investigativa dedicata al detective Sidney Grice e alla sua assistente March Middleton, di cui la Newton Compton ha pubblicato anche i primi due episodi: I delitti di Mangle Street e La maledizione di casa Foskett.
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2016
ISBN9788854196865
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    Anteprima del libro

    Il mistero di Villa Saturn - M.R.C. Kasasian

    1337

    Titolo originale: Death Descends on Saturn Villa

    Copyright © M.R.C. Kasasian, 2015

    First published in the UK in 2015 by Head of Zeus Ltd.

    The moral right of M.R.C. Kasasian to be identified as the author of this work

    has been asserted in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act of 1988.

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese a cura di Librofficina

    (Micol Cerato, Giulia Grimoldi, Chiara Beltrami)

    Prima edizione ebook: luglio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9686-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Art Direction: Sebastiano Barcaroli

    Illustrazione: © Jim Tierney

    M.R.C. Kasasian

    Il mistero di Villa Saturn

    Per Trevor Grice

    Premessa alla prima edizione

    Potrebbe apparire presuntuoso da parte mia scrivere una prefazione a un libro pensato per celebrare il mio ingegno ma, sebbene non abbia problemi a vantarmi delle mie molte qualità invidiabili, c’è poca gloria in serbo per chiunque si sia trovato coinvolto negli eventi qui descritti.

    Per ovvie ragioni Miss Middleton non è stata in grado di fornire un resoconto completo di questo tragico caso e, dopo la sua dipartita, è ricaduto su di me il compito di concluderlo per lei. Temo che il mio stile manchi della sua leggerezza, ma quantomeno sono in grado di fornire alcuni dei dettagli mancanti.

    Ho resistito all’impulso di correggere i numerosi errori presenti nel resoconto della mia pupilla, ed è necessario dare merito a Mr Laurance Palmer (il caporedattore di Messrs Hall and Co.) per aver portato i suoi appunti a qualcosa che si avvicina alla coerenza, sebbene io auspicassi da parte di entrambi un po’ più di riguardo per la tecnica scientifica e un po’ meno interesse per gli aspetti più sensazionalistici.

    È stato solamente il mio desiderio di onorare le obbligazioni contrattuali di Miss Middleton a spingermi a collaborare a questo racconto, permettendone la pubblicazione in tempi così brevi.

    Considero questo caso uno dei miei pochi fallimenti, e senza dubbio il più grande tra essi. Ho giurato a March che l’avrei salvata ma, alla fine, non sono stato nelle condizioni di poter tenere fede alla mia parola.

    La sua sedia accanto al focolare è vuota e, anche se quando lei era qui desideravo pace e tranquillità e ora abbia abbondanza di entrambe, sono costretto a confessare che la mia casa è un luogo tetro senza di lei.

    Sidney Grice, 2 maggio 1883

    125 Gower Street

    PARTE I

    Estratti dai diari di March Middleton

    1

    Il parto dell’anima

    Le fiamme del fuoco in cui avevo lasciato a consumarsi il messaggio di Dorna Berry si erano spente da tempo, ma quelle parole non avevano ancora smesso di perseguitarmi. Le vedevo quando tentavo di leggere le lettere di Edward. Le vedevo nelle righe di tutti i libri nei quali cercavo di nascondermi. Ero stata spesso sul punto di interrogare il mio tutore circa il loro significato, ma ogni volta mi tiravo indietro, terrorizzata all’idea che corrispondessero al vero.

    Non avevo mai sentito Sidney Grice dire una menzogna. E se quando l’avessi affrontato lui ammettesse la sua colpa? Dove sarei andata? Chi mi avrebbe protetto, chi mi avrebbe dato rifugio? Di chi potevo fidarmi?

    Mio padre era morto da quasi due anni in un incidente in Svizzera, durante una passeggiata. Era tutto ciò che restava della mia famiglia, perché mia madre, mi era stato detto, aveva dato alla luce me e la sua anima immortale in uno stesso respiro.

    La Londra del 1883 era un luogo impietoso e avevo visto più di una donna rispettabile ridotta in povertà e costretta a scegliere tra l’immoralità e la fame, in mancanza di un uomo che potesse prendersi cura di lei.

    Inoltre, Sidney Grice era probabilmente – o, a suo giudizio, senza dubbio alcuno – il più eminente detective personale dell’Impero Britannico e io covavo la speranza di seguire le sue orme.

    Sapevo che non avrei potuto lasciar cadere la faccenda. Era solo questione di trovare il momento giusto.

    Dorna aveva scritto:

    7 novembre 1882

    Ho paura per voi, March. Lasciate quella casa. Lasciatela oggi stesso o Sidney Grice vi distruggerà, così come ha distrutto me e come sicuramente ha ucciso vostra madre.

    2

    Il ritratto di Marjory Gregory

    Marjory Gregory aveva tutto. Era graziosa, affascinante e intelligente. Si era sposata bene e aveva avuto due bellissimi bambini. Coltivava una fama crescente come artista, riceveva molte richieste di ritratti ed era stata esposta alla Royal Academy.

    Il giorno di Natale del 1876, intorno alle tre del mattino, Marjory Gregory era scesa dal letto. Suo marito si era svegliato, ma non si era preoccupato molto perché la donna soffriva da tempo d’insonnia. Lei si era infilata la vestaglia e le pantofole ed era scesa al piano di sotto. Lui era tornato a dormire.

    Nessuno sa cosa abbia fatto per le quattro o cinque ore successive. Forse aveva guardato alcuni dei quadri che aveva dipinto in un passato lontano. Erano ancora appesi nello studio, appoggiati sui cavalletti o contro le pareti. Forse aveva preso in mano il carboncino. Durante gli ultimi sette mesi aveva cercato ogni giorno di lavorare a un autoritratto, passando ore infinite a fissarsi negli occhi solo per distruggere il risultato la sera.

    Tutto ciò che si sa è che mentre il sole si alzava da dietro Winter Hill, il maggiore Bernard Gregory fu svegliato da un grido. Armato del suo vecchio revolver di servizio, corse al piano di sotto e trovò la moglie nella sua poltrona di vimini preferita, aggredita dai frenetici fendenti di un coltello da scalco. Le aveva tagliato il naso e ferito le labbra. Il seno era stato tranciato selvaggiamente, e lui arrivò giusto in tempo per vedere il suo stomaco squarciarsi, mentre lei si contorceva in una indicibile agonia.

    Prima che Bernard Gregory potesse raggiungerla, con un ultimo affondo profondo il coltello le aveva aperto la gola. L’arteria carotidea era stata completamente recisa e la trachea lacerata.

    Marjory Gregory era morta, soffocata nel suo stesso sangue.

    C’erano molte cose strane nelle circostanze della sua morte, non ultimo il fatto che la mano che brandiva il coltello fosse stata quella di Marjory stessa. Ma il maggiore Gregory non aveva accettato il verdetto di suicidio. Sua moglie era stata assassinata, insisteva, quattro anni e mezzo prima.

    3

    La morte di Dom Hart

    Iniziò come tutto deve finire – con la morte e con un prete.

    L’uomo che stava di fronte a noi in quella scura mattina di gennaio indossava un abito nero, il cappuccio tirato indietro a svelare una massa di capelli castani folti e ingrigiti e un viso tondo dalle guance rosate, la punta del grosso naso ancora arrossata dal gelo di Londra.

    «Vi prego», obiettò. «Non posso prendere il vostro posto».

    «Ma come fate a sapere che è mio?». Non mi trovavo vicino alla poltrona quando gliel’avevo offerta.

    Il nostro visitatore sorrise. «Non penso che Mr Grice legga le poesie di John Clare». Indicò il libro che giaceva aperto sul cuscino.

    Io risi. «Siete venuto a insegnarci il nostro mestiere?»

    «Se è così, scoprirete di aver sprecato un viaggio», mormorò il mio tutore.

    «Lasciate che vi prenda un’altra sedia», proposi io. Ma il monaco posò a terra la sua borsa da viaggio e prese una sedia di legno dal tavolo centrale, facendola ruotare facilmente in una mano e tornando da noi per depositarla di fronte al camino.

    Sidney Grice e io sedemmo l’uno di fronte all’altra ai due lati del focolare, mentre il nostro visitatore prendeva posto.

    «Un bel cambio di carriera il vostro, da taverniere a monaco benedettino», commentò Mr G, e lui inclinò il capo perplesso.

    «Indovinare la mia vocazione non richiede un grande sforzo immaginativo». Si toccò la croce d’argento che portava al collo. «Soprattutto dato che mi sono presentato come frate Ambrose. Ma in nome del cielo, come potete conoscere la mia storia?»

    «Nessun uomo può nascondere il suo passato». Il mio tutore agitò una mano. «Per quanto più di uno abbia tentato di farlo. Sta scritto sul suo viso, nelle sue mani, nei movimenti e nella parlata. È piuttosto evidente che abbiate lavorato in una piccola taverna vicino al mare».

    Il sacerdote si grattò il mento. «Sono più di dieci anni che non metto piede in una taverna né vado sulla costa. Quale genere d’indizio può trovarsi ormai sulla mia persona?».

    Mr G si appoggiò allo schienale. «L’ho sospettato subito dalle vostre maniere. Avete l’aria sicura ma affabile di chi serve pur mantenendo il comando».

    «Lo stesso potrebbe dirsi di un capocameriere», ragionai io.

    «Un cameriere, qualunque sia il suo rango, sarebbe più deferente». Mr G tirò su col naso. «Un taverniere sa essere cordiale, eppure conserva l’autorità necessaria a occuparsi delle persone che ha ubriacato».

    «Tutto qui?». Frate Ambrose non sembrava colpito. «Semplicemente mi atteggio da proprietario terriero?»

    «È stata un’indicazione sul mio cammino verso la verità», gli disse il mio tutore. «Avete un torso ben sviluppato – muscoloso più che obeso, sebbene negli ultimi tempi vi siate appesantito di grasso».

    A questa descrizione, il monaco strinse le labbra. «Vi prego, proseguite».

    Il mio tutore congiunse i polpastrelli. «Questo genere di sviluppo è il prodotto di un lavoro che comporta il sollevamento di carichi pesanti, come potrebbe accadere a un taverniere con le botti da spostare. Avete trasportato quella sedia con uno sforzo minimo».

    «Molti altri lavori comportano il sollevamento di pesi», obiettò frate Ambrose. «Uno stivatore, per esempio».

    «Senza dubbio», convenne Mr G, «ma non ho mai incontrato un lavoratore portuale che non avesse la schiena curvata dal lavoro, e il vostro braccio destro è molto più sviluppato del sinistro, risultato di molti anni trascorsi ad azionare la pompa per la birra».

    «E se fossi un falegname? Usare una sega sortirebbe lo stesso effetto», propose il monaco.

    Mr G fece un sorrisetto sottile. «Con il passare degli anni le vostre mani avrebbero potuto ammorbidirsi e perdere i calli, ma devo ancora incontrare un falegname che non abbia le dita ispessite dal duro uso a cui sono state sottoposte, e permanentemente segnate da cicatrici di schegge e profondi tagli causati da incidenti con gli strumenti di lavoro». Si sporse all’indietro per tirare due volte il cordoncino del campanello, facendo oscillare il ciondolo a forma di teschio.

    «E come facevate a sapere che la mia taverna era piccola e che si trovava sulla costa?»

    «Uno stabilimento più grande avrebbe avuto un addetto a occuparsi delle botti». Il mio tutore si scostò i folti capelli neri dalla fronte. «E il vostro accento – se il mio eccezionale udito non è stato tratto in inganno, cosa che non succede mai – proviene da Hove, o dai suoi dintorni. Molti uomini sognano di lasciare la città per gestire una taverna in riva al mare ma non ho mai conosciuto qualcuno che abbia fatto il contrario».

    Frate Ambrose ridacchiò. «Siete uno spettacolo, Mr Grice».

    E il mio tutore inspirò bruscamente. «Non sono né un suonatore di ghironda né un prestigiatore. Parlatemi del vostro problema».

    Il viso del nostro ospite si oscurò. «Non so a quale religione crediate, Mr Grice».

    «Non alla vostra, statene certo», disse aspramente lui.

    «Questa è una buona cosa».

    «Come mai?», chiesi io.

    E frate Ambrose si toccò il crocefisso. «Vogliamo qualcuno che non nutra un timore reverenziale per la nostra vocazione. Un cattolico devoto potrebbe esitare a contraddire o muovere accuse contro qualcuno che considera un padre spirituale».

    «Quanto a questo posso rasserenarvi», assicurai. «Mr Grice non si cura di chi offende».

    La bocca del monaco ebbe un fremito. «È quello che ci era stato detto».

    «Allora potrebbero avervi anche informati del fatto che non viaggio mai oltre i confini di questa grande ma abietta metropoli», gli comunicò Mr G.

    Frate Ambrose sfregò il pollice sui piedi della figurina di Cristo. «Accetterete almeno di ascoltarmi?»

    «Potrebbe riempire un momento altrimenti tedioso». Il mio tutore allungò una mano oltre lo schienale della sedia. «Procedete». Impaziente, tirò altre due volte il cordoncino del campanello.

    «Come avete notato sono un monaco dell’Ordine di san Benedetto. Negli ultimi otto anni ho risieduto nello Yorkshire».

    «Un luogo selvaggio». Mr G rabbrividì. «Popolato da selvaggi in giacche di tweed e calze a fantasia».

    «Credo abbia dei bellissimi paesaggi», dissi io.

    Sidney Grice scrollò le spalle. «Nessun luogo è bello finché non lo si è raso al suolo e edificato». Agitò una mano. «Riprendete».

    «L’abbazia di Claister era un tempo uno dei più grandi monasteri d’Inghilterra», ci disse frate Ambrose, «finché non venne sciolta da Enrico

    VIII

    nella sua lotta con il papa per la supremazia. È stata riaperta trentaquattro anni fa nel…».

    «1849», intervenne Mr G. «Anche un non cattolico può fare quel calcolo».

    «Il monastero è una pallida reincarnazione di ciò che era stato», proseguì frate Ambrose. «Un tempo la sua superficie ospitava trecento monaci con i loro forni, caseifici, maniscalchi e distillerie – una piccola città autosufficiente. Adesso siamo una dozzina, stretti in un’unica casa, e sopravviviamo grazie al poco che guadagniamo con i prodotti del nostro orto e con le stampe di opuscoli religiosi, ma soprattutto della carità dei lasciti testamentari».

    «Senza dubbio di coloro che desiderano far celebrare messe per la loro anima nella convinzione che Dio giudichi i ricchi con più benevolenza», sottolineò acido Sidney Grice.

    «O di coloro che hanno carità», lo contraddisse il nostro visitatore, con gentilezza. Si era tagliato nel radersi, notai, e alcune gocce di sangue avevano macchiato il colletto della sua tonaca. «Ma per tornare al punto, il nostro amato abate, Dom Simeon, fu chiamato a sé dal Signore lo scorso gennaio. Noi speravamo che il più anziano dei nostri fratelli in Cristo, Jerome, gli sarebbe succeduto – e in effetti divenne capo temporaneo – ma al suo posto fu nominato un esterno». Le lunghe dita di frate Ambrose si chiusero intorno al crocefisso. «Dom Ignatius Hart non fu una scelta popolare. Arrivò con la fama ben meritata di essere un uomo crudele. Aveva maniere altezzose, si offendeva facilmente e impiegava molto tempo a dimenticare un rancore, oltre ad avere un dono speciale per trasformare mansioni popolari in compiti intollerabili.

    «Frate Daniel, il più giovane tra noi, lasciò gli ordini pur di non affrontare le umiliazioni quotidiane che gli venivano imposte; e molti presero in considerazione l’idea di fare lo stesso, ma i voti di un monaco legano tanto strettamente la sua anima, ed è così forte il timore di perderla, che per scioglierli è necessaria una grande paura». Rifletté qualche istante sulle proprie parole. «L’estate fu dura ma l’inverno fu peggio. Dom Ignatius introdusse bagni freddi come penitenza per colpe di nessun conto e pochi dubitano che questo trattamento tanto brutale abbia accelerato la fine di frate Peter». Le dita di frate Ambrose serrarono la stretta. «Iniziammo a tenere incontri clandestini per discutere la maniera migliore di affrontare il nostro maestro e devo confessare che nel calore di quelle discussioni più di un uomo, me incluso, si azzardò a bisbigliare minacce.

    «Poi, il quinto giorno di gennaio, in un freddo e gelido venerdì mattina, Dom Ignatius non si presentò per le Lodi. La cosa era alquanto insolita, soprattutto in occasione della festa dell’Epifania, e tenemmo una discussione su chi, tra noi, avrebbe dovuto svegliarlo».

    «Non mi sembrate un uomo timido», dissi io, e lui lasciò ricadere la mano sul grembo.

    «Quando sei legato a un tiranno da un voto di assoluta obbedienza rifletti a lungo prima di suscitare il suo disappunto». Afferrò le estremità della sua cintura di corda. «Infine si convenne che dovevamo rischiare la sua furia ed entrammo in massa nella sua cella».

    «Lasciatemi indovinare, a costo di infrangere una delle mie stesse regole», intervenne Mr G. «Il vostro odiato maestro era morto».

    Frate Ambrose annuì truce. «Lo trovammo sul pavimento di pietra, in una pozza di vomito così preternaturalmente nero che alcuni dei miei fratelli temettero fosse stato posseduto dal demonio». Si avvolse la corda intorno al pugno. «La polizia venne chiamata immediatamente. Sono convinti che stiamo nascondendo il colpevole: hanno minacciato di arrestarci tutti e di chiudere l’Ordine, il che è poi il motivo, Mr Grice, per cui ho fatto questo viaggio». Frate Ambrose si portò una mano alla fronte. «Vorremmo che investigaste sulla questione».

    Mr G guardò il proprio orologio. «Devo ancora trovare qualche punto di contatto tra ciò che voi desiderate e ciò che io sono incline a fare».

    Molly entrò con un vassoio di tè e lo posò con diffidenza sul tavolo tra noi.

    «Vi faccio paura?», chiese il nostro ospite mentre lei indietreggiava.

    «Oh, io e la cuoca cincischiavamo vicino alla finestra e quando abbiamo visto la vostra tonaca abbiamo pensato che era sua madre che si vendicava».

    Il monaco ridacchiò. «Ma perché la madre della cuoca dovrebbe desiderare vendetta?»

    «Be’…».

    «Fuori di qua», sbottò il suo datore di lavoro.

    Molly annuì tremante e se ne andò.

    «A Mr Grice non piace lasciare Londra», spiegai al nostro ospite, ma lui non sembrò preoccupato.

    «È quello che mi aspettavo», mi disse, «dopo aver fatto qualche domanda sul suo conto. Ma mi hanno lasciato intendere che è un uomo eccezionalmente avido».

    «Potreste anche aver notato che si trova ancora in questa stanza», grugnì Mr G.

    «Penso che sarebbe necessaria una notevole quantità di denaro per attirarlo fino a Claister». Versai tre tazze di tè.

    «Siamo un Ordine povero», disse frate Ambrose.

    «Allora vi augurerò una buona giornata». Mr G fece ruotare la tazza per allineare il manico al lato lungo del vassoio.

    «Ma avete qualcos’altro da offrire», dissi io.

    Il monaco annuì. «Siete una giovane donna molto perspicace», approvò.

    «Se avete intenzione di offrire messe per la mia anima, risparmiatemi il disturbo». Mr G mescolò il suo tè prima in una e poi nell’altra direzione. «Ma potrei essere interessato a quell’antico libro nella vostra valigia».

    «Come fate a sapere che è un libro antico?», chiesi io.

    «Ne sento l’odore».

    E quando frate Ambrose lo estrasse riuscii a sentirlo anch’io: l’inconfondibile odore stantio di pergamena antica e cuoio leggermente ammuffito. Era come essere di nuovo nella biblioteca di mio padre.

    «Mein Gott!», esclamò il mio tutore. «Il Secreta Botanica di Jacob Cromwell».

    «Un libro di giardinaggio?», azzardai, e gli uomini sollevarono il volto in sincrona disperazione.

    «Il Secreta Botanica raccoglie tutto ciò che si sapeva nel 1452 sulle arti del veleno», spiegò il mio tutore. «Le fonti, gli effetti, i sintomi, i sapori e il modo di mascherarli». Si portò una mano all’occhio. «È la bibbia della tossicologia». Il suo viso era arrossato dall’eccitazione. «Si dice che Lucrezia Borgia lo leggesse in chiesa al posto del breviario».

    «Sono soltanto quattro gli esemplari di cui si conosce l’esistenza», mi disse frate Ambrose, «e due di questi sono tenuti sotto chiave nelle segrete del Vaticano».

    «L’avete letto?», chiesi io.

    Il monaco scosse la testa. «Il Secreta si trova nell’Index librorum prohibitorum – l’elenco di libri la cui lettura è proibita ai cattolici – dal 1562».

    «Lasciate che lo esamini», implorò Mr G, ma il nostro ospite fece scivolare di nuovo il libro nella borsa.

    «Potrei non riaverlo più indietro. Ci sono uomini che hanno ucciso per l’opportunità di dare un’occhiata ai contenuti di questo tomo». Frate Ambrose finì il suo tè in un sorso. «Se, tuttavia, foste in grado di aiutarci», si asciugò la bocca con il dorso della mano, «su quello scaffale c’è uno spazio che questo volume riempirebbe molto bene».

    L’occhio di Sidney Grice scivolò fuori dall’orbita e lui lo afferrò al volo senza nemmeno guardare. «E se le mie indagini provassero che voi e alcuni – o tutti – i vostri colleghi siete colpevoli?».

    Frate Ambrose considerò la domanda. «Farò preparare un documento in cui mi impegno a lasciare il Secreta nelle vostre mani il giorno in cui rivelerete l’identità del colpevole o dei colpevoli, qualunque sia il risultato della vostra inchiesta».

    Mr G si separò le palpebre con pollice e indice. «Accetterò il caso». Rimise l’occhio al suo posto.

    «Bene», dissi io. «Non sono mai stata nello Yorkshire».

    «Mi rincresce informarvi che, sebbene stiamo permettendo con riluttanza a un eretico autoconfesso di varcare le nostre porte, le regole del monastero proibiscono fermamente l’ingresso a qualcosa di tanto impuro come una donna».

    «Le donne non sono più impure degli uomini», ribattei, e il nostro ospite sorrise saggiamente.

    «Dimenticate, Miss Middleton, che un tempo io facevo il taverniere».

    4

    Il cane e la lettera

    L’inverno era calato con forza e con esso erano arrivate giornate brevi e buie, rese più tetre dalla pioggia fangosa e dalle pesanti nebbie giallastre. Non avevo mai rimpianto la mia vecchia vita in India con tanto ardore come nelle lunghe ore trascorse a disegnare accanto al fuoco o in piedi davanti alla finestra, a guardare i mercanti dare battaglia agli elementi o le folle erranti di senzatetto che frugavano nella sporcizia delle strade in cerca di qualche avanzo putrefatto da mangiare.

    Sidney Grice partì da solo la mattina seguente.

    «Quanto tempo pensate di stare via?». Feci ruotare la manovella d’ottone per issare fuori di casa la nostra bandiera verde e chiamare una carrozza.

    «Dubito che mi ci vorrà più di qualche giorno», disse lui mentre Molly gli porgeva la sua Fiaschetta Termica Brevetto Grice piena di tè. «I clerici romani hanno una mente sottile e diabolica, e perciò molto più semplice da afferrare delle azioni stupide e goffe del criminale comune. La stupidità è l’unica cosa che riesca a confondermi».

    Mi sovvenne che, se per una qualunque ragione il mio tutore non avesse potuto fare ritorno, non avrei mai conosciuto la sua risposta alla lettera, ma per l’ennesima volta persi il coraggio e chiesi solo: «Avete messo in valigia lo spazzolino da denti?»

    «Sì».

    «E un cambio di camicie e colletti?»

    «So che state cercando di canzonarmi». Mr G si sistemò l’occhio di vetro nello specchio del soggiorno. «Ma dovreste sapere ormai che non ho mai ricevuto la maledizione di un senso dell’umorismo». Sollevò la valigia. «Vi prego di non fare nulla che possa causarmi imbarazzo, March». E con queste parole affettuose se ne andò.

    Come compagnia umana avevo solo Molly e anche la mia gattina, Spiritella, sembrava in letargo, ma Sidney Grice non se n’era andato da nemmeno un’ora quando ricevemmo la prima visita, una certa Mrs Prendergast, che veniva a chiedere aiuto per ritrovare il suo cagnolino smarrito. Il mio tutore si sarebbe sentito fortemente insultato, ma io non avevo nulla di meglio da fare e accompagnai subito la mia cliente singhiozzante alla sua residenza. Viveva in una bella casa di tre stanze dopo Upper Thornhaugh Street e mi portò ansiosa a vedere il lettino e le ciotole del piccolo Albert in un ripostiglio del sottoscala.

    Ero incerta su come portare avanti l’indagine e così le sottoposi la secolare domanda dei genitori: «Dove l’avete visto l’ultima volta?»

    «Pensate che potreste trovare un indizio?». Mi portò nella lavanderia del seminterrato dove individuai un cavalier king charles spaniel nero-focato che dormiva accoccolato su un mucchio di coperte, nascosto dalla federa di un cuscino.

    «Alby!». Estasiata, Mrs Prendergast prese a riempirlo di baci sul naso e sulla bocca finché il cane non parve nauseato quasi quanto me. Insistette affinché mi fermassi per il tè e una torta ai canditi, e mentre me ne andavo mi premette in mano cinque scellini. Era il primo caso di cui mi occupavo da sola, ma decisamente non del genere di cui mi sarei vantata quando fossi diventata la prima detective privata donna di Londra.

    Quando arrivai a casa avevano appena consegnato la posta di mezzogiorno e tutte le lettere erano impilate sulla scrivania di Mr G, compreso un pacchetto recante l’illustre sigillo granata del re di Polonia. Di fianco c’erano tre lettere per me: il conto del mio sarto, che accantonai in fretta; Mr Warwick, il mio agente immobiliare, il quale mi informava che gli affittuari della Fattoria, la mia casa di famiglia di Parbold, avevano interrotto il loro contratto di affitto; e un’altra con il timbro postale di Highgate. In mancanza di meglio da fare, decisi di applicare le tecniche che il mio tutore aveva messo a punto per affrontare la corrispondenza inaspettata ed esaminai la busta, sollevandola davanti alla lampada a gas e annusandola. Usai una delle sue lenti d’ingrandimento. Recava alcuni graffi leggeri e una macchia ellittica grigia ancora più leggera, e l’inchiostro aveva un’insolita sfumatura verde, ma tutto sommato si trattava solo di una busta ordinaria, da quattro penny al centinaio.

    La calligrafia era un corsivo raffinato e maschile, quello stile antico dietro cui s’intravedeva il fantasma d’innumerevoli colpi di righello, pieno di curve e ghirigori che gli davano un’aria elegante ma lo rendevano quasi illeggibile. Sperai che il contenuto fosse più facile da decifrare ma rimasi delusa. L’autore aveva approfittato della superficie più ampia per dare pieno sfogo alla sua esuberanza calligrafica e le parole si curvavano e si intersecavano l’una sull’altra in una filigrana quasi incomprensibile.

    Suonai il campanello perché mi portassero del tè e mi accomodai alla scrivania per studiarla. La firma era grande e attraversava l’intera pagina ma, nonostante le doti calligrafiche dello scrivente, non riuscii a decifrare altro che un possibile Sergente o Marchese. Tornai alla frase iniziale. La prima parola, Slgf, voleva essere senza dubbio Dear, cara. Cercai altri ghirigori simili per ogni lettera e individuai alcune possibilità che ricopiai su un foglio di carta pulito. La busta fu d’aiuto perché sapevo cosa doveva esserci scritto.

    Molly entrò con l’aria di aver dormito vestita, portando un vassoio. Quando Mr G non c’era prendevo il tè con i biscotti. Lui li mangiava raramente, a causa della sua eccentrica convinzione che lo zucchero facesse male ai denti.

    «Hai idea di cosa dica questo?».

    Le sue ciglia tremolarono. «È il conto del macellaio?»

    «Sai bene che Mr Grice non tollera carne in casa sua».

    Molly arrossì. «Be’, ma visto che lui non c’è…».

    Sapevo di aver sentito odore di salsicce ma pensavo che l’aroma provenisse dalla casa dei vicini. «Ma quando arriverà il conto, come speri di spiegarlo?», chiesi, mentre lei si avvolgeva una ciocca di capelli intorno al pollice.

    «Suo figlio fa il verduriere e così gli abbiamo detto di segnarlo come fagioli».

    «Mi hai profondamente delusa, Molly». La guardai severamente. «Agire in questo modo alle spalle del tuo padrone».

    Molly liberò il pollice dai capelli. «Vi prego, signorina, non fate la spia. Ci sbatterà fuori senza che possiamo dire be’ e io non ho mai avuto un padrone gentile come Mr Grice, anche se è scorbutico come un tasso, e per favore non ditegli neanche che ho detto questo».

    Posai la matita. «Temo che tu non mi abbia lasciato scelta, Molly».

    «Oh». Lei impallidì. «Oh, ma… Oh…».

    «Sempre che», dissi, «io non finisca per restare coinvolta nel crimine, nel qual caso non potrei denunciarlo senza incriminarmi a mia volta».

    Pensierosa, Molly si mordicchiò una ciocca di capelli, aprì la bocca, la richiuse e riprese a masticare. «Vi porto un piatto», dichiarò.

    «E molta mostarda». Feci ritorno alla lettera.

    Cara March, tradussi infine. Era evidente che non si trattava di una missiva formale ma non riuscivo a pensare a nessun conoscente che vivesse a Highgate. Non c’ero neanche mai stata. Perdere – No – Perdonare questo – mi sforzai di decifrare la parola successiva prima di decidere che diceva approccio. Stavo iniziando a entrare nell’ottica giusta, addestrando l’occhio a ignorare gli abbellimenti e a concentrarsi sull’essenza di ogni parola: indesiderato ma…

    Molly arrivò con la mia tangente.

    «Di’ alla cuoca di bruciare del cavolo tenendo la porta del seminterrato aperta», dissi, e lei sgranò gli occhi.

    «Accidenti, prima o poi vi trasformiamo in una criminale».

    Tagliai a metà una delle salsicce. «Spero di no, perché senza dubbio Mr Grice mi consegnerebbe alla giustizia in un batter d’occhio».

    Checché si dica della frutta, il sapore delle salsicce clandestine è impareggiabile. Ne mangiai due prima di tornare al mio lavoro, e quel piatto speciale dovette rinvigorire il mio intelletto perché, quando ebbi finito di consumare l’ultima e mentre le prime tracce di incinerazione iniziavano a filtrare su per le scale, mi scoprii in grado di leggere la lettera per intero.

    Villa Saturn

    Highgate

    Giovedì 20 ottobre

    Cara March,

    Vi prego di perdonare questo approccio indesiderato ma non riuscivo a pensare a un modo migliore per contattarvi.

    Permettetemi di presentarmi. Il mio nome è Ptolemy Travers Smyth.

    Dubito fortemente che abbiate mai sentito parlare di me, ma la verità è che sono cugino di vostro padre e ho pertanto la convinzione di rappresentare per voi (e che allo stesso tempo voi rappresentiate per me), il parente più stretto e forse addirittura l’unico ancora in vita.

    Sono un uomo vecchio e temo che non resterò più a lungo in questo mondo, e il mio unico desiderio sarebbe quello di vedervi prima di morire. Mi recherebbe un piacere inaudito se voleste farmi visita. Sono a casa tutti i giorni. Venite per cena oggi, se potete, e – se, dopo avermi incontrato, vi sentirete al sicuro – passate qui la notte.

    Se invierete la vostra risposta affermativa all’ufficio dei telegrammi di Stargate Road, a Highgate, manderò la mia carrozza a prendervi entro un’ora.

    Abbiamo una conoscenza comune nell’ispettore George Pound. Se aveste qualche riserva riguardo alle mie origini o alla mia rispettabilità, vi prego di consultarvi con lui.

    Con gentili riguardi,

    vostro zio Tolly

    L’ultimo svolazzo di quella

    Y

    sbandava su tutta la pagina. Lo tracciai pigramente con il dito fino all’angolo destro superiore ma, prima di raggiungerne la fine, avevo fatto la mia scelta. Buttai giù due righe e suonai il campanello.

    L’ispettore Pound aveva lavorato a diversi casi con Mr G, ma l’autunno precedente era stato mandato in un piccolo ospedale del Dorset a spese del mio tutore per riprendersi dalle ferite. Aveva ricevuto una pugnalata allo stomaco a causa mia e non lo si poteva raggiungere facilmente. Era un uomo onesto e rispettabile e ci conoscevamo piuttosto bene, quindi il fatto che Ptolemy Travers Smyth potesse usarlo come referenza era l’unica rassicurazione di cui avessi bisogno.

    Molly si trascinò nella stanza, il grembiule sempre più stropicciato.

    «Porta questa all’ufficio dei telegrafi di Tottenham Court Road – questa sera esco». Le diedi un fiorino e indicai la lettera che avevo posto sotto il fermacarte d’argento con incastonata la rotula di Charley Peace. «Se qualcuno ha bisogno di me, mi troverà lì».

    «Come?», si stupì lei. «Sulla scrivania?»

    «Pensa solo a mandare il telegramma, Molly». Feci il possibile per raddrizzarle l’uniforme, anche se il cappello continuava a scivolare, e uscii in corridoio.

    «Sì, signorina». Lei chinò il capo incerta e fece cadere la mia nota.

    La lasciai mentre cercava di raccoglierla senza piegare la schiena e salii a preparare la mia borsa Gladston e a indossare il mio abito nuovo – blu reale con rifiniture di pizzo color crema. Mi guardai nello specchio. Un po’ di belletto avrebbe fatto comodo, ma a Mr G sarebbe venuto un colpo apoplettico se avessi introdotto qualcosa del genere in casa sua. Pensai di sciogliermi i capelli ma erano una tale massa informe color topo che decisi di lasciarli legati.

    Quando scesi, l’odore di cavolo bruciato era così opprimente che mi chiesi se la cuoca non avesse appiccato un incendio, ma decisi di lasciarla fare e mi installai nello studio per leggere sul «Times» la storia di un uomo colto in flagrante mentre distruggeva busti in gesso di Beethoven. Quando lo avevano arrestato stava delirando a proposito di un diamante blu. Era un caso curioso e lo ritagliai perché il mio tutore lo mettesse nel suo archivio.

    5

    Oltre la necropoli

    Non dovetti aspettare molto perché il campanello suonasse e Molly annunciasse, in tono impressionato, che era arrivata la mia carrozza.

    «Sto andando a Highgate», le dissi e lei restò a bocca aperta.

    «Oh, attenta, signorina. Laggiù ci sono dei morti che manco son vivi». Distese il braccio come per paventare il loro arrivo imminente.

    «I morti non possono farti del male», la rassicurai, ma lei non parve convinta.

    «E il maledetto cane morto che è caduto in testa al fratello della cuoca, allora? È stato svenuto per due settimane quasi».

    «Porterò il mio ombrello più resistente», promisi.

    Un piccolo cocchiere col viso tirato e la livrea rossa aspettava di farmi salire su una carrozza chiusa nera ornata da uno stemma – una quercia verde con delle

    T

    e delle

    S

    dorate che si intersecavano in primo piano. I fanalini anteriori erano già accesi.

    Dall’altra parte della strada due studenti stavano uscendo dall’Anatomy Building, i cappotti pesantemente macchiati di fluidi umani, macchie che in quell’ambiente venivano considerate come medaglie d’onore. Si stavano facendo crescere barba e baffi ma – sebbene dovessero avere all’incirca la mia età – sembravano ancora bambini. Quando, nel salire, il mio vestito si sollevò a scoprirmi il polpaccio, uno dei due fece un fischio.

    «Ho sezionato un cadavere più attraente solo questa mattina», m’irrise il suo compagno.

    Il cocchiere fece un gesto arrabbiato e ripiegò gli scalini.

    «Doveva essere morta per forza, per permettere che vi avvicinaste», ribattei io. La portiera si chiuse, mentre l’autista saliva e dava un colpo di frusta alla sua bella cavalla nera perché si mettesse in marcia.

    Era un vero lusso, viaggiare chiusa in un abitacolo scintillante invece che su un calesse, dove per sfuggire agli elementi bisognava rifugiarsi dietro una tenda di cuoio. I sedili di pelle borgogna erano generosamente imbottiti e noi procedevamo a un’andatura costante. L’impatto delle mille buche e asperità della strada era attutito dalle molle delle quattro ruote.

    Il sole, calando, dava una sfumatura arancione al fumo dei camini e degli scarichi delle migliaia di fabbriche che lavoravano ininterrottamente nella più grossa metropoli che il mondo avesse mai conosciuto.

    Un gruppo di bambini prese a correrci dietro. Con quelle teste rapate e i cenci informi, non avrei saputo dire se erano maschi o femmine.

    «La portate alla Torre, signore?»

    «È una storta, quella, niente da fare».

    «Via la testa!».

    Io risi ma dal mio lussuoso isolamento non potevo gettare loro nessuna monetina.

    Mio padre non aveva mai accennato ad alcun parente vivo e avevo sempre avuto l’impressione che non ne fosse rimasto nessuno. Mia madre era stata figlia unica e l’ultimo membro della famiglia di cui fossi a conoscenza – il fratello maggiore di mio padre – era andato disperso in mare quando ero piccola.

    Pensai che l’autore della lettera potesse sbagliarsi o mentire, magari nella speranza di convincermi a mantenerlo nella vecchiaia. Avrebbe potuto anche trattarsi di uno scherzo crudele e io iniziai a pensare che prima di partire avrei fatto meglio ad aspettare l’occasione di contattare l’ispettore Pound, ma ero troppo intrigata. Forse Mr Travers Smyth avrebbe potuto dirmi qualcosa sulla storia della mia famiglia, argomento su cui mio padre si era sempre mostrato taciturno. Avrebbe potuto forse sapere perché Sidney Grice si era sentito in dovere di accogliermi in casa sua. Prima che si mettesse in contatto con me io non sapevo neanche di avere un padrino, e quando cercavo di indagare sul suo passato Mr G tendeva a farsi elusivo o a sviluppare un temporaneo trisma.

    Il nostro viaggio fu lento. Le strade progettate per un centinaio di migliaia di persone faticavano ormai a servirne due milioni, e per poter avanzare ciascun omnibus, carrozza privata o carro di Londra doveva ininterrottamente e faticosamente farsi largo nel caos. A poco a poco, comunque, le strade divennero meno congestionate e le file di case a schiera si spezzarono in villette semindipendenti e poi completamente isolate, circondate da giardini che le separavano dalla strada. Muovendo la testa come un pony da miniera che si godeva una giornata al pascolo, il nostro cavallo aumentò il passo fino a raggiungere un trotto piuttosto costante, mentre percorrevamo le strade alberate che si snodavano lungo le alte mura di mattoni rossi della grande necropoli di Highgate. Quando superammo l’entrata del cimitero occidentale la notte stava ormai scendendo così in fretta che riuscii a malapena a distinguere l’imponente cancello in finto stile Tudor, fiancheggiato da cappelle di mattoni neri e grigi adorne di torrette gotiche, più adatto a una prigione che a un luogo di riposo per i defunti, i quali difficilmente avrebbero tentato un’evasione di massa prima del Giorno del Giudizio.

    Lasciammo la via principale e imboccammo una serie di stradine sempre più tranquille, che in estate sarebbero state senza dubbio piene di foglie ma si snodavano adesso tra scheletri di alberi spogli e bruniti, poco più che spigolose ombre nell’ombra. Non c’erano lampioni, e le uniche fonti di illuminazione erano i nostri due fanaletti gemelli, la luna crescente e il bagliore occasionale di qualche villa dove non avevano ancora tirato le tende.

    Goccioline di pioggia picchiettavano sul vetro.

    Svoltammo a destra lungo una strada secondaria, poi di nuovo

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