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Una ragazza malvagia
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E-book507 pagine7 ore

Una ragazza malvagia

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Info su questo ebook

«Il miglior libro che ho letto quest’anno.» Stephen King

Autrice del bestseller Oscuri segreti di famiglia

In una fatidica mattina d’estate del 1986 due ragazzine di undici anni si incontrano per la prima volta. Ancora non immaginano che quel giorno cambierà per sempre il corso delle loro vite: perché prima della mattina successiva si troveranno faccia a faccia con un efferato omicidio. Venticinque anni dopo, la giornalista Kirsty Lindsay sta indagando su una serie di aggressioni ai danni di giovani turiste in una località di mare, quando le sue ricerche la portano a intervistare Amber Gordon, custode di un parco giochi della zona. Di fronte a una nuova serie di omicidi, apparentemente senza alcun legame, il delitto di quella lontana estate riaffiora nella maniera più inaspettata, sconvolgendo la vita del placido paesino di Whitmouth e quella di Kirsty e Amber, messe di fronte a una spietata consapevolezza: il passato non si può mai lasciare del tutto alle spalle.

Scelto da Stephen King come miglior libro dell’anno

In una mattina d’estate tre amiche si incontrano per la prima volta.
Quella stessa sera due di loro si trasformeranno in assassine.

«La suspense fa divorare le pagine, ma quello che rende questo romanzo indimenticabile è il senso di impotenza di fronte al destino. Il miglior libro che ho letto quest’anno.»
Stephen King

«Un libro psicologicamente complesso, con una storia magistrale. Non riuscivo a staccarmene, persino quando sentivo che mi stava trascinando verso abissi molto oscuri. Una scrittrice che terrò d’occhio.»
Jojo Moyes

«Un libro ingegnoso e originale, con personaggi credibili e ambientazioni vivide. In poche parole: un successo.»
Laura Lippman

Alex Marwood
È lo pseudonimo di una giornalista inglese. Il suo libro di esordio, Una ragazza malvagia, ha vinto il premio Edgar ed è stato scelto da Stephen King come miglior romanzo dell’anno. Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada ha vinto il premio Macavity come Miglior Romanzo Mystery, ed è stato selezionato per i premi Anthony e Barry come miglior Paperback Originale. James Franco e Ahna O’Reilly hanno acquisito i diritti per realizzarne un film. La Newton Compton ha pubblicato anche Oscuri segreti di famiglia.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2019
ISBN9788822735058
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    Anteprima del libro

    Una ragazza malvagia - Alex Marwood

    Capitolo 1

    2011

    Martin controlla l’orologio: sono quasi le dieci. Tra poco lei andrà al lavoro.

    Le luci al neon sulle montagne russe di Funnland sono state spente, per far posto al chiarore freddo delle lampade alogene che inonda il luna park nelle ore di chiusura, allo scopo di scoraggiare eventuali vagabondi e aiutare il personale delle pulizie a individuare le pallottole di gomma da masticare, le chiazze appiccicose di bibite rovesciate o gli schizzi di ketchup. Lei arriverà e andrà nello spogliatoio. Come tutti quelli che devono timbrare il cartellino, anche lei è puntigliosa circa l’orario di ingresso, mentre se la prende comoda quando si tratta di iniziare effettivamente a lavorare. Si spoglierà dei suoi abiti civili e li sostituirà con i pantaloni di una tuta da ginnastica e un grembiule.

    Martin sente crescere dentro di sé un rancore familiare, se pensa al modo in cui lei ha interrotto ogni comunicazione: non risponde al telefono, non lo chiama, solo silenzio, il nulla, giorno dopo giorno. Si è già dimenticata di lui? Si è concesso tre ore, ma non sopporta più l’attesa. Prende il telefonino, muto e minaccioso, visualizza il numero di lei e digita un messaggio: ti prego rispondi, non far finta di niente. Osserva il display mentre il cellulare sembra riflettere su quel che ha scritto, prima di inviarlo.

    Un gruppo chiassoso di ragazze si ferma proprio sotto la sua finestra. Capisce subito che si tratta di una festa d’addio al nubilato, perché cantano a squarciagola canzoni come Going to the Chapel¹ – un classico – oppure Nice Day for a White Wedding² – solo il ritornello, ripetuto all’infinito – o la versione scherzosa di qualche marcetta nuziale: Here comes the bride, short, fat and wide³. Sono milioni le canzoni a questo mondo, eppure l’accompagnamento musicale degli addii al nubilato non va mai oltre quella ristretta selezione.

    Uno strillo giunge dalla strada, seguito da un coro di risate: qualcuno è caduto. Martin si alza dal letto, si avvicina alla finestra e scosta la tenda per guardare fuori: otto ragazze, a vari stadi di ebbrezza. La futura sposa – velo cortissimo e due cartelli appesi al vestito con la lettera P di principiante – è a terra, precipitata dall’alto di un tacco 15, sotto il peso di un culo imponente. Annaspa sul marciapiede, dentro una minigonna attillata, con la pancia flaccida che deborda dalla cintura e il seno che esplode dal décolleté, mentre due amiche tentano di sollevarla tirandola per un braccio pallido e cellulitico. Le altre stanno a guardare e puntano il dito mentre ridono a più non posso, barcollando sul marciapiede. Una di loro – hot pants, enormi orecchini a cerchio e un top aderente a strisce orizzontali – chiede insistentemente da accendere a qualsiasi uomo si trovi ad aggirare l’ostacolo della sposa abbattuta.

    Alla fine, Tette a strisce fa centro: un gruppo di ragazzi, provenienti anch’essi da un addio al celibato, si ferma e le presta un accendino. La città è piena di promessi sposi, tutti i weekend: ragazzotti che non hanno un passaporto, né l’autorizzazione all’espatrio del giudice per la libertà vigilata, e men che meno i soldi per andare a vomitare sangria su un marciapiede spagnolo. Tette a strisce si mette a chiacchierare con i ragazzi, o meglio, si mettono tutti quanti a gridare. Sotto la finestra di Martin, nessuno comunica a un volume inferiore a un boato, le orecchie distrutte da giri di basso martellanti, la consapevolezza del mondo esterno annullata dall’alcol, dall’ecstasy e dalla cocaina, che ormai costa meno di un pacchetto di sigarette e non devi nemmeno uscire in strada per comprarla.

    La sposa, finalmente, ritrova la posizione eretta. Zoppica, o finge di zoppicare, e cammina appoggiandosi alla spalla di un ragazzo. Martin osserva la mano del tipo che scivola lungo la minigonna e si fa strada lentamente verso l’interno, passando da dietro. La sposina ridacchia, allontana a malincuore la mano con uno schiaffo e intanto guarda il ragazzo, sbattendo le lunghe ciglia, maliziosa e incoraggiante, dopo di che la mano ritorna sotto la gonna. Il gruppetto infine si allontana, diretto alla zona dei nightclub.

    Tette a strisce è rimasta indietro. Appoggiata a una vetrina, sta parlando con il tizio dell’accendino. Dondola leggermente sui tacchi, ora da un lato, ora dall’altro, e sembra non accorgersi che le amiche sono svanite dietro l’angolo. Si sistema il top tirandolo verso il basso, per eliminare le pieghe dal petto strizzato, e poi, con un gesto vezzoso, si scosta dagli occhi i capelli collosi di lacca. Sorride all’uomo con civetteria e mentre parla gli appoggia la mano sull’avambraccio. Ecco come funziona l’arte moderna dell’accoppiamento. Non c’è nemmeno più bisogno di offrire da bere alle ragazze. Basta prestargli un accendino ed è fatta, puoi già portartele a letto.

    Martin lascia andare la tenda e si trascina nella stanza buia, mentre la malinconia gli si insinua dentro, penetrando in ogni poro. Non capisce niente di questo mondo. Ha la sensazione che quei ragazzi abbiano scelto di piazzarsi davanti casa sua solo per provocarlo, per rammentargli quella spensieratezza di cui non sa nulla, mentre sa bene che quelle creature ondeggianti, piene di lustrini e paillettes, avrebbero cambiato subito marciapiede se solo avesse tentato di unirsi a loro. Whitmouth è solo fonte di delusione per lui. Dopo la morte della madre, finalmente padrone del proprio destino, aveva creduto che il mondo sarebbe stato ai suoi piedi, che la vita, finalmente, gli sarebbe venuta incontro a braccia aperte; invece, si ritrova a guardare gli altri che se la spassano, come se fosse davanti alla televisione.

    Credevo che Whitmouth fosse il regno delle fate, pensa, mentre accende la lampadina che penzola nuda dal soffitto. Ero bambino, allora. Venivo da Bromwich per le vacanze, insieme ai miei genitori. Era pieno di famiglie: tè, pasticcini alla crema e un grande scivolo a spirale sul molo, la costruzione più alta nel raggio di miglia. È per questo che sono tornato qui, per quei momenti felici, per quei bei ricordi, perché allora avevo tante speranze. Ora non oso nemmeno sbirciare dentro i negozi, caso mai dovessi vedere ancora Keifer nell’antro della porta, con i jeans abbassati, che si dimena tra le cosce di Linzi Dawn, strette attorno ai suoi fianchi, mentre io… io sono sempre l’escluso, l’indesiderato, sempre a guardare.

    Lei non ha ancora risposto. Martin sente crescere l’irritazione mentre fissa il display vuoto: chi si crede di essere quella?

    Getta il telefonino sul letto, accende la tv e legge le cattive notizie che scorrono in sovrimpressione durante il telegiornale della bbc. Cazzo, Jackie, non hai il diritto di trattarmi così. Se avevi intenzione di comportarti come tutte le altre, perché hai fatto finta di essere diversa?.

    Poi sente un altro grido in strada e alza al massimo il volume del televisore. La rabbia di quell’ennesimo rifiuto gli si insinua sotto la pelle, invisibile, intoccabile. Jackie non deve fare altro che rispondere al suo messaggio. Non ha voglia di uscire, ma se lei si rifiuta di rispondergli sarà costretto a farlo. Come gli ripeteva sempre sua madre, la tenacia è la qualità più importante nella vita e Martin sa di essere più tenace di tutti.

    ____________________________________________

    ¹ Il titolo esatto è The Chapel of Love, portata al successo nel 1964 dal gruppo The Dixie Cups e popolarissima ancora oggi.

    ² Canzone del 1982 cantata da Billy Idol. Il ritornello è probabilmente la parte più ottimista della canzone ("Nice day to start again/Nice day for a white wedding"), altrimenti piuttosto ambigua.

    ³ Parodia del celebre coro nuziale composto da Richard Wagner per l’opera lirica Lohengrin (1850). Ovviamente la versione tedesca del coro non ha alcuna relazione con il testo cantato scherzosamente ai matrimoni; ne viene mantenuta solo la melodia.

    Capitolo 2

    Amber Gordon vuota l’armadietto degli oggetti smarriti una volta alla settimana. È la parte del suo lavoro che preferisce. Le piace il nitore di quel gesto, come sistemare una questione lasciata in sospeso, anche se si tratta semplicemente di constatare che, se i legittimi proprietari non si sono presentati nel giro di nove mesi, probabilmente non verranno mai più. E poi la diverte curiosare, ficcare il naso di nascosto nella vita degli altri, meravigliandosi delle cose – dentiere, orecchini di diamanti, agende – che la gente non si accorge di aver perso o non si preoccupa di cercare, ma più di tutto le piace regalarli, quegli oggetti. Per il personale delle pulizie di Funnland, quando viene domenica sera è un po’ come se fosse Natale.

    Il bottino è buono, stasera. Tra ombrelli dimenticati e bustine di plastica con dentro qualche souvenir di Whitmouth si nascondono autentiche perle: un vistoso braccialetto a ciondoli, con cuori e cupidi smaltati che penzolano tra pietruzze semi-preziose; un lettore mp3 in versione economica, senza touch screen o altri ammennicoli, ma comunque funzionante e con vari brani già caricati; un sacchetto gigante di caramelle Haribo e una scheda telefonica per chiamate internazionali, ancora nel cellophane, intonsa. Amber sorride quando la vede. Sa già a chi farebbe comodo poter fare una lunga telefonata a casa. Ti ringrazio, sconosciuto cliente in cerca di divertimento, chiunque tu sia, pensa. Tu non lo sai, ma stasera hai fatto felice un cittadino dell’isola di Santa Lucia.

    Amber guarda l’orologio e si rende conto di essere già in ritardo per la pausa. Chiude a chiave l’armadietto, ficca i regali nella borsa e attraversa in fretta il viale principale del luna park, illuminato a giorno, diretta al bar.

    Moses sta fumando, come al solito. È una specie di sport per lui. Sa che lei lo sa (ora che fumare è vietato praticamente dappertutto, una sola boccata, al chiuso, è lampante quanto una macchia di rossetto su una camicia bianca), e sa anche che lei sa che è lui a fumare, eppure a Moses piace metterla alla prova, violare le regole e vedere cosa succede. I due hanno raggiunto un tacito accordo in materia. Amber ha capito che ci sono battaglie degne di essere combattute e altre che sono soltanto fiato sprecato. Questa appartiene alla seconda categoria. E poi Moses è un buon lavoratore. Quando il personale del bar apre il locale, la mattina, tutto è lucido e pulito e odora di detersivo al limone.

    Non appena Amber apre la porta, lui scatta in piedi e fa cadere il mozzicone di sigaretta in una lattina di Coca-Cola aperta. Soffoca un sorriso, mentre assume l’espressione dell’agnellino ferito e finge di non averla vista entrare. Amber, invece, lo guarda dritto negli occhi, di proposito, come fa sempre, e gli restituisce il solito sorriso d’intesa. La vita è piena di piccole complicità e ha scoperto che il suo nuovo ruolo di responsabile ne richiede una dose ancora maggiore.

    Non le sfugge quasi niente di quel che accade a Funnland. Il bar è pieno di persone di cui conosce anche i minimi difetti, ma ha deciso risolutamente di non preoccuparsene. Jackie Jacobs, ad esempio, che – cascasse il mondo – smette immediatamente di lavorare non appena squilla il telefonino, ma che mantiene alto il morale della truppa, durante la pausa, con battute a raffica e doppi sensi; oppure Blessed Ongom, che è sempre la prima a entrare e l’ultima a uscire dal bar, tutte le sante sere, ma che lavora sodo tanto quanto gli altri, prima e dopo la pausa; e poi c’è Moses, ovviamente, che ha uno stomaco d’acciaio, e su di lui si può sempre contare per ripulire i lasciti disgustosi dei clienti che riducono in lacrime i colleghi più delicati.

    La stanza è gremita. La pausa per bere il tè è un rito a cui nessuno del turno di notte rinuncerebbe, per niente al mondo, nemmeno i nuovi arrivati che masticano appena qualche parola di inglese e sono costretti a comunicare a gesti e sorrisi. È stressante lavorare di notte per cancellare le prove del divertimento altrui, Amber lo sa bene. Se un po’ di riposo e una manciata di ciambelline scadute servono a rendere il tutto sopportabile, non vede il motivo di essere inflessibile; purché le pulizie vengano completate entro la fine del turno, ovvero alle sei del mattino, preferisce non interferire nel modo in cui il personale gestisce il proprio orario di servizio. E poi né Suzanne Oddie, né nessun altro dirigente verrà mai a controllarli con il cronometro in mano, quando possono starsene al calduccio, sotto le loro belle lenzuola di cotone egiziano. È il grande vantaggio di quegli orari impossibili: basta che il lavoro venga portato a termine e poi non importa a nessuno chi lo fa o quando lo fa.

    Moses china il capo e i suoi occhi scuri si fanno timorosi quando Amber cambia improvvisamente direzione per avvicinarsi al suo tavolo. Si aspetta una lavata di capo, finalmente, immagina lei. Mi conoscono tutti quanti da anni, eppure da quando sono stata promossa a responsabile del servizio pulizie, Moses, come tutti gli altri, mi guarda con un certo sospetto. Quando Amber gli sorride si rende conto di quanto sia radicata quella diffidenza. Allora si sforza di ridere, anche se si sente vagamente offesa da quell’atteggiamento. «Non preoccuparti, Moses», gli dice rassicurante. «Devo solo darti una cosa».

    Amber gli si avvicina, estrae la scheda telefonica dalla borsa e gliela mostra. «Distribuzione oggetti smarriti. Ci sono quasi venti sterline di chiamate, credo. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere telefonare a tua nonna».

    Il sospetto svanisce, sostituito da una gioia profonda e sincera. La nonna di Moses, che vive a Castries, si è ammalata di recente e pare che non abbia ancora molto da vivere. Amber sa che Moses non troverà mai il denaro per tornare a casa, ma almeno un’ultima telefonata potrebbe rendere quel lutto meno amaro. «Grazie», le dice, con un sorriso quasi radioso. «Grazie davvero. Sei molto gentile».

    Amber scuote appena la testa, con aria indifferente. «Non c’è di che. Io non ho mosso un dito», dice, e si allontana. Sa, come del resto tutti sanno, che le cose non stanno esattamente così. La persona che l’aveva preceduta nel ruolo di responsabile trattava gli oggetti smarriti come se fossero un premio di produzione personale, ma lei non sarebbe mai capace di fare una cosa simile. Il suo stipendio è buono, anzi, non ha mai guadagnato tanto in vita sua, e non potrebbe più guardarsi allo specchio se negasse quei regali a gente che campa col salario minimo. E poi quelle persone non sono soltanto dei sottoposti, sono vicini di casa, sono amici. Se li tenesse a distanza, al lavoro, loro farebbero altrettanto in città o al supermercato. Offre il braccialetto a Julie Kirklees, una diciottenne pelle e ossa, perennemente truccata secondo i cupi dettami della moda gotica, probabilmente per nascondere i suoi occhi pesti, sospetta Amber. Poi si avvia al banco del bar, si versa una tazza di tè da una brocca e aggiunge due zollette di zucchero. Lancia un’occhiata alla vetrina frigorifero e ai piatti già pronti impilati in cima, dentro contenitori di plastica. Il suo mestiere offre ben poche gratificazioni e una di queste è la disponibilità quasi illimitata di cibo-spazzatura e di avanzi di ogni genere. Ha il sospetto che alcuni colleghi sopravvivano mangiando quasi esclusivamente panini stantii, würstel tiepidi, involtini di salsiccia e patatine fredde, con zuppa di pomodoro in scatola e fagottini alle mele come unico apporto vegetale alla dieta.

    Amber, in realtà, non ha per niente fame. Vuole solo prolungare l’intervallo che separa la contabilità dall’unico lavoro di pulizia che ha riservato a se stessa, perché è convinta che nessuno sia in grado di farlo decentemente. Sorvola con lo sguardo i piatti che contengono panini dolci e giganteschi biscotti al cioccolato dall’aria spugnosa. Blessed, alle sue spalle, continua a parlare animatamente, la voce venata di un sottile disgusto: «Proprio non capisco cosa gli salta in testa alla gente… Davanti agli amici, poi… Sono animali o cosa?».

    Amber sceglie un sandwich con prosciutto e insalata scaduto da un giorno. Probabilmente sarà molliccio al centro e la crosta sembrerà cartone, ma non c’è molto altro di allettante e non ha proprio voglia di dolci.

    «Che è successo, Blessed?», domanda, rivolta all’altro tavolo.

    Jackie beve l’ultimo goccio di caffè rimasto in fondo alla tazza e poi annuncia: «Blessed ha trovato un’altra merda».

    «Cosa?». Amber si siede e inizia a scartare il sandwich. «Dove? Sulle tazze rotanti?».

    Blessed annuisce con una smorfia: «Proprio al centro del sedile. Non capisco come facciano… Cioè, devono pur togliersi i pantaloni, no?».

    Jackie pare assorta in una sua bizzarra fantasia: «Chissà se lo fanno mentre le tazze girano alla massima velocità…».

    «Mi dispiace, Blessed», dice Amber. «Te la senti di occupartene o vuoi che vada io?»

    «No. Per fortuna ci ha già pensato Moses. Grazie comunque, sei sempre molto gentile».

    «Dio, ti ringrazio per averci dato Moses!», esclama Jackie. Il suo cellulare si anima improvvisamente e inizia a strisciare lungo il tavolo.

    «Oh Cristo!», fa Tadeusz, risvegliandosi bruscamente dalle sue fantasticherie notturne. «È incredibile… Sono le due e mezza del mattino. Chi è che ti chiama a quest’ora? Sei una donna davvero insaziabile!».

    Jackie fa schioccare la lingua e dice: «È tutta invidia, tesoro mio…», poi prende il cellulare e lo guarda corrucciata. «Porca puttana!».

    Amber addenta il sandwich: umido, molliccio… gradevole, in un certo senso. «Che succede?», domanda.

    Jackie fa scivolare il telefono verso di lei. Tadeusz, da dietro le spalle di Amber, sbircia il messaggio che appare sul display: dove sei? non hai nessun diritto di trattarmi così. chiamami!

    «È innamorato cotto», commenta Tadeusz.

    «È uno svitato del cazzo, per essere precisi», lo corregge Jackie.

    Tadeusz la osserva con rinnovata stima: «Ma allora hai uno stalker. I miei complimenti!».

    Jackie alza gli occhi dallo schermo e lo guarda inviperita: «Questo fa salire le mie quotazioni sul tuo mercato, vero Tad?».

    Lui fa spallucce. Tadeusz è un bel ragazzo: magro, dall’aria vagamente selvaggia, abituato a piacere e a dispiacere, quando la relazione diventa troppo appiccicosa. Blessed, invece, sembra davvero preoccupata: «Chi è quest’uomo?»

    «È… il solito coglione. Sono uscita solo due volte con lui».

    E con tutta la compagnia, pensa Amber, impietosa, ma non dice niente e restituisce a Jackie il telefono. Ha imparato tanto tempo fa a non giudicare gli altri, almeno non ad alta voce.

    «Non hai mica intenzione di rispondergli, vero?», domanda Blessed. «Non devi!».

    Jackie scuote la testa. «No, non lo faccio più. Sono stata stupida. All’inizio l’ho assecondato ma ora basta. Brutto segaiolo di merda… Ci sono uscita solo perché mi faceva un po’ pena, ecco. La prima volta, a letto, non gli si drizzava nemmeno con il cric…».

    «Jackie!», protesta Blessed, che non sopporta simili volgarità ma, chissà perché, si siede sempre al tavolo di Jackie. «Non devi rispondergli più a quel tizio. Lo sai che molte donne finiscono ammazzate? Ma sì che lo sai. Devi stare molto, molto attenta».

    «Ma dai…», replica Jackie. «Non è mica un serial killer. È solo un piccolo segaiolo triste, ecco cos’è».

    «Non dovresti scherzare su queste cose», insiste Blessed. «Hanno già ucciso due ragazze quest’anno a Whitmouth, poco lontano dal centro. E poi tu quest’uomo non lo conosci neanche bene…».

    «Non volevo scherzare. Scusami».

    Blessed scrolla la testa sconsolata. «Bene, non farlo. Non capisco come facciate tutti quanti a non essere preoccupati».

    «Perché le ragazze non erano di queste parti», dice Tadeusz. «Semplicemente».

    «Quello che hai detto è… agghiacciante».

    «Ma è la verità», insiste Tadeusz. «Nessuno di Whitmouth conosceva quelle due. Quindi non contano».

    «Ma sono comunque esseri umani», insiste Blessed.

    «Sì», interviene Jackie «ma non sono dei nostri. Se fosse successo a qualcuno che vive a Whitmouth, allora sì che saremmo terrorizzati, non usciremmo più di casa. Grazie al cielo erano due di fuori!».

    Blessed continua a scuotere il capo, incredula: «Ma come sei… cinica».

    «Realista», la corregge Jackie.

    «Da quanto va avanti la storia con quest’uomo?», domanda poi Blessed.

    Jackie sospira e appoggia il telefono sul tavolo. «Cristo… Da sempre. Quant’è, Amber? Sei mesi, più o meno?».

    «Non ne ho idea», risponde lei. «Perché dovrei saperlo?». Ha la netta impressione che Jackie sia irritata.

    «Be’, è tuo amico no?».

    Questa è un’assoluta novità per lei: «Che hai detto?»

    «Martin, Martin Bagshawe».

    Il nome le è vagamente familiare ma non riesce a collegarlo a nessun volto conosciuto. «Martin chi?».

    «Il compleanno di Vic».

    «Il compleanno di Vic? Ma è stato mesi fa».

    «Esattamente».

    Amber è sempre più perplessa. Non ricorda molto di quella festa di compleanno, men che meno chi fossero gli invitati.

    «Te l’avevo detto», insiste Jackie. «Non riesco a scrollarmi di dosso quell’essere viscido. Come diavolo ha fatto Vic a trovarsi un amico tanto svitato?».

    Amber si sforza di tornare con la mente a quella sera. Era un sabato, al Cross Keys. Non era una festa di compleanno vera e propria ma una serata tra amici, senza inviti ufficiali: io vado al pub stasera, venite anche voi?. Vic era in ottima forma, le aveva tenuto un braccio sulla spalla per tutta la sera, mentre beveva coca e whisky, e non aveva detto niente quando lei si era scolata il terzo bicchiere di vino bianco. Una bella serata, divertente. In modo vago, in una piega della memoria, Amber ricorda anche Jackie, sul finire della festa, avvinghiata a un tizio piuttosto mingherlino, insignificante, con addosso un eskimo, forse. Già… Un eskimo, dentro un pub, il sabato sera: Jackie doveva avere la vista annebbiata dalla birra per mettersi con un tipo come quello.

    «Vic non c’entra niente. Non poteva mica cacciarlo via! Era un normalissimo cliente del pub».

    «No», ribatte Jackie. «Lui mi ha detto che Vic era…».

    Amber non riesce a trattenere un mezzo sorriso: «E non ti è venuto in mente di chiedere a Vic?»

    «Be’, se qualcuno mi avesse avvisata, io…».

    «Se solo l’avessi chiesto, forse l’avremmo fatto. Non penso che Vic lo conosca. Secondo me non sa neanche come si chiama. È uno dei tanti tipi strani che attaccano bottone al pub…».

    «Vedi», interviene Blessed «è questo che intendo. Devi stare attenta. Non puoi… rimorchiare sconosciuti nei pub».

    Jackie le lancia un’occhiata maligna: «Già… L’oratorio non è proprio il mio ambiente. Grazie comunque, Blessed. In fondo hai ragione. Cristo, gli ho rivolto la parola solo perché mi faceva una gran pena!».

    «Sei tutta cuore, Jackie», dice Tadeusz.

    «Be’, sai… noi puttane non siamo mica fortunate come Amber. Non abbiamo in casa un uomo dolce e sexy di nome Vic».

    «Dovresti chiamare la polizia», ricomincia Blessed. «Dico sul serio. Se quell’uomo ti perseguita…».

    Jackie ride. «Oh certo, la polizia… Come no!».

    «E invece dovresti chiamarla. Se quell’uomo ti preoccupa, dovresti chiedere aiuto».

    Amber si ritrova ancora una volta a dover constatare, con sua meraviglia, che tra tutte le persone che conosce l’unica che mostri una fiducia incrollabile nelle autorità britanniche è una donna che ha trascorso i primi due terzi della sua esistenza in Uganda. Blessed è fuggita dall’inferno subsahariano portando con sé una dirittura morale capace di far impallidire i suoi vicini di casa. A quel punto, si ricorda di avere un ultimo dono da distribuire e inizia a frugare nella borsa; si piega verso Blessed e a bassa voce, mentre gli altri continuano a parlare, le dice «Ho trovato questo tra gli oggetti smarriti», e le porge, con un certo ossequio, il lettore mp3.

    «E che cos’è? Di certo non l’ho perso io».

    «È un lettore mp3. Ho pensato che a Benedick potrebbe far piacere. Purtroppo non è un iPod, ma fa la stessa cosa».

    «Davvero?». Blessed è sbalordita. «Deve costare un mucchio di soldi… almeno credo».

    Anche stavolta Amber minimizza. Sa quanto sia difficile la vita di Blessed, sola, con un figlio a carico, e immagina che a quel ragazzino manchino molte delle diavolerie tecnologiche che i suoi coetanei danno per scontate. «Probabilmente no. Non lo so, ma c’è già su della musica. Guarda. Tanto per incominciare… poi ci penserà tuo figlio».

    «Io…». Blessed la guarda con gli occhi umidi. «Non so che cosa dire…».

    «Allora non dire niente. Prendilo e basta».

    «Perché non cambi telefono?». Tadeusz prende in mano il cellulare di Jackie e inizia a scorrere le opzioni del menu.

    «Ma che stupida che sono!», esclama Jackie. «Forse perché non posso permettermelo?».

    «Ah…», mormora Tadeusz. Non servono altre spiegazioni. Tutti capiscono cosa vuol dire Jackie. Nessuno lavorerebbe di notte, ripulendo la sporcizia abbandonata dagli altri, se solo potesse permettersi qualcosa di meglio. Tadeusz schiaccia il pulsante rispondi e inizia a digitare un messaggio.

    «Ma cosa fai?». L’ansia è palpabile nella voce di Blessed. «Tadeusz! Smettila!», ma lui continua a scrivere. «Ti ho detto di smetterla. Se rispondi crederà di avere qualche speranza. Jackie deve ignorarlo, quello. Non c’è altra soluzione».

    «È tutto sotto controllo». Tadeusz alza gli occhi dal telefono, con un sorrisetto sulle labbra.

    «Ridammi il cellulare», gli ordina Jackie.

    Il ragazzo preme invia e poi le restituisce il telefono.

    «Cazzo! Cos’hai fatto?».

    Jackie inizia a pigiare freneticamente i tasti per visualizzare l’elenco dei messaggi inviati. Apre l’ultimo e si mette a ridere.

    «Che c’è? Cos’ha scritto?», domanda Blessed.

    «Impossibile recapitare il messaggio. Il numero selezionato non è più disponibile. Tadeusz, sei un genio, un vero genio».

    Il ragazzo si appoggia allo schienale della sedia e incrocia le braccia sul petto, evidentemente soddisfatto di sé.

    Il telefono, però, vibra di nuovo. Jackie legge il messaggio a voce alta, «Questa è una prova», dopo di che inizia a digitare la risposta.

    Amber intanto controlla l’ora. Sono quasi le tre. C’è ancora parecchio da fare prima che arrivi l’alba. «Andiamo, ragazzi!», dice, alzandosi in piedi, per mostrare a tutti che fa sul serio. «Il tempo vola. Dobbiamo rimetterci subito al lavoro o resteremo qui tutta la notte».

    Il personale di servizio del luna park riunito dentro il bar raccoglie il segnale lanciato da Amber e incomincia a muoversi. Alla finestra, Moses si arrotola una sigaretta, con una certa ostentazione, e poi esce all’aria aperta a fumarsela. Gli altri si alzano dal tavolo. Tocca a Tadeusz sparecchiare stasera. Raccoglie le tazze di plastica e senza fretta va a gettarle nel cestino della cucina.

    «Bene, andiamo…», dice Jackie. «Non c’è pace tra gli ulivi».

    Capitolo 3

    La ragazza è morta. Amber non ha bisogno di avvicinarsi per capirlo: lo sguardo spento, la testa ciondolante come una bambola di pezza. È morta. Indossa una canottiera a righe e una minigonna, entrambe arrotolate attorno alla vita. Il seno infantile e le cosce bianche si riflettono negli specchi, replicandosi all’infinito.

    Amber, in realtà, non vede il cadavere. È ancora molto lontana. Ha pulito il labirinto di specchi così tante volte che conosce benissimo il trucco, quell’effetto illusorio per cui, appena entri, può sembrare che una figura in fondo all’edificio sia in piedi, davanti a te; oppure, come nel caso della ragazza morta, sia semisdraiata a terra, con la testa e le spalle appoggiate alla parete.

    Amber si aggrappa allo stipite della porta, il respiro affannoso. Oh cazzo, pensa. Perché proprio a me?.

    La ragazza non ha nemmeno diciassette anni. Il viso stravolto, la bocca semiaperta, come se cercasse di prendere fiato un’ultima volta, i segni di un’adolescenza incompiuta attorno alla bocca. I capelli sono biondi, vaporosi e scarmigliati. Porta enormi orecchini ad anello. Anche gli occhi sembrano enormi sotto il pesante ombretto blu elettrico; il petto nudo scintilla, cosparso di brillantini; gli stivali con la zeppa formano angoli improbabili con il riflesso del pavimento a specchio.

    È stata a ballare, pensa Amber. Sabato: serata anni Settanta alla discoteca Stardust.

    Le viene da vomitare. Si volta verso la porta aperta e vede il viale principale deserto, come se tutti i colleghi fossero svaniti nel nulla, come se fosse la fine del mondo.

    Entra nel labirinto e chiude la porta dietro di sé per fare buio totale. Non vuole che nessuno veda – non ancora, non adesso – quando la paura le ha strappato la maschera dal viso.

    Per fortuna che ho messo i guanti di gomma, pensa, anche se la cosa è irrilevante. Pulisce quel locale ogni notte ormai da tre anni e, per quanto sia scrupolosa, le sue impronte sono dappertutto, per non parlare di quelle dei visitatori che sono entrati dopo l’ultima pulizia, la notte scorsa. All’ingresso vengono distribuiti dei guanti di lattice usa e getta, nel tentativo di preservare gli specchi, ma non si può obbligare la gente a indossarli, né sorvegliare l’interno del labirinto ventiquattr’ore su ventiquattro.

    Innfinnityland è l’unica attrazione del parco che Amber pulisce personalmente, da quando è passata di grado. Quel luogo mette i brividi a tutti, come se temessero di perdersi e di non trovare più l’uscita, oppure avessero paura della presenza di fantasmi. Troppo spesso quell’attività di pulizia, che deve essere sistematica e metodica, quasi autistica, veniva eseguita in fretta e malamente, lasciando macchie e segni; in un luogo del genere, anche un semplice alone viene ripetuto all’infinito ed è quasi impossibile risalire all’originale se non si ha la cura di passare in rassegna ogni singolo specchio, palmo a palmo. Così Amber aveva deciso, tempo fa, che era meglio provvedere di persona alla pulizia del labirinto. Ora, però, rimpiange con tutta se stessa di aver preso quella decisione.

    La ragazza ha gli occhi verdi, come quelli di Amber. La borsetta, in finto coccodrillo, si è aperta cadendo a terra, e sparpagliati ovunque giacciono i patetici resti di un’adolescenza stroncata, insieme ai progetti e alle speranze custodite in segreto: un rossetto, un flacone di JLo, un cellulare rosa con un ciondolo a forma di scarpa col tacco a spillo… Esuberanti affermazioni di un’identità che sotto lo sguardo di vetro della proprietaria appaiono ora dozzinali, insignificanti.

    Non c’è sangue. Solo l’impronta livida lasciata dalle dita strette attorno al collo. È la terza, quest’anno, pensa Amber. Non può essere un caso. Due sono un caso, forse, ma tre… Povera ragazzina!

    Amber sente il freddo penetrarle fin dentro le ossa, anche se la serata è calda. Procede con passo incerto, lentamente, come una donna anziana, appoggiando la mano tremante sugli specchi. Mentre avanza, nuovi riflessi incrociano la direzione del suo sguardo e vede un milione di cadaveri sparsi nella sala, un labirinto infinito di corpi.

    Poi, improvvisamente, vede se stessa: la faccia bianca, gli occhi sgranati, la bocca che pare una ferita sottile e il cadavere ai suoi piedi, come Lady Macbeth.

    Cosa avevi intenzione di fare? Di toccarla?.

    Raggela a quel pensiero e si blocca all’istante. Non ragiona. Lo shock l’ha trasformata in una creatura di puro istinto, in un automa senza memoria.

    Cosa stai facendo? Non puoi immischiarti. Devi restare anonima. Se ti fai coinvolgere finiranno per capire chi sei, e quando lo sapranno….

    Amber sente il panico divamparle nel petto, un formicolio dei nervi, un prurito inquieto. Sensazioni che conosce bene, che sono sempre a fior di pelle, ma ora deve decidere e in fretta.

    Non posso essere io a trovarla.

    Allora indietreggia e a tentoni ritorna all’ingresso del labirinto. Gli occhi della ragazza morta non smettono di guardare. Accidenti a te, pensa Amber, improvvisamente furiosa, dovevi farti ammazzare proprio qui? E poi cosa ci facevi in questo posto? È chiuso da ore. Il parco è chiuso da ore!.

    Sorpresa dai suoi stessi pensieri, Amber scoppia a ridere, un riso sguaiato e beffardo.

    «Cazzo!», esclama a voce alta. «Cosa faccio adesso?».

    Va’ a cercare aiuto. Fa’ quello che farebbe chiunque, Amber: esci di lì e comportati in modo naturale; sei scioccata, spaventata, nessuno ti farà domande. Un tizio va in giro per la città ad ammazzare ragazzine, ma questo non significa che arriveranno a capire chi sei… Però ci saranno i giornalisti. Lo sai già come funziona: farebbero qualunque cosa pur di riempire una pagina; inventano mille dettagli, in mancanza dei fatti. La tua foto finirà su tutti i giornali: la donna che ha scoperto il cadavere.

    "Non posso farlo".

    Qualcuno tenta di aprire la porta di ingresso. Amber sobbalza al rumore della maniglia che gira a vuoto. Sente le voci di Jackie e Moses: lei chiacchiera allegramente, flirtando con il ragazzo che risponde a monosillabi, anche se dal tono di voce è chiaro che sta sorridendo.

    «Viene sempre qui dopo la pausa», dice Jackie. «Amber? Sei lì? La porta è chiusa a chiave!».

    Amber trattiene il fiato: teme che persino il sibilo del respiro possa tradirla. Oh mio Dio, cosa faccio? Devo uscire di qui.

    «Vieni», dice Jackie «proviamo a passare dal retro. Forse è uscita un attimo a prendere una boccata d’aria».

    «Okay», risponde Moses.

    È finita. Non ha più via di scampo. Ascolta il rumore dei loro passi che si allontanano. Ci vogliono due minuti, più o meno, per arrivare sul retro. Non può fuggire, non può evitare il momento della scoperta.

    Allora si fa coraggio, scavalca le gambe della ragazza, flosce come quelle di una marionetta, e corre verso l’uscita d’emergenza, celata da una tenda nera. Meglio che la trovino fuori, all’aria aperta, mentre vomita sui gradini.

    Ore 9

    La porta della camera da letto dei genitori è aperta e il tanfo caseario di pelle sudata e lenzuola sporche grava sul pianerottolo come la nebbia su una palude. La mamma non si è ancora alzata; ne scorge la sagoma informe, rannicchiata sotto le coperte sudicie. Avanza fin sulla soglia e con voce incerta chiama: «Mamma?».

    Non risponde, eppure nota un leggero movimento del braccio, che grava sulla coperta tozzo come uno stinco di maiale, per cui capisce che è sveglia.

    «Mamma?».

    Lorraine Walker emette un sospiro pesante e rauco come un grugnito e si gira sulla schiena. Pare incagliata tra le lenzuola, come un’enorme tartaruga rovesciata sul guscio; poi ruota la testa, il volto inespressivo e rassegnato, e guarda la figlia: «Che vuoi?».

    La sua voce è impastata, bavosa, confusa. Non si è ancora messa la dentiera. Fa già molto caldo, anche se non sono ancora le dieci di mattina. Con i suoi centocinquantotto chili, Lorraine rischia di soffocare, sotto le coperte. Jade nota che si è messa la camicia da notte delle grandi occasioni: lunga al ginocchio, con un motivo floreale in nylon garzato, di dimensioni sufficienti a ricoprire una poltrona. La pelle risalta lattescente sulla stoffa della camicia e i gomiti sporgono ossuti da cascate di grasso.

    «Non c’è niente da mangiare per colazione».

    «Oh Cristo!». La signora Walker si solleva faticosamente dal letto. Jade osserva il viso sfatto della madre: gliene importa così poco di quella donna che non prova nemmeno disgusto. «Vallo a dire a tuo padre».

    Già… Ci pensa lui… Come no…

    Jade se ne va. Scende le scale e procede a zig-zag lungo il corridoio. Da quando ha memoria, la sua vita in quella casa è sempre stata una gimcana, un percorso a ostacoli da una stanza all’altra. Suo padre crede di essere un rigattiere, ma in realtà accumula soltanto inutile ferraglia, la merda che gli altri gettano via. Parecchia di quella roba è finita dentro casa, perché il padre di Jade teme che qualcuno possa rubargli la sua preziosa collezione di coprimozzi e cerniere, di ruggine e gomma.

    In cucina, Jade cerca sfiduciata qualcosa con cui placare la fame, ma non c’è niente nella credenza: sei scatole di cereali vuote, un involucro di plastica, che un tempo doveva contenere una qualche specie di pagnotta, e un litro di latte in polvere, indurito e sgretolato.

    Poteva far notte prima che qualcuno si accorgesse della situazione e vi ponesse rimedio. La madre di Jade, nonostante la stazza, è capace di non toccare cibo per un giorno intero. Entrambi i genitori si mantengono in vita seguendo una dieta a base di Nescafé e tabacco, con qualche pezzo di coniglio stufato di tanto in tanto, quando funzionano le trappole che hanno piazzato in giardino. Bella forza, con quella scorta di grasso che si ritrova lei non ha bisogno di mangiare tutti i giorni, pensa Jade, che di norma non osa giudicare nessuno.

    Sente il padre imprecare in giardino, mentre prende a martellate qualcosa. Non ho nessuna intenzione di rivolgergli la parola, quand’è di quest’umore. Magari mi ritrovo con un labbro spaccato, oltre allo stomaco vuoto.

    Poi nota la giacca del padre appesa allo schienale di una sedia. Deve far molto caldo là fuori se se l’è tolta. Jade non l’ha mai visto senza. A volte riconosce l’arrivo del padre anche senza sentirne il rumore, proprio dall’odore della giacca, un misto di tabacco, sudore e merda di maiale che ha impregnato ogni fibra della stoffa. Dà un’occhiata in cortile, per essere certa che il padre sia davvero lontano, come sembra dalla voce, poi si avvicina in punta di piedi e infila la mano in una tasca: la scatola del tabacco, pezzetti di metallo di forma indefinita, un coltellino tascabile e… bingo! Le dita di Jade si stringono attorno a una moneta da venti penny, che al tatto le pare calda, rassicurante, quasi allegra. Venti penny. Probabilmente non sa neanche di averli in tasca. Bastano per un Kit Kat, e magari anche per una barretta di Mars. Non è granché, ma se le mangia poco alla volta, dovrebbero bastarle per tutto il giorno.

    Capitolo 4

    «Perché lo dico io e basta!», ribadisce Jim.

    È una spiegazione che non funzionerà ancora per molto, pensa Kirsty. Tra meno di un annetto Sophie diventerà ufficialmente una teenager.

    «Perché lo dico io? Ma davvero?», ripete sarcastica Sophie. «Non hai niente di meglio da dire?»

    Il tostapane sobbalza. Kirsty ci infila altre due fette e poi spalma la margarina su quelle già tostate. Magari avessimo uno di quegli aggeggi che tosta quattro fette contemporaneamente, pensa. Credo di aver sprecato almeno tre settimane della mia vita ad aspettare il pane tostato, da quando sono sposata.

    Jim abbassa il Tribune e si sistema gli occhiali sulla testa. Ha dovuto accettare il fatto che l’attaccatura dei capelli non ritornerà miracolosamente dov’era

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