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La terza vittima
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E-book438 pagine6 ore

La terza vittima

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Info su questo ebook

Un grande thriller
Un autrice da 3 milioni di copie
La regina del thriller norvegese è tornata

Oslo, 1988. La dodicenne Maike Hagg viene trovata morta nei locali dell’Ospedale psichiatrico di Gaustad. La polizia, dopo le dovute indagini, conclude che si è trattato di un incidente: la ragazzina, figlia di un paziente, è caduta, battendo la testa sul pavimento. Poco prima che il fatto cada in prescrizione, Emmy Hammer e Aud Johnsen si incontrano per la prima volta dopo venticinque anni. Rispettivamente figlie di un primario e di un altro paziente psichiatrico, Emmy e Aud conoscevano bene Maike, con cui giocavano spesso per i corridoi dell’ospedale. L’incontro tra le due donne innesca una reazione a catena di eventi drammatici che costringe l’ispettore Cato Isaksen e la sua affascinante aiutante Marian Dahle a riaprire il caso…

«Unni Lindell è una delle voci più intense e raffinate del parterre scandinavo.»
il Sole 24 ore

«La terza vittima è davvero un capolavoro!» 

«Unni Lindell sa come prendere il lettore, metterlo in un frullatore e farlo uscire solo alla fine. Un thriller scritto in modo magistrale.»
Unni Lindell
Nata nel 1957, è tra le più celebri scrittrici norvegesi. Ha riscosso un grande successo internazionale soprattutto con i suoi thriller (protagonisti l’ispettore Cato Isaksen e la sua giovane collega Marian Dahle), da cui è stata tratta anche una serie televisiva.  La Newton Compton ha pubblicato La trappola, il primo libro che vede protagonisti l’ispettore Cato Isaksen e la sua giovane collega Marian Dahle, e L’ultima casa a sinistra, il secondo romanzo della serie, che prosegue con Dolce come la morte e Il caso della donna sepolta nel bosco.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2016
ISBN9788854196582
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    Anteprima del libro

    La terza vittima - Unni Lindell

    1339

    Traduzione dal norvegese di Irene Peroni

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9658-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma

    Unni Lindell

    La terza vittima

    Newton Compton editori

    Indice

    La terza vittima

    Caro lettore

    Ringraziamenti

    N.B. Tutte le note del testo sono della traduttrice.

    Nei dialoghi i personaggi si danno del tu perché in Norvegia abitualmente non si usa il lei.

    Il locale caldaie è rimasto chiuso per parecchi anni. Passo il tempo nel piccolo edificio di mattoni sulle cui pareti esterne la vite selvatica si abbarbica come io mi aggrappo al futuro. Qui ho tutto: pace, silenzio, oscurità. Non devo indugiare sui miei problemi personali: soltanto portare a termine il mio piano. Mi sembra quasi di essere l’unica creatura sopravvissuta a un’inquietante catastrofe. La paura si espande dentro di me come una ragnatela nera. Il termine omicida non mi si addice. Non esattamente.

    È proprio qui intorno che tutto ebbe luogo, tanto tempo fa. Fu come cadere in un pozzo. Ma il tempo è passato, e io me la sono cavata. Tutto è come prima, qui: la scala d’acciaio con il muschio, i passerotti che becchettano l’asfalto. Le volpi al limitare del bosco. Insetti che d’estate ronzano contro i piccoli riquadri delle finestre piombate; nessuno può guardare all’interno, ma da dentro si possono comunque intravvedere le grandi ombre delle chiome degli alberi sull’erba, d’estate. Sento lo scalpiccio dei topi in cantina, e l’odore freddo del muro che dal cunicolo sotterraneo filtra tra le fessure della botola. Sta nevicando. L’odore dell’inverno ha impregnato le pareti. La coltre bianco ghiaccio sullo spiazzo tra gli edifici ricorda un sudario, fatta eccezione per quella striscia priva di neve e larga un metro che attraversa il prato, lì dove il calore del tunnel sotterraneo mantiene sgombro il terreno. Il tunnel parte dall’edificio principale. La guardia della vigilanza pensa che sia normale che mi trovi qui. Non si pone domande su nulla. Spesso scambiamo due chiacchiere, poi lui prosegue il giro. Quando sarà il momento, me ne andrò via. Penso proprio che avverrà questa notte. La cesta di vimini ora è dentro la fornace. Quando il suo corpo sarà bruciato completamente, abbandonerò per sempre questo luogo.

    Ospedale di Gaustad, 27 novembre 1988

    Cara Berit,

    ciò che è successo una settimana fa è una cosa terribile. È orribile che Maike Hagg se ne sia andata a soli dodici anni. La polizia è stata qui e mi ha interrogato, e so che sono venuti anche a casa tua. Ma che cosa ci faceva la bambina giù nell’archivio sotterraneo? Da questo momento in poi, le giornate dei bambini sono cancellate. Ti sembra sia stato intelligente pensare che i figli di pazienti psichiatrici avessero bisogno di mescolarsi con altri bambini nella stessa situazione? I degenti del reparto di sicurezza sono pericolosi. Questo lo sai. Come ha fatto Maike a venire in possesso della chiave? Tu hai portato in giro i bambini là sotto, hai lasciato che vedessero la stanza chiusa a chiave con le vecchie tavole di legno e le cinghie di contenimento. Tu li hai portati nei passaggi sotterranei, gli hai permesso di inoltrarsi nelle catacombe, e gli hai mostrato dove si trovano la stanza dell’elettroshock e gli archivi sotterranei. È possibile che Maike stesse cercando qualcosa negli archivi, magari istigata del padre?

    Perché te ne stai a casa? Devi tornare al lavoro! Io con te ho discusso analisi e relazioni scritte. Tu stessa hai commesso delle cose illegali e hai informato i pazienti sulle loro diagnosi in maniera più dettagliata di quanto non abbia fatto io come primario. Questa cosa io non l’ho denunciata alla polizia. D’ora in avanti ti proibisco di avvicinare i pazienti con quella tua indole che dissimuli pretendendo di essere premurosa. D’ora in poi saremo solo Norma e io che ci prenderemo cura di loro quando hanno bisogno di parlare dei loro problemi. Lei è un sacerdote. Tu sei una segretaria, Berit.

    La bocca della bambina impiastricciata di rossetto ha suscitato molti sospetti nella polizia. Ne dovrai rendere conto tu. Adesso è importante proteggere gli altri bambini e prenderci cura di loro. Specialmente dei fratelli di Maike, Jan e Piet, ma anche di Aud e della mia Emmy.

    Saluti, Carl.

    Emmy Hammer si infilò velocemente il cappotto, e si avvicinò rapida alla porta di vetro con la maniglia di ottone arcuata. Doveva andarsene dal Theatercaféen. Vide la propria figura riflessa nel vetro della porta d’ingresso: il cappotto bianco sembrava un costume da fantasma, e i suoi boccoli, come quelli dei rasta giamaicani, ricordavano una corda attorcigliata su se stessa. Aveva ciglia e sopracciglia chiare, e la bocca leggermente troppo grande. Spalancò la porta e uscì fuori, all’aria fredda. C’era il cielo stellato; i puntini luminosi sopra la cupola del Teatro Nazionale sembravano quasi delle impronte di dita. Gettò un’occhiata al tabellone pubblicitario sulla parete illuminata del teatro, e le tornò in mente il rumore sgradevole di un cucchiaio che sbatte con forza contro un piatto. Era l’ultima sera di ottobre. Erano le 19:35. Si girò e gettò uno sguardo verso le vetrate illuminate del Theatercaféen; Aud sedeva sempre allo stesso posto, dandole le spalle. I suoi capelli corti e scuri spiccavano su quel vestito giallo come un seme di girasole. Emmy urtò una coppia di anziani in ghingheri che camminavano stretti stretti. Il suo lungo foulard celeste le scivolò giù, e finì in mezzo a un gruppo di giovani in costume. Emmy lo lasciò lì e passò rapida di fronte all’ingresso dell’albergo, al fioraio e al giornalaio d’angolo. Era stato strano rivederla. Ormai avevano trentasette anni. Aud aveva fatto delle affermazioni dolorose. Era come se se ne fossero state lì, sedute nel bel mezzo di una scenografia fasulla, senza senso. Intorno a loro, le posate tintinnavano contro i piatti bianchi. Emmy, da parte sua, si era sentita una nullità, sebbene le accuse non avessero nulla a che fare con lei. Semplicemente non aveva voglia di ascoltare, e alla fine aveva preso la sua borsa, l’aveva stretta a sé e si era precipitata verso il guardaroba.

    Il tram passò sferragliando. Nella luce bianca del vagone c’erano ragazzi travestiti da scheletri e pipistrelli. Le venne in mente di chiamare la polizia, ma non sapeva esattamente come esprimersi per dare un quadro corretto della situazione. Doveva pensare, e in fretta. Aud l’aveva chiamata una rimpatriata. Dopo quasi venticinque anni. Emmy era scossa da violente ondate di caldo e di freddo. Qualcosa l’aveva spaventata già al momento di sedersi al tavolo. Aud non era più la stessa. Era una giornalista e aveva convocato lei, la figlia dello psichiatra. Nel giorno dei morti, per parlare di Maike, che aveva perso la vita a dodici anni: Caduta da una scala pieghevole, ha sbattuto la testa sul pavimento di pietra della cantina di Gaustad.

    Il cameriere aveva versato loro del vino e portato del pane in un cestino. Aud disse con voce cristallina: Che bello che sei venuta. Era da tanto che avevo voglia di parlarti. La prescrizione per gli omicidi scatta dopo venticinque anni. Nel caso di Maike mancano tre settimane prima che ciò accada. Emmy l’aveva guardata a bocca aperta, non fosse altro per quell’espressione: il caso di Maike. Come se si trattasse di un caso. L’inquietudine la pervase come un veleno. Sei mai stata in contatto con Berit Adamsen? Io ho provato a rintracciarla.

    Emmy non vedeva la segretaria del padre da venticinque anni. L’unica cosa di sé che era riuscita a raccontare era che aveva un figlio, e che stava per fare una mostra. Indorò la pillola, tacendo il fatto che era quasi certo che l’avrebbero annullata, e che nell’ultimo mese aveva venduto un solo quadro. Nel suo atelier giacevano pile e pile di tele. In realtà si era arresa, ammettendo con se stessa che non sarebbe mai stata nulla più che una pittrice dilettante. Le idee grandiose che le venivano in mente quando iniziava un quadro si ridimensionavano sempre più fino a trasformarsi in una scena patetica qualsiasi, con figure rigide, quasi infantili, dal sapore amatoriale.

    Gettò uno sguardo distratto su di un vestito a righe nella vetrina di Norway Designs, ed entrò in tutta fretta da Burns¹. Il bar con il suo arredamento marrone era pieno di gente. L’acustica era sgradevole. Voci e risate rimbombavano nel locale. Emmy si fece strada e trovò un tavolino vuoto nell’angolo più interno; poggiò la borsa e ne estrasse il cellulare.

    Si lasciò scivolare giù il cappotto, si avvicinò al bancone e ordinò un gin tonic a un uomo magro dai capelli neri. Prese il bicchiere e si abbandonò sulla sedia, isolandosi dal vociare degli altri clienti del bar. Poi scoppiò in un pianto silenzioso. Pensò a Maike. Era morta. Poverino, il suo papà, Werner Hagg. Era un uomo alto, assomigliava a Bruce Willis. Lo chiamavano il gigante. Aveva ucciso con un’ascia, ed era finito nel reparto di cui era stato responsabile proprio il padre di Emmy. Ormai Hagg doveva avere più di sessant’anni. E i due fratelli di Maike, Jan e Piet; uno bello e alto, l’altro un disastro totale. Emmy si asciugò il naso con la manica della blusa. Ricordava bene anche il padre di Aud, John Johnsen: un paziente magro e giallognolo con un lungo soprabito.

    A dodici anni ridacchiavano per ogni sciocchezza. Facevano finta che gli edifici dell’ospedale fossero dei castelli in cui accadevano cose fantastiche. Il cielo con le sue strisce rosse sopra i tetti rendeva quei palazzi tetri e misteriosi, d’autunno. Pensò alle volte in cui d’estate sedevano sulla panchina nel parco di fronte al sanatorio a chiacchierare, mentre il vento secco frusciava tra l’erba; a quando compravano il gelato nel chioschetto di fronte alla reception oppure giocavano a campana sotto il porticato: saltellavano nei riquadri mentre le ombre dei grandi alberi ondeggiavano sui sassi. I loro padri erano sottochiave: di quello si occupava suo padre. Maike era piccola e tozza, con gambe corte e cicciottelle, e capelli grassi color castano chiaro. Una volta si era vantata del fatto che, quand’era piccola, i suoi denti da latte si erano anneriti ai bordi e poi erano marciti. Lei e Aud non erano state sempre gentili, con Maike. Funzionava così in qualsiasi gruppo: qualcuno doveva essere il più debole. Emmy si era inventata che Maike aveva i vermi. Erano riuscite a rimediare della trementina che si trovava all’interno del locale caldaie, e gliel’avevano somministrata. La cosa era stata scoperta. Berit Adamsen si era inferocita. Anche Norma Winther, ma in modo diverso. Norma era un pastore, ed era più mite.

    Emmy Hammer trangugiò quel drink trasparente a grandi sorsate mentre pensava ai tempi di Gaustad. Il calore le si diffuse nello stomaco, e lei poggiò energicamente il bicchiere con la fetta di limone sul tavolo. Una vampata mista a bruciore le scese giù per la gola. Le parve di risentire la voce di Aud. Domani ho un appuntamento con Norma, il pastore, e contatterò nuovamente Ole Porat, perché l’ultima volta che l’ho chiamato non mi ha risposto. Penso che a suo tempo avesse capito qualcosa.

    Ole Porat era un giovane studente di medicina allievo di suo padre, che all’epoca viveva nel locale caldaie. Ormai doveva avvicinarsi alla cinquantina. Suo padre era in pensione e non parlava mai di quel periodo, ma qualcosa doveva essere successo, con quel Porat. Non c’è da fidarsi di lui. Era così che aveva detto, suo padre? Ormai era passato un quarto di secolo. Emmy Hammer voltò la schiena a un tipo ubriaco e invadente. Dopo avrebbe cercato i numeri di telefono sul suo iPhone, e li avrebbe avvertiti. Prima avrebbe telefonato a Jan per dirgli che Aud aveva scoperto che la morte di Maike non era stata una disgrazia, ma un omicidio. E che Aud pensava che fosse stato lui a ucciderla. E poi avrebbe chiamato suo fratello, Piet. E Ole Porat. In quest’ordine. Tutti e tre sarebbero rimasti scioccati a sentire il suo racconto, perché c’era dell’altro: l’assassino con l’ascia, Werner Hagg, padre di Jan, Piet e Maike, in realtà non aveva ucciso sua moglie. Erano stati i suoi figli a farlo. Oggi Jan e Piet avevano rispettivamente quarantuno e trentanove anni. E adesso, Aud Johnsen stava per scrivere un articolo su quella faccenda. E avrebbe contattato la polizia, prima che scattasse la prescrizione. Emmy Hammer ordinò un altro drink e alzò lo sguardo quando un uomo la chiamò baby.

    Il tassista guardò la donna bruna dal viso segnato nello specchietto retrovisore. L’aveva fatta salire davanti al Theatercaféen. Sembrava stressata. L’orologio sul cruscotto segnava le 19:47. «Portami a Sandakerveien 22 G», ripeté lei per la seconda volta.

    «So dov’è: sono gli edifici delle vecchie fabbriche lungo il fiume Akerselva. Trasformati in appartamenti», disse lui mentre passava accanto al Parlamento.

    *

    Aud Johnsen incrociò lo sguardo dell’autista nello specchietto. L’impianto di riscaldamento ronzava leggermente. A casa non c’era nessuno ad aspettarla: soltanto il cane. Fra tre anni ne avrebbe compiuti quaranta. Gli angoli della bocca erano più profondi del normale, la pelle bianca della fronte era segnata da due rughe orizzontali, la bocca era una semplice riga subito sopra il mento. Emmy era così bella quella sera, con i pantaloni lunghi, la blusa chiara e i capelli biondissimi, quasi bianchi, che le arrivavano alle spalle. Gli occhi celesti brillavano sotto le sopracciglia chiare: una passata di rossetto l’avrebbe resa bellissima. Lei invece sotto il cappotto leggero indossava un abito sportivo giallo con le tasche, che si intonava ai suoi capelli corti e corvini.

    La serata era andata più o meno come previsto. Per Emmy era stato troppo, e sentiva che lo era stato anche per lei stessa. La parola dissociativo le frullava in mente. Perdita di memoria dopo grandi sforzi e stress verificatisi da bambini. Emmy le era sembrata persa. Tranne quando aveva parlato del figlio Philip: a quel punto si era sciolta un po’. Lui aveva ventun anni e studiava medicina in Polonia. Che Emmy facesse la pittrice era piuttosto sorprendente. C’era da aspettarsi che sarebbe diventata qualcosa di più, proprio lei che era la figlia dello psichiatra.

    Il taxi attraversò Alexander Kiellands plass e continuò in su passando accanto alla casa di Hønse Lovisa. Quel vecchio edificio proletario era stato trasformato in un caffè culturale, e portava il nome di un personaggio letterario di Oskar Braaten². Cercò nuovamente sull’iPhone il numero di telefono di Berit Adamsen, e la chiamò per la terza volta. Il telefono squillò a vuoto. Non rispose neanche questa volta. Aud pensò a Berit Adamsen e provò una rabbia che si era accumulata come in una pentola a pressione, repressa per tutti quegli anni. Berit aveva lavorato a Gaustad. Erano lei e il pastore che avevano organizzato le giornate dedicate ai bambini. I padri vivevano nell’edificio di mattoni rossi nella zona più alta del complesso ospedaliero. Lei, Maike ed Emmy giocavano a campana, mentre i fratelli di Maike, Jan e Pier, facevano da spettatori. Qualche volta giocavano a ruba-terreno³ con il coltello di Piet.

    Maike era stata uccisa. Ormai mancavano solo tre settimane prima che scattasse la prescrizione. Il giorno dopo, Aud avrebbe incontrato il pastore Norma Winther presso l’ufficio di lei. Era ovvio che la donna sapesse qualcosa. Sicuramente si nascondeva dietro al segreto professionale. Aud voleva rintracciare anche Ole Porat, che di certo temeva per la propria carriera. Avrebbe comunque scritto l’articolo, e poi contattato la polizia. Ma non quella sera stessa. In fondo non si trattava di una situazione estrema che giustificasse una chiamata a un numero di emergenza. Maike tanto non sarebbe mai tornata, quindi il giorno dopo poteva andar bene lo stesso.

    Quando il taxi percorse la discesa lastricata in direzione di Myrens Verksted, erano già le 19:55. Lei pagò, disse che lo scontrino non le serviva, e scese. Attraverso le grosse vetrate illuminate della palestra vide la gente che correva sul tapis roulant. Davanti all’ingresso c’erano due zucche intagliate con dentro delle candele. Le luci posteriori rosse del taxi sparirono di nuovo su per la salita. Lei sgattaiolò nel vicolo buio tra gli edifici, girò l’angolo e si diresse al portone, incorniciato da un alto muro di cinta. Voleva soltanto entrare dentro e sentire il calore del cane con il palmo della mano, liberarsi del frastuono in testa. Il lampione gettava una flebile luce sul cortile alle spalle della vecchia fabbrica.

    Aud aveva cercato di rintracciare il padre, quel giorno, per avvertirlo di ciò che sarebbe successo, ma lui non aveva risposto. Era convinta che si trovasse nella sua casetta negli orti di Sogn⁴. L’uomo stava attraversando un brutto periodo. Aveva una diagnosi di schizofrenia, ed era stato ricoverato per gran parte del tempo, quando lei era bambina. Ricordava di averlo sentito parlare di uccelli con occhi di diamante che lo spiavano, da piccola. E anche di Dio, Gesù e degli angeli. L’angelo è un demonio. La gente pensa che gli angeli siano creature benefiche. Le risuonava in testa la sua voce, lenta. Ora stava prendendo dei farmaci e se la cavava discretamente, ma pensava ancora che la gente lo perseguitasse, e aveva ricominciato con le réclame: ne radunava a mucchi, prendendole dalla cassetta delle lettere; poi le infilava in grosse buste e le rispediva al mittente.

    *

    Il cane, un meticcio di taglia media, le si fece incontro scodinzolando. Ce lo aveva da sette anni, il suo Bruff. Gli fece una carezza, accese la luce, si sfilò gli stivaletti, entrò in salotto e gettò il cappotto su di una sedia. Alzò lo sguardo e fissò la pendola. Rimase in piedi presso la finestra a parete a guardare dal lato opposto del fiume, in direzione delle luci delle vecchie case operaie sull’altra sponda. Quegli edifici erano lì da centocinquanta anni. Poi chiamò di nuovo il padre, e questa volta lui rispose.

    «Papà», disse lei, immaginandosi il viso grigio e affilato di lui, «lo so che sei nella casetta delle vacanze». All’altro capo tutto tacque. Lo sentì ripiegare un giornale. Di certo lo stava passando al setaccio alla ricerca di crimini e sciagure che potessero confermare la sua visione del mondo: Là fuori succedono cose terribili. Bisogna tenersi pronti. Posò lo sguardo sulla fila di piante di tuja, poi si girò e fissò i poster incorniciati alla parete, ma senza guardarli realmente. «Va tutto bene, papà, rimani pure lì, io d’ora in poi avrò molto da fare, ma c’è una cosa che devo dirti. Ti ricordi Maike, la figlia di Werner Hagg, quella che è morta?»

    «Come no…».

    «Giocavo con lei e con la figlia del dottor Hammer quando eri ricoverato. Lì sul piazzale, ti ricordi? D’estate. E andavamo anche in cantina e in soffitta. Voglio che tu legga il mio diario. Si trova sotto un’asse sconnessa vicino alla porta-finestra del giardino. Questa sera mi sono vista con Emmy Hammer».

    Lui rimase muto all’altro capo, così lei seguitò: «Sto cercando di mettermi in contatto con Berit Adamsen. E domani devo vedermi con Norma Winther, il pastore di lassù, te la ricordi?»

    «Certo».

    Si vide di nuovo davanti il padre, i capelli spettinati e lo sguardo vuoto, assente. «Quando avrai letto il diario, capirai tutto quanto, papà. Ricordati solo di rimetterlo sotto l’asse, dopo. Va bene? Papà, va bene?».

    Lui biascicò qualcosa.

    «Adesso spengo il cellulare, papà. Sono stanca. Ci sentiamo domani».

    Il cane la seguì mentre andava a stappare una bottiglia di vino; poi riempì un grosso bicchiere e lo bevve. Si stese sul divano, si coprì le gambe con un plaid e fissò gli occhi sull’alto soffitto. Porta a termine il tuo progetto: scrivi l’articolo, e poi potrai lasciarti andare. Chiuse gli occhi. Era come se fosse a Gaustad: i lunghi corridoi con la pittura ingiallita, il silenzio oltre le porte chiuse, il servizio di porcellana bianca in sala da pranzo. Era davvero massiccio, in modo che non si scheggiasse. E le polpette con il cavolo stufato e la salsa marrone. Già dopo la prima visita capì che non sarebbe mai tornata a essere quella di prima. Come se quel posto fosse un capolinea: perfino quando il cielo era blu ed era estate. Anche dopo, quando ormai era al sicuro e dormiva nel proprio letto a casa della madre, sapeva che era la fine del mondo: c’era qualcosa che andava taciuto e negato. Tornò lì a visitare il padre, più e più volte. E poi conobbe le altre bambine. Se le rivedeva davanti, ora: levitavano di fronte a lei nella luce bruna della cantina. Emmy e Maike. In qualsiasi momento avrebbe potuto richiamare alla mente il sentore di muffa delle pareti di quel passaggio sotterraneo. I cunicoli si diramavano in tutte le direzioni, sotto gli edifici. L’acqua colava dalle tubature alle pareti, là sotto, frusciando come un ruscello che ruscello non era. E la voce dei maschi: quella di Jan, acuta, e quella di Piet, più bassa. Aud si mise a sedere. I pensieri erano come una lente d’ingrandimento che radunava i raggi di sole dell’infanzia per dar fuoco a un planisfero. Quando Emmy poco prima era scappata di corsa dal Theatercaféen, aveva provato un senso d’angoscia, e allo stesso tempo la consapevolezza che esisteva un filo che collegava quei due universi. Era una storia pericolosa e nera come l’inchiostro, quella che si accingeva a raccontare, con un colpevole che presto sarebbe stato costretto a uscire allo scoperto per morire un po’.

    John Johnsen si sedette sulla panca di legno di fronte al tavolo consunto della casetta nell’orto. Aveva trovato il quaderno rosa pallido di Aud sotto la trave sconnessa di fronte alla porta-finestra del giardino, così come lei aveva detto. L’orto comunale si trovava dietro un’alta rete metallica a trama fitta e con un cancello chiuso a chiave, quasi si trattasse di un campo di concentramento. Mancava ancora molto tempo all’estate, a che il sole si spostasse lungo il reticolato in modo tale da proiettare parallelepipedi di luce sul terreno. Ora si stava avvicinando l’inverno. Il buio opprimente sarebbe durato ancora per diversi mesi. Il termoventilatore era acceso al massimo della sua potenza. All’interno della vetrinetta non c’erano solo ninnoli ma anche libri, alcuni dei quali di proprietà di varie biblioteche. Ce n’erano perfino alcuni dei vecchi tempi, di quando il pullmino della biblioteca veniva a Gaustad col suo preziosissimo carico. Il piccolo principe, tra gli altri, e una delle cupe raccolte di poesie di Sylvia Plath. Sotto di essi c’era I testimoni muti. La mensola immediatamente sottostante era riservata a vari oggettini: una scatoletta di porcellana e alcune figurine di legno. Poggiò davanti a sé il quaderno della figlia, e si passò le dita tra i capelli grigi e radi. Una volta qualcuno gli aveva detto che assomigliava a una lumaca. Non se l’era mai dimenticato. Gli occhiali erano troppo grandi per quel viso magro. Se li tolse e li pulì con la tovaglia. Con cura, a lungo. Attraverso la finestra con l’inglesina vide passare una signora anziana alla luce del lampione. Sapeva chi fosse: era quella col naso aquilino, la proprietaria della casetta blu, vicino ai contenitori per la spazzatura. La donna aveva messo fuori una fiaccola. Di certo per rimarcare che quella era la notte di Ognissanti. Lì non c’era nessun altro, tra ottobre e marzo. Gli chalet in miniatura erano fitti fitti, in quella zona. Il silenzio era rotto soltanto dal rumore delle macchine che proveniva da Sognsveien. A John piaceva la tranquillità. Da Vøyensvingen saliva su agli orti comunali tutti i giorni, ma non ci pernottava mai; di sera se ne tornava sempre al proprio appartamento. Il suo fisico era magro ma resistente. Poteva camminare per intere giornate. Di solito gli psicotici erano facili da riconoscere: uomini come lui, che andavano in giro con le galosce e il cappotto lungo in un giorno di sole, che stavano attenti a non calpestare il bianco delle strisce pedonali, e che pontificavano sulla fine del mondo agli angoli delle strade. Ma lui aveva smesso di predicare. Un tempo quelli come lui li rinchiudevano e li tenevano nascosti, ma adesso non più. Alla figlia non piaceva che se ne stesse lì, ma gli lasciava ugualmente la chiave di casa là fuori, sopra l’infisso della porta. Avevano un tacito accordo: lui avrebbe rimesso tutto in ordine e si sarebbe volatilizzato durante i weekend, mentre Aud faceva scorte di caffè, biscotti e pizza dolce di Natale che lasciava nel portapane. Se la vide davanti: lo sguardo nero come il tizzo. Stava ben attento a prendere le sue pillole, sapeva che se non l’avesse fatto sarebbe andato tutto a puttane. Nessuno lo capiva. Era così da sempre, e così sarebbe sempre stato. Di tanto in tanto si incontrava con la figlia, ma sentiva che lei veniva colta da un senso di irrequietezza, quando si vedevano. E ciò rendeva nervoso anche lui. Erano troppo vicini. Non riusciva ad avere frequentazioni normali, come le chiamavano, con chicchessia.

    Si mise a leggere nel diario. Oggi siamo andati in soffitta, fin su nella torre. Con Berit. Lì è sporco e fa paura. Ma dopo siamo sgattaiolate in cantina. Là sotto c’è un archivio con dei documenti all’interno di cartelline di plastica, e foglie autunnali negli angoli. Le ha soffiate giù il vento attraverso la finestra della cantina. I fratelli di Maike, Jan e Piet, andavano avanti. Dietro venivamo noi tre femmine. Siamo entrati in una stanza buia e impolverata. Era una specie di camera delle torture, ha detto Jan. Con delle tavole e delle cinghie. Jan dice che in passato è stata la stanza dell’elettroshock. Non so bene cosa voleva dire. Ci siamo inoltrati nei tunnel. La muffa sul soffitto puzzava, e da entrambi i lati, sulle pareti di pietra, c’erano dei grossi tubi. Era molto stretto e c’era buio pesto. Là dentro è possibile perdersi e non riuscire mai più a tornare alla luce. Ma poi è arrivata Berit e ha urlato di uscire subito di lì.

    Scriveva del pastore, Norma Winther: È simpatica. E anche del giovane studente di medicina: Nell’edificio bianco verso la collina dei castagni tagliano via una parte dal cervello della gente. L’ha detto Ole Porat. Lavora nel reparto, lui. Assomiglia al tennista Björn Borg. Fa lo scemo e dice che si sposerà con noi. Ma Norma dice che non dobbiamo ascoltarlo. Lei vuole convincerci che Gesù è la persona più buona che sia mai vissuta sulla terra.

    John Johnsen guardò quella scrittura infantile. Era proprio destino che sarebbe diventata giornalista. In Aud coesistevano due modi di essere: di solito era allegra ed energica, ma poteva anche venir colta da una rabbia cieca. C’era come un campo elettrico, intorno a lei. Il padre si immaginava che vivesse sola, scrivesse e facesse passeggiate col cane. Se gli aveva chiesto di leggere il diario, di certo un motivo ci doveva essere; dunque proseguì.

    Berit Adamsen è una segretaria gentilissima. Scrive a macchina. E il papà di Emmy è medico, e alla fine farà guarire papà, e forse anche il papà di Maike. Ma Maike, poverina, mi fa un po’ pena, perché a me e a Emmy non sta molto simpatica. Però i suoi fratelli, Jan e Piet, loro sì che ci piacciono! Mio padre ha qualcosa di sbagliato nella sua testa, ma non ha fatto niente di terribile, a differenza del padre di Maike. Werner Hagg ha una stanza singola: infatti ha ucciso sua moglie con un’ascia.

    Werner Hagg era fuori, nel fienile, e stava intagliando il bordo di una bara. C’era odore di legno e di inverno. Alcune ore prima, la nebbia era adagiata sui campi neri e gialli lungo la strada sterrata, ma ora era buio e si vedeva il cielo stellato. Il fabbricante di bare: così lo chiamavano i vicini. I ragazzini che vivevano nei dintorni adoravano spiarlo e andare a bussare sulle pareti del fienile quando passavano per i suoi campi per andare o tornare da scuola. Oppure dopo il tramonto. Lo chiamavano il gigante, il soprannome che gli avevano affibbiato quand’era ricoverato. Aveva la testa rasata, il naso adunco e le orecchie grandi. Le sue braccia erano muscolose, ed era in ottima forma malgrado avesse sessantatré anni. Gli ultimi dieci anni li aveva trascorsi in quella piccola fattoria vicino a Ski. Nessuno in zona sapeva che era un assassino e un ex paziente psichiatrico. Se fuori era buio e arrivavano i ragazzi, capitava che si facesse piccolo piccolo, lì alla luce della lampada da terra presso il tavolo da lavoro. Aveva sigillato la finestra con la carta da pacchi, ma alla parete c’erano delle fessure; se filtrava la luce, i ragazzi capivano che era lì dentro.

    Gli attrezzi erano appesi alla parete. Li teneva molto da conto. Indosso aveva un grembiule liso di colore grigio. Mentre lavorava, ascoltava alla radio il notiziario delle 20:30. Una voce parlava senza sosta del nuovo governo e dei nuovi ministri. Sarebbero stati in grado di cambiare la Norvegia così come avevano promesso? Quello era il giorno dei morti, ma per lui il giorno dei morti durava tutto l’anno: suo figlio Jan gestiva l’impresa di pompe funebri Vita insieme alla moglie Ingrid. Werner aveva spesso pensato che bisognasse avere qualche rotella fuori posto per poter gestire un business simile. O magari non si trattava di rotelle fuori posto, ma di essere distaccati. Per loro fabbricava delle bare: erano esclusive, in legno di pino o abete. Le venature del legname affioravano ogni volta in maniera diversa. Era questa la cosa che gli piaceva di più: vedere quelle venature che prendevano forma mentre piallava e lavorava il materiale.

    L’uomo premette col peso del suo ingombrante torace contro l’attrezzo, e continuò a intagliare.

    Dopo un po’ poggiò l’utensile, si raddrizzò, si stropicciò le mani sopra il radiatore a olio e bevve un sorso dalla tazza di caffè macchiato. In quel momento squillò il cellulare. Poggiò la tazza sul tavolo da lavoro e rispose.

    Era il figlio, Jan. Sentì che si trovava in un posto affollato.

    «Papà?»

    «Sì? Dove sei?»

    «Sono in palestra. Ho poco tempo, quindi vado subito al sodo. Forse dovresti sederti, se sei nel fienile».

    «Sono nel fienile». Hagg si sedette sulla sedia di legno tutta storta.

    «Riguarda i tempi di Gaustad. Ho appena ricevuto una telefonata da Emmy Hammer. Mi ha telefonato da un bar di Oslo. Te la ricordi, la figlia dello psichiatra? Giocava con Maike quando noi bambini venivamo a trovarti».

    «E dunque?»

    «Si è vista con Aud Johnsen. Il papà di lei si trovava nel tuo stesso reparto. John Johnsen. Quello degli angeli».

    «E allora?».

    «Mi riesce difficile dirtelo, papà, perché si tratta proprio di una balla incredibile, ma Aud Johnsen insinua di aver scoperto che non fosti tu allora a uccidere la mamma». Werner Hagg notò con quanta poca enfasi il figlio pronunciasse quella parola: mamma. Una creatura vulnerabile e lontana, che non desiderava ricordare.

    Sentì che la pressione gli stava salendo.

    «Aud Johnsen fa la giornalista e dice che ha le prove che sono stato io a farlo, e che dopo Piet ha dato fuoco alla casa. Vuole scrivere che alla fine non eri tu, l’assassino. Che ti sei addossato la colpa di tutto per proteggere noi».

    Le parole del figlio cozzavano le une contro le altre, nel suo cervello. «Non capisco di cosa stai parlando, Jan. Avevate dieci e dodici anni. Sono stato io a uccidere vostra madre».

    «Sì. Eravamo bambini. Ma c’è di più, papà. Aud Johnsen ritiene che la morte di Maike non sia stata un incidente, ma che sia stato io a buttarla per terra o a causarle la ferita in testa in qualche altro modo. Perché lei voleva fare la spia».

    Werner Hagg deglutì. Allungò il braccio e abbassò il volume della radio.

    «Domani andrà dalla polizia e gli racconterà tutto, papà. Tra tre settimane, il reato cade in prescrizione. E inoltre farà un articolone sul giornale. Te l’immagini? È talmente assurdo».

    «Per quale giornale scrive?»

    «Osloavisen».

    «Adesso scopro dove abita e mi metto subito in macchina».

    «No, papà. Non lo fare. Ho provato a telefonarle, ma ha spento il telefono. Non può star bene di testa, una persona che vuole inventarsi delle cose per raggiungere il successo».

    «Ci sono altri al corrente di questa balla assurda?»

    «Solo Emmy Hammer, per il momento».

    John Johnsen prese il cappotto dal gancio presso la porta e rimise il quaderno rosa al suo posto, sotto la trave di legno. Ormai aveva letto tutto, anche quella cosa terribile. Capiva che Aud aveva voluto metterlo in guardia. Qualche ora prima aveva visto dei tordi: se ne stavano davanti alla siepe spoglia con le teste inclinate ad ascoltare le voci. Johnsen misurò la porta-finestra che dava sulla verandina con un righello di legno. Poi trascinò il comò che stava attaccato alla parete opposta per metterlo sopra alla trave sotto la quale si trovava il diario. C’era un che di strano: sembrava fuoriposto, lì, davanti alla porta-finestra. All’esterno, il vento aveva accumulato foglie gialle e rosse. La balaustra di legno intagliato l’avrebbe riverniciata verso primavera. La donna nella casetta blu aveva tolto la fiaccola. Estrasse un paio di libri dalla libreria a vetri, e li mise sopra il comò. Erano Il piccolo principe e la Bibbia. Lungo l’infisso della finestra mancava lo stucco, ma se ne sarebbe occupato in seguito. Lì sotto avrebbe murato il diario per sempre, ma non era ancora giunto il momento. Alla prima occasione sarebbe andato a trovare l’unico amico che aveva, Werner Hagg. Viveva in una piccola fattoria da qualche parte lungo Mosseveien.

    Non è che si vedessero molto spesso. Anzi, non si vedevano mai. Non aveva più visto Werner dal 2003, quando avevano lasciato il reparto di sicurezza perché dovevano andarsene tutti quanti. In effetti una volta si erano visti, in seguito, quando Werner era andato a visitarlo a Vøyensvingen⁵.

    Dal Ring 3⁶, più in basso, giungeva il brusìo del traffico. Per fortuna aveva dei contanti da parte. Ora tutto gli apparve chiaro. Come doveva agire. Staccò la rete di nylon dal gancio, si sbatté la porta alle spalle e uscì dal cancello. Poi iniziò a camminare. Le macchine gli sibilavano accanto; la temperatura era scesa. Il freddo gli si insinuava su per la schiena, dal momento che il cappotto era largo. All’inizio zoppicava un po’, ma poi si riprese. Gli stivali erano pesanti, tuttavia era un peso piacevole. Era arrabbiato, e quello stato d’animo gli ricordava come fosse ai vecchi tempi. Doveva stare attento. L’ultima cosa che aveva scritto Aud era datata novembre 1988: La cattiveria è come una stella. Non puoi vederla tutto il tempo, ma sai che c’è sempre.

    *

    Emmy Hammer chiamò Aud. Il suo cellulare era

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