L'ultimo mistero di Monna Lisa
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Info su questo ebook
«L’autore si è davvero superato.»
Michael Connelly
Agosto 1911: Vincenzo Peruggia ruba la Monna Lisa. Il dipinto verrà ritrovato solo nel 1913. Cosa sia accaduto in quei due anni è un mistero. Al mondo esistono molte riproduzioni della Monna Lisa, e più di uno storico si è domandato se quello esposto oggi al Louvre non sia un falso, scambiato all’epoca del furto.
Oggi. Il professore d’arte Luke Perrone sta cercando di scoprire tutta la verità sul suo antenato più famoso: Peruggia. Le sue ricerche attirano l’attenzione di un detective dell’Interpol e di una donna, un’estranea troppo interessata al suo compito.
Presto Luke dovrà immergersi nel sottobosco del mondo dell’arte e dei falsari: un ambiente che vive di ossessioni e di insospettabili pericoli.
Un romanzo avvincente che esplora il vero furto della Gioconda, avvenuto nel 1911, e i segreti del mondo dell’arte. L’ultimo mistero di Monna Lisa è un racconto pieno di suspense, che attinge al mistero di Leonardo da Vinci.
Uno straordinario romanzo basato sulla vera storia del furto della Gioconda
«L’ultimo mistero di Monna Lisa unisce passato e futuro e li condisce di personaggi intriganti e colpi di scena inaspettati.»
Michael Connelly
«Meraviglioso, intrigante e pieno di suspense: ti catapulta all’istante nella storia. Solo un artista avrebbe potuto scrivere così bene. È il capolavoro della vita di Santlofer.»
Lee Child
«Un libro fantastico. Geniale e trascinante.»
Peter James
«Un romanzo incalzante, costruito con grande intelligenza. Una lettura da brividi.»
USA Today
Jonathan Santlofer
È autore di romanzi e racconti di genere noir e crime tradotti in 22 lingue. È il direttore della Crime Fiction Academy di New York, e ha insegnato scrittura creativa in alcune delle più prestigiose università americane, come la Columbia University. Parallelamente alla scrittura, la sua grande passione è la pittura: le sue opere sono esposte, tra gli altri, al Metropolitan Museum of Art e al Tokyo’s Institute of Contemporary Art.
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Anteprima del libro
L'ultimo mistero di Monna Lisa - Jonathan Santlofer
Indice
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Capitolo 56
Capitolo 57
Capitolo 58
Capitolo 59
Capitolo 60
Capitolo 61
Capitolo 62
Capitolo 63
Capitolo 64
Capitolo 65
Capitolo 66
Capitolo 67
Capitolo 68
Capitolo 69
Capitolo 70
Capitolo 71
Capitolo 72
Capitolo 73
Capitolo 74
Capitolo 75
Capitolo 76
Capitolo 77
Capitolo 78
Capitolo 79
Capitolo 80
Capitolo 81
Capitolo 82
Capitolo 83
Capitolo 84
Capitolo 85
Capitolo 86
Capitolo 87
Capitolo 88
Capitolo 89
Capitolo 90
Capitolo 91
Capitolo 92
Capitolo 93
Capitolo 94
Capitolo 95
Capitolo 96
Capitolo 97
Capitolo 98
Capitolo 99
Sud della Francia
Nota dell’autore
Ringraziamenti
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I personaggi e gli eventi di questo romanzo sono opera di fantasia.
Con la sola eccezione delle figure storiche,
ogni somiglianza con persone reali, viventi o defunte,
è puramente casuale e involontaria.
I marchi e i prodotti citati nel romanzo
sono marchi registrati o nomi commerciali
che appartengono ai rispettivi proprietari.
L’editore non è in alcun modo associato
ad alcun prodotto o fornitore di prodotti.
Titolo originale: The Last Mona Lisa
Copyright © 2021 by Jonathan Santlofer
All rights reserved
Traduzione dalla lingua inglese di Vittorio Ambrosio
Prima edizione ebook: settembre 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
Copertina © Sebastiano Barcaroli
ISBN 978-88-227-4726-6
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Jonathan Santlofer
L’ultimo mistero
di Monna Lisa
OMINO.jpgNewton Compton editori
Per Joy, che ha amato l’idea di questo libro
fin dall’inizio, e purtroppo non è più qui
per vederla realizzata
L’imitazione […] è un doppio delitto, in quanto
priva sia l’originale che la copia della loro esistenza primitiva.
Madame de Staël
Niente è originale.
Jim Jarmusch
21 agosto 1911
Parigi, Francia
Ha passato la notte rannicchiato al buio, nella testa un turbine di scene infernali degne di un dipinto di Bosch, con tanto di mostri orribili e peccatori tormentati dalle fiamme eterne. Ora fissa le tenebre, consapevole che spenderà il resto dei suoi giorni nell’oscurità.
Perdiamo ogni cosa che non curiamo abbastanza, è il suo unico pensiero, il solo che gli venga in mente mentre si infila la tuta da lavoro sopra agli abiti da passeggio e apre la porta dello stanzino.
Il museo non è illuminato, ma lui ne conosce a memoria ogni corridoio e avanza a passo spedito, spinto dal senso di colpa. La Nike di Samotracia getta la sua ombra da rapace, facendolo rabbrividire nonostante l’aria immobile e opprimente.
Il volto della dea appare dal nulla, come uno spettro: le belle labbra appena socchiuse, la pelle grigio marmo. Il pianto di un bambino arriva da lontano a rompere il silenzio, e ben presto si trasforma in un urlo che gli dà la nausea. Lui si copre le orecchie e si lascia sfuggire un sospiro rassegnato, continuando ad avanzare per i corridoi deserti, cercando nel buio il suo amore perduto e il suo piccolo, sussurrando i loro nomi, mentre le pareti sembrano restringersi e la stanza ruotare, finché la voragine che gli buca lo stomaco diventa la sua stessa essenza. Questo è diventato, ormai: il guscio vuoto di un uomo.
Rumore di passi?
Ma no, è troppo presto, e poi è lunedì, il museo riaprirà solo domani.
Si ferma a scrutare nella penombra del corridoio, ma non è nulla: deve averlo immaginato, deve aver perso il senso di cosa è reale e cosa no. Porta le mani a coppa intorno alle orecchie e resta in ascolto: niente rompe il silenzio, tranne il suo respiro pesante e il martellare del suo cuore.
Qualche passo ancora e si ritrova nella Cour Visconti, l’ampia sala dagli alti soffitti in cui sono esposti dipinti grandi quanto intere pareti. In quell’oscurità ogni quadro appare soltanto come un enorme rettangolo nero, ma lui sa cosa vedrebbe intorno a sé, se solo ci fosse un po’ di luce: paesaggi di Corot, una scena di battaglia di Delacroix, L’incoronazione di Napoleone di Jacques-Louis David, con il dittatore avvolto in abiti vergognosamente lussuosi, mantello porpora, corona di alloro, ghigno soddisfatto sul volto.
È in quel momento, mentre si immagina Napoleone, che il suo cervello in fiamme elabora la spiegazione che darà tempo dopo, quella riportata dai giornali: «Ho rubato il dipinto per riportarlo nella sua patria legittima».
Diventerà un patriota, un eroe, e non più l’immigrato senza nemmeno una casa.
Questo pensiero lo calma, gli dà forza. Concentrato sul suo scopo, si dirige a testa bassa verso un altro corridoio più stretto. Stavolta tutti vedranno quanto vale davvero.
Nel Salon Carré, meno ampio del precedente, riesce a malapena a distinguere le forme dei dipinti di Tiziano e Correggio, e tra loro il trofeo più ambito: la signora che siede tra rocce più giovani di lei, la vampira che non dorme mai, la donna più famosa al mondo: Monna Lisa.
Mentre inizia a rimuovere le viti che tengono ferma la cornice di legno, il cuore gli rimbomba nelle orecchie e gli formicolano le dita, il cervello corre impazzito da un pensiero all’altro. Il volto che lo guarda riflesso nel vetro che protegge il quadro è quello di un uomo posseduto. L’ha installato lui stesso, quel vetro, soltanto una settimana fa.
Gli bastano cinque minuti.
Dopodiché è già di nuovo in cammino, si affretta per i corridoi con il dipinto stretto al petto, ora è solo una piccola figura nera su una scalinata enorme. Si ferma a rimuovere la pesante cornice e il vetro protettivo, lasciandoseli alle spalle, poi riprende a camminare a passo svelto tra le sculture di marmo, sempre più veloce, affannato, sudato. Attraversa un arco e si ritrova davanti a un ingresso laterale, la Porte des Arts, e non gli sembra vero che tutto sia andato secondo i piani. Finché non si accorge che la maniglia non gira.
Spinge, tira, ruota, ma niente da fare: la porta resta ferma, al contrario della sua testa che gira come una giostra.
Fa un lungo respiro, poi un altro, e l’idea gli si forma da sé: ma certo, il cacciavite! L’ha usato per rimuovere i sostegni della cornice, e ora si rivela utile per svitare la maniglia, che cade silenziosa tra le sue mani. La infila nella tasca della tuta, che poi si toglie e si aggancia, arrotolata, alla cintura.
Il dipinto lo fa scivolare sotto la camicia, e lo sente sfregargli il petto, mentre il suo cuore batte vicinissimo a quella misteriosa bellezza vecchia quattrocento anni, che più di una volta ha assistito al suo stesso rapimento, ha subito un trasloco dopo l’altro fin dai tempi in cui era esposta nella camera da letto di Napoleone, e ha sopportato gli sguardi indiscreti e affascinati di milioni di individui. Ora, stanca e disillusa, non vorrebbe altro che tornare a casa e riposare in pace. Ma la sua storia non è affatto finita.
1
Dicembre 2019
Firenze, Italia
Carlo Bianchi si asciugò il naso con un fazzoletto di stoffa. La sua bottega in via Stracciatella, a pochi passi da Ponte Vecchio, era minuscola e invasa dai libri, che avevano colonizzato gli scaffali e la scrivania, e si ergevano perfino dal pavimento in pile disordinate, come villaggi maya in miniatura. Polvere ovunque, puzza di muffa e umidità.
Stava cercando un testo sui giardini rococò, che era sicuro di aver visto in giro: lo trovò, infatti, ma in fondo a un’alta pila. Mentre era steso su un fianco, con la barba che spazzava il pavimento e le dita che arpionavano il libro, si accorse delle sneakers dell’uomo, a un soffio dalla sua testa.
Sollevò il volto per rivolgersi al cliente inatteso. «Posso aiutarla?».
L’uomo lo scrutò dall’alto. «Capisce la mia lingua?», gli domandò in inglese.
«Sì», rispose l’altro rialzandosi in piedi, mentre passava una mano su giacca e pantaloni per rimuovere il grosso della polvere. «Quando si passa una vita intera tra i libri, si imparano molte lingue».
«Sto cercando il diario che lei ha acquistato di recente da un libraio francese, un certo Pelletier».
«Pelletier? Mi faccia pensare… Dovrei avere una lista delle ultime acquisizioni». Bianchi fece finta di scartabellare tra le cataste di ricevute che popolavano la sua scrivania, ma in realtà conosceva benissimo ogni singolo libro che aveva venduto o comprato, compresi quelli scambiati con Pelletier, anche se non si era mai lasciato sfuggire informazioni personali sui suoi clienti.
«Questo diario è stato scritto più di cent’anni fa», aggiunse l’uomo. Il libraio francese aveva giurato di averlo venduto a Carlo Bianchi, ed è raro che una persona menta appena dopo aver perso un dito, sotto minaccia di perderne un altro. «Di sicuro ricorderà il testo di cui parlo». Poggiò la mano su quella del vecchio e la schiacciò forte contro la scrivania.
«Sì, sì, mi ricordo, certo, era scritto a matita, in italiano!».
L’uomo mollò la presa e Bianchi si ritrasse di scatto. «Mi dispiace ma… il diario… l’ho già venduto».
«A chi?»
«A un vecchio collezionista, nessuno di importante».
«Come si chiama?»
«Non ricor…».
L’uomo lo afferrò per il bavero della giacca e lo sollevò di peso dal pavimento. «Voglio un nome. Ora».
Con braccia e gambe penzoloni, Bianchi non ebbe altra scelta che rivelare l’informazione: «G-Guglielmi!».
Quando lo lasciò andare, perse l’equilibrio e fece crollare una torre di libri.
«E dove posso trovare questo Guglielmi?»
«È… è un… professore», rispose Bianchi mentre provava a riprendere fiato. «Insegna qui all’università, o meglio insegnava, perché credo sia in pensione». Lanciò una rapida occhiata alla vetrina, sperando che un passante si accorgesse della situazione e chiamasse aiuto, ma l’uomo si spostò di lato e gli bloccò la visuale.
«Ora ho bisogno di un indirizzo».
«Sono… sono sicuro che… se chiede in facoltà…».
L’uomo lo fulminò con lo sguardo, e Bianchi si affrettò a sfogliare il suo vecchio rolodex con le dita tremanti. Trovò la scheda e iniziò a leggerla, ma l’altro gliela strappò di mano. «Lei non ha letto il diario, vero?»
«Io? No, certo che no». Il vecchio scosse la testa con esagerata convinzione.
«Eppure sapeva che era scritto a matita e in italiano».
«Forse… forse me l’ha detto Pelletier… oppure… avrò dato uno sguardo rapido a una pagina, ma niente di più».
«Capisco». Le labbra dell’uomo si assottigliarono, rivelando i suoi denti ingialliti dal tabacco. Si infilò la scheda in tasca. «E ovviamente posso fidarmi che lei non farà parola della mia visita, né a questo Guglielmi né a nessun altro».
«No, signore, a nessuno, nemmeno a Pelletier. Non dirò una sola parola».
«Certo che no».
Bianchi stava ancora cercando di calmarsi e riprendere fiato quando un improvviso pugno in pieno petto lo fece barcollare all’indietro. Cercò un sostegno agitando le braccia, ma urtò contro un’altra pila di libri e finì a terra in un mucchio di vecchie pagine e copertine polverose.
L’uomo lo sollevò afferrandolo per il collo, e strinse con forza, mentre Bianchi provava invano a supplicarlo, ma le sue parole erano solo rantoli soffocati.
«Proprio così, non una sola parola», disse l’uomo sentendo il collo del libraio spezzarsi sotto le sue mani.
2
Due mesi dopo
L’email era arrivata meno di due settimane prima, e non riuscivo a pensare ad altro. Ero davvero pronto a scommettere tutto su una possibilità, o peggio, su un capriccio?
Provai a tenere a bada l’ansia e a rilassare i muscoli in tensione, mentre trascinavo la mia valigia lungo corridoi tutti uguali, con l’adrenalina che faceva a gara con la stanchezza, dopo avermi tenuto sveglio per le otto ore di volo da New York.
L’aeroporto Leonardo da Vinci era come qualsiasi altro nel mondo: anonimo, pieno di gente, troppo illuminato. Sapevo che non l’avevano chiamato così per darmi il benvenuto, eppure quel nome mi sembrò profetico. Controllai l’ora, erano le sei di mattina. Trovare la stazione all’interno del terminal fu un’impresa che portai a termine con grande orgoglio, e appena fui in treno mi abbandonai esausto sul sedile e chiusi gli occhi, senza per questo riuscire a scacciare tutti i pensieri che mi ronzavano in testa come moscerini.
Trentadue minuti dopo ero a Roma Termini. L’enorme stazione era gremita di viaggiatori, eppure conservava ancora qualcosa di romantico, con i treni in attesa appena dietro le biglietterie, e i vapori bianchi che si sollevavano dalle motrici ferme sui binari, andando a dissolversi nell’aria invernale.
Mi feci strada tra la folla. «Scusami, scusami», rivolgendo un ringraziamento silenzioso ai miei genitori per avermi parlato nella loro lingua d’origine fin da quando non ero ancora in grado di camminare. Mi fermai a controllare il grande tabellone delle partenze cercando la scritta «Firenze», e rischiai di perdere il treno perché era indicato soltanto con la sua destinazione finale, Venezia; non mi sarebbe dispiaciuto visitare la laguna, ma non mentre ero in missione.
Il vagone sembrava nuovissimo, e le poltroncine erano molto comode. Sistemai la valigia, mi sfilai lo zaino e mi appisolai un paio di volte, e in entrambe le occasioni fui risvegliato dall’immagine di una nuvola di pagine strappate che volteggiava davanti ai miei occhi, senza che io riuscissi ad afferrarle.
Mandai giù qualche sorso di Coca-Cola per tenermi sveglio e mi misi a osservare il paesaggio, che da piatto diventava collinare e poi disseminato di cittadine medievali in lontananza, che decoravano le sommità di rilievi più o meno elevati. Sembrava tutto un po’ irreale, come se fossi in un film, e non sulle tracce di quella che speravo fosse la risposta all’enigma che da un secolo avvolgeva il più famigerato criminale della mia famiglia. Avevo passato vent’anni a fare ricerche su di lui.
Un’ora e mezza dopo ero già all’esterno di Santa Maria Novella, la stazione nel centro di Firenze. La valigia sobbalzava sui ciottoli di strade che non avevano mai conosciuto l’asfalto, mentre il sole spuntava a tratti dalle nuvole basse, e l’aria era fredda e pungente. Ripercorsi in mente gli eventi delle ultime due settimane: dopo aver ricevuto l’email, avevo acquistato un biglietto di sola andata, ottenuto dal consolato italiano un permesso di soggiorno per svolgere ricerche accademiche e una lettera in cui si dichiarava che ero un professore universitario, grazie alla quale avrei avuto libero accesso alle istituzioni culturali nel Paese. Poi avevo telefonato a mio cugino a Santa Fe – uno scultore che non vedeva l’ora di potersi immergere nella scena artistica di New York – e gli avevo subaffittato il mio loft sulla Bowery. Dopo aver avvolto i miei dipinti nel pluriball, avevo lasciato i miei corsi nelle mani di un assistente ed ero partito, una settimana prima della fine del semestre, non una gran mossa per un professore associato che spera di diventare ordinario.
Attraversai l’ampia strada che costeggiava la stazione e mi ritrovai in un dedalo di viuzze, seguendo il GPS del telefonino, che tuttavia sembrava più spaesato di me. Fui costretto a cambiare percorso un paio di volte, ma nel giro di una decina di minuti sbucai in una grande piazza rettangolare dominata da una chiesa color terra di Siena e dalla sua cupola in mattoni rossi. Era lì, a piazza di Madonna degli Aldobrandini, che avevo prenotato una stanza al Palazzo Splendor, la cui presenza era segnalata da una vistosa quanto vecchia insegna luminosa.
La hall dell’albergo era più stretta della cucina di un appartamento di Manhattan, e alle pareti non avrebbe fatto male una mano di vernice. Il marmo del pavimento aveva crepe preoccupanti, e l’unico accenno di decorazione era una foto in bianco e nero del David di Michelangelo.
«Luke Perrone», dissi al ragazzo dietro al bancone, che se ne stava con le braccia incrociate, ricoperte di tatuaggi di pessimo gusto, una sigaretta all’angolo della bocca e il cellulare stretto tra spalla e orecchio. Era bello, di quella bellezza malaticcia che può avere un tossicodipendente.
«Passaporto», disse senza neanche guardarmi. Quando gli chiesi nel mio migliore italiano se potevo lasciargli la valigia per tornare più tardi, sollevò un dito come per segnalarmi che lo stavo disturbando mentre era al telefono. Era palese che non fosse una chiamata di lavoro, a meno che non fosse abituato a chiamare tutti i suoi clienti amore mio
. Senza aspettare la sua risposta, gli mollai la valigia e me ne uscii.
Google Maps indicava che l’ingresso della basilica di San Lorenzo era a meno di cinque minuti da lì: semplice, se non fosse che i primi tre li percorsi nella direzione opposta, prima di accorgermi che stavo leggendo la mappa al contrario. Tornai sui miei passi e superai di nuovo la cappella davanti all’albergo, e la strada mi portò a costeggiare una serie di edifici giallo ocra l’uno addossato all’altro, mentre sul lato opposto alcuni scalini conducevano ad arcate cieche in mattoni, alla fine delle quali si apriva piazza San Lorenzo. Era quasi del tutto deserta, a parte pochi turisti e un paio di monaci con dei lunghi sai marroni.
Solo allora mi resi conto che la strada che avevo appena percorso e la piazza in cui mi trovavo erano parti di un unico grande complesso.
Di fronte a me, la basilica color sabbia aveva un aspetto grezzo, come se non fosse stata portata a termine, e le sue tre alte porte di legno erano chiuse. A sinistra della chiesa c’era un piccolo arco che conduceva in un vicolo piuttosto buio, tramite il quale arrivai in un luogo che avevo visto solo in fotografia: il celebre chiostro di San Lorenzo.
Dopo pochi passi mi sembrò di abbandonare la realtà ed entrare in un sogno a occhi aperti: avevo davanti agli occhi il giardino quadrato con le sue siepi esagonali e l’armonioso loggiato a due livelli progettato dall’architetto rinascimentale che amavo più di tutti, Brunelleschi. Per un attimo provai a immaginare di essere un artista dell’Alto Rinascimento, e non un mediocre pittore newyorchese che insegnava arte per pagare le bollette.
Feci un lungo sospiro e il mio alito si trasformò in una nuvoletta effimera nell’aria fredda del mattino. Le siepi del chiostro erano ancora velate da una leggera brina e tre monaci erano intenti a coprirle con dei teli di iuta, mentre io tremavo nella mia giacca di pelle troppo leggera. Non immaginavo che potesse fare così freddo a Firenze, ma a dire il vero non ci avevo nemmeno pensato, dopo aver letto l’email.
Egregio prof. Perrone,
una delle ultime richieste del prof. Antonio Guglielmi è stata che io mi mettessi in contatto con Lei riguardo a quello che potrebbe essere il diario del Suo bisnonno. Il professore era in procinto di avviare una ricerca sul diario, che prometteva di essere una e vera e propria rivelazione
, per usare le sue parole. Purtroppo la sua morte improvvisa gli ha impedito di lavorare al progetto.
Il diario è stato donato alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, in Italia, insieme ai libri e agli altri lavori del professore. Io stesso mi sono occupato della catalogazione delle sue opere, e ho collocato il diario in una scatola con l’etichetta Maestri dell’Alto Rinascimento
.
Per consultare i documenti del professor Guglielmi avrà bisogno di un permesso di soggiorno per motivi accademici, ma non dovrebbe essere difficile per lei procurarselo.
Se e quando richiederà i documenti, le suggerisco di non fare riferimento al diario, e la pregherei inoltre di non citare il mio nome.
Cordialmente,
Luigi Quattrocchi
Avevo risposto subito all’email, e Quattrocchi mi era sembrato molto serio riguardo al diario, assicurandomi che esisteva davvero, sebbene non potesse giurare sulla sua autenticità.
Per anni avevo scritto decine di lettere ed email a chiunque potesse avere informazioni sul mio bisnonno, e i pochi che si erano degnati di rispondere chiedevano soldi. A volte ci ero cascato, ma nessuno mi aveva mai raccontato qualcosa che non sapessi già. Questa volta, invece, le notizie che cercavo mi erano state servite su un piatto d’argento, per di più gratis e senza evidenti secondi fini – o almeno, non riuscivo a vederne.
«Mi scusi, signore», disse uno dei monaci, un giovane con la barba color ruggine e dei bellissimi occhi azzurri. «Sta aspettando che apra la biblioteca?»
«Sì!», risposi con troppo entusiasmo, prima di scusarmi per l’esuberanza. «Vedo che parla inglese».
«Un po’», rispose lui.
Gli dissi che ero in grado di capire l’italiano, e lui mi mise alla prova tornando a parlare nella sua lingua. «La bibliotecaria è spesso in ritardo», disse.
Controllai l’orologio, erano le dieci in punto. A quell’ora la biblioteca doveva già essere aperta.
Il monaco mi chiese da dove venissi, e io risposi: «New York, ma i miei sono di Ragusa». Non ero mai stato in Sicilia e non avevo mai avuto l’intenzione di rivelare alla prima persona conosciuta in Italia di dove fossero originari i miei genitori, anzi, mi ero ripromesso di non dare informazioni su di me. Eppure…
Il monaco mi porse la mano. «Io sono frate Francesco».
«Luke Perrone», mi presentai, prima di lanciare uno sguardo verso la porta che conduceva alla biblioteca.
«Tra poco aprirà, qualche minuto di pazienza», si giustificò lui.
Già, pazienza: non era mai stata la mia virtù più grande, e non lo sarebbe diventata in quel momento, dopo che avevo mollato tutto per seguire ciò che, a pensarci bene, non era nulla più che una vaga traccia.
Osservai frate Francesco tornare dai suoi compagni e sussurrare qualcosa agli altri due, mentre guardavano verso di me. Mi spostai dietro un’arcata per evitare i loro sguardi, e poggiandomi a un pilastro ripensai al mio loft sulla Bowery e alla collezione confusa e un po’ casuale che avevo avviato da ragazzino nella mia stanzetta di Bayonne, nel New Jersey. Ora ricopriva un intero angolo del mio laboratorio di pittura: copie di articoli di giornale di un secolo fa, una piantina del museo con il percorso seguito dal mio bisnonno evidenziato con un pennarello rosso, un armadietto zeppo di ritagli in cui si parlava del ladro e si facevano teorie sulla sua impresa, un cassetto in cui conservavo le lettere e le email che avevo iniziato a spedire da adolescente a chiunque potesse parlarmi del mio antenato e del suo celebre furto, insieme alle poche risposte ottenute.
Un soffio di vento gelido spazzò il chiostro, e trasalii sentendomi toccare sulla spalla.
Ancora il giovane monaco. «Mi scusi se l’ho spaventata, ma la biblioteca è aperta».
Lo ringraziai e mi avviai sotto le arcate che conducevano alla porta di legno, che ora era spalancata.
3
Quartier generale dell’Interpol
Lione, Francia
John Washington Smith rilesse da cima a fondo tutte le email. Come per ogni altro agente della divisione dell’Interpol che indagava sui furti di opere d’arte, era suo compito scorrere sui suoi tre schermi del computer i continui aggiornamenti riguardanti comunicati stampa e post di siti specializzati in antiquariato, gallerie d’arte, e di chiunque fosse sospettato di aver trafugato o contrabbandato manufatti rubati. Col passare degli anni, aveva sviluppato un interesse particolare per il furto dell’opera più importante di Leonardo, avvenuto nel 1911: il dipinto scomparve per due anni, e l’agente era ossessionato dall’idea che la Monna Lisa esposta al Louvre non fosse quella originale. Per lungo tempo si era vociferato dell’esistenza di un diario scritto in prigione dal ladro, Vincenzo Peruggia, ma nessuno era mai stato in grado di confermare la notizia. E ora ecco il suo pronipote americano Luke Perrone, un artista e storico dell’arte le cui comunicazioni erano state tenute sotto sorveglianza da lui stesso per diversi anni, che all’improvviso scambiava email con un professore universitario italiano proprio riguardo al misterioso diario.
Smith si sfilò gli occhiali e cercò di alleviare il mal di testa massaggiandosi il naso. Era il prezzo da pagare per le tante ore passate a fissare gli schermi sistemati a U sulla sua scrivania, una modesta tavola bianca in formica sorretta da gambette metalliche che gli ricordavano E.T., il buffo extraterrestre del film. Anche mouse e tastiera erano bianchi, così come gli schedari squadrati che delimitavano l’altro lato del suo cubicolo. Bianco il soffitto, bianche le pareti; piastrelle grigio pallido al pavimento, ruvide per dare la vaga impressione di camminare su un tappeto. Smith si era chiesto spesso se il fatto che fossero anche un po’ elastiche servisse a dare sollievo ai piedi degli impiegati dell’Interpol o a creare uno spazio virtualmente insonorizzato, preoccupazione eccessiva dal momento che tutti gli analisti in sede portavano scarpe comode, perfino sneakers. Le sue erano delle Nike a suola alta, che puliva regolarmente con uno spazzolino da denti insaponato.
Rilesse le email ancora una volta, provando a tenere a bada l’emozione, considerando allo stesso tempo tutte le opzioni: avrebbe potuto comunicare alle autorità italiane di tenere d’occhio Perrone e il suo contatto sul posto, o emettere uno degli avvisi con cui l’Interpol indicava il grado di minaccia di un ricercato, espresso su una scala di otto colori, in cui il rosso indicava il rischio più elevato; il problema era che non c’era alcuna traccia di un reato, neanche una maledetta contravvenzione – almeno non ancora. Non aveva speranza di convincere la segreteria generale a diramare un avviso internazionale.
Osservò lo schermo alla sua sinistra, quello su cui consultava le informazioni sui reperti che risultavano scomparsi o trafugati, e le date in cui erano stati rubati. Il furto d’arte e la falsificazione erano considerati reati gravi, e tutte le persone coinvolte – collezionisti, ladri e intermediari – non solo erano individui spregiudicati, ma spesso davvero pericolosi. Secondo le statistiche dell’Interpol, i crimini legati al mondo dell’arte oscillavano sempre tra il terzo e il quarto posto nella classifica di priorità dell’agenzia, appena sotto il commercio di droga, il contrabbando di armi e il riciclaggio di denaro sporco. Di certo Smith prendeva molto sul serio i suoi compiti, così come faceva con tutto, anche con i quotidiani e intensi allenamenti che avevano aggiunto una notevole massa muscolare al suo metro e ottantatré di altezza; un ragazzino nero cresciuto nelle case popolari del Lower East Side impara presto che essere debole, o essere considerato tale, è un lusso che non può permettersi. Non aveva mai conosciuto suo padre, ma ne aveva adottato il cognome, Washington, come secondo nome, nel tentativo di rendere meno banale l’anonimo John Smith
.
Diede uno sguardo all’ora, era quasi mezzogiorno. Come se non bastasse il mal di testa, la schiena iniziava a farsi sentire, dopo che per quattro ore era rimasto seduto: prima in macchina, nel tragitto dal suo bilocale nella periferia di Lione, poi nel traffico fino al monolite in vetro e acciaio del quartier generale, poi in ufficio. Una routine che andava avanti ogni santo giorno, due volte al giorno.
Gli serviva una pausa, un po’ di tempo per pensare, magari con una sigaretta in bocca.
L’ascensore cilindrico lo portò nella corte ottagonale al centro dell’edificio, dove c’erano un po’ di persone, anche se l’atmosfera minimal e fredda le faceva sembrare degli androidi. Si chiese se anche lui avesse quell’aria robotica, anche se dubitava che degli automi fumassero Marlboro Light. Mentre si godeva la sigaretta, ripassava in mente i pro e i contro dell’idea che iniziava a serpeggiare nella sua testa, consapevole di quanto fosse contraria alle politiche dell’Interpol.
Le recinzioni della corte gli ricordarono i muri delle case popolari, entrambi luoghi simili a prigioni, malgrado qui non ci fossero graffiti alle pareti né spacciatori negli angoli bui intenti a vendere erba, pasticche o eroina. Pensava spesso all’ironia di essere passato da un carcere all’altro, anche se quello in cui si trovava ora poteva garantire denaro e successo. Già, il successo… Non era troppo tardi per quello? Tirò un’altra boccata e un pensiero gli si formò in testa, come se il fumo aspirato fosse andato a comporre un messaggio nel cielo: Se vuoi farti un nome, se vuoi puntare davvero in alto, devi mettere in pratica l’idea che hai avuto. Osservò le altre persone nella corte e si chiese se potessero leggergli nel pensiero; aveva già fatto cose di cui non andava fiero, in passato, senza farne parola con nessuno, ma ora sembrava tutto diverso. Avrebbe avuto il fegato di arrivare in fondo?
Quando finì la sigaretta non era ancora riuscito a prendere una decisione, e continuò a pensarci in ascensore e lungo i corridoi dal pavimento insonorizzato. Passò accanto ai cubicoli degli analisti, alcuni dei quali avevano le pareti rivestite di un materiale grigio che attutiva il rumore, e venivano usati quando due agenti avevano bisogno di parlare lontano da orecchie indiscrete. In una sala delimitata da vetrate era in corso una riunione alla quale non era stato invitato; sfilò lungo le pareti trasparenti con i pugni chiusi e la schiena tesa, finché non raggiunse la sedia ergonomica alla sua scrivania.
A quarantasette anni era ancora un analista dell’intelligence, uno dei tanti lì alla divisione sui furti d’arte dell’Interpol, e ogni anno vedeva i suoi colleghi più giovani e meno scrupolosi di lui venire promossi all’Assemblea Generale, l’organo decisionale dell’agenzia. Vent’anni passati a raccogliere informazioni e fare ricerche, vent’anni dalla laurea in crittografia e analisi dei dati al John Jay College of Criminal Justice di New York, e cosa aveva ottenuto? Una sedia e