Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'incantesimo della spada
L'incantesimo della spada
L'incantesimo della spada
E-book390 pagine5 ore

L'incantesimo della spada

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«I suoi sono romanzi da non perdere.»
USA Today

Autrice bestseller del New York Times

In un regno in cui gli incantesimi sono banditi, l’unica magia rimasta è l’amore

«Deglutisci, figlia. Ingoia le parole, bloccale nel profondo della tua anima. Nascondile, chiudi la bocca sul tuo potere. Non maledire, non curare. Non parlerai, ma imparerai. Silenzio, figlia. Rimani viva». 
Il giorno in cui mia madre è stata uccisa, ha detto a mio padre che non avrei mai più pronunciato una sola parola e che se fossi morta, lui sarebbe morto con me. Predisse anche che il re avrebbe venduto la sua anima e avrebbe ceduto suo figlio al cielo. Da allora mio padre attende di poter avanzare la sua pretesa al trono e aspetta nell’ombra che tutte le parole di mia madre si avverino. Desidera disperatamente diventare re. Io voglio solo essere finalmente libera. Ma la mia libertà richiede una fuga e io sono prigioniera della maledizione di mia madre tanto quanto dell’avidità di mio padre. Non posso parlare o emettere suoni. Non posso impugnare una spada o ingannare un re. In un regno in cui gli incantesimi sono stati banditi, l’unica magia rimasta potrebbe essere l’amore. Ma chi potrebbe mai amare… Un uccellino?

Un’autrice bestseller del New York Times e di USA Today

Nella lotta per il potere nel regno, una madre si sacrifica, bloccando le parole di sua figlia per salvarle la vita

«Le sue storie sono sempre emozionanti e commoventi e i suoi libri sono romanzi da non perdere.»
USA Today

«Una scrittura vivida e meticolosamente curata, questo libro è un’avventura romantica avvincente, intrisa al tempo stesso di fantasia e passione.»

«Sono stata piacevolmente colpita da questo fantasy che segue lo schema di una storia romantica: meravigliosamente riuscito.»
Amy Harmon

Statunitense, è autrice di I cento colori del blu, che ha scalato le classifiche del «New York Times», Sei il mio sole anche di notte, Infinito + 1, Hai cambiato la mia vita (già pubblicati dalla Newton Compton), e di altri bestseller. Con Il segreto di Eva ha scelto un’ambientazione italiana per raccontare una storia che si svolge durante la Seconda guerra mondiale. L’incantesimo della spada è il suo ultimo romanzo arrivato in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2018
ISBN9788822723703
L'incantesimo della spada

Correlato a L'incantesimo della spada

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'incantesimo della spada

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'incantesimo della spada - Amy Harmon

    Capitolo 1

    In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio.

    Non posso pronunciare le parole. Non posso riprodurre i suoni. Nutro pensieri e sentimenti. Custodisco immagini e colori. Sono tutti racchiusi dentro di me, perché non sono capace di formare le parole.

    Ma posso sentirle.

    Il mondo è vibrante di parole. Gli animali, gli alberi, l’erba e gli uccelli vibrano con le loro stesse parole.

    «Vita», dicono.

    «Aria», respirano.

    «Calore», ronzano. Gli uccelli annunciano a gran voce: «Volate, volate!», e le foglie ondeggiano verso di loro, si srotolano sussurrando: «Crescete, crescete».

    Amo queste parole. Non esiste inganno o confusione. Le parole sono semplici. Gli uccelli provano gioia. Anche gli alberi la provano. Sentono gioia nella loro creazione. Vibrano di gioia perché SONO. Ogni creatura vivente ha una parola, e io le sento tutte.

    Ma non posso pronunciarle.

    Mia madre mi raccontò che, con le parole, Dio creò i mondi. Con le parole Lui creò la luce e il buio, l’acqua e l’aria, le piante e gli alberi, gli uccelli e le bestie, e dalla polvere e dal fango di quelle stesse parole Dio creò i bambini: due figli e due figlie, modellandoli a sua immagine e soffiando l’alito della vita nei loro corpi di argilla.

    In principio, Dio elargì a ciascun bambino una parola, una parola potente che invocava un’abilità speciale, un dono prezioso che sarebbe stato una guida nel viaggio attraverso il mondo. A una figlia fu donata la parola tessere cosicché potesse filare qualsiasi cosa in oro. L’erba, le foglie, una ciocca dei suoi stessi capelli. A un figlio spettò la parola tramutarsi, che gli conferì la possibilità di trasformarsi nelle bestie della foresta o nelle creature alate del cielo. La parola guarire venne data a un altro figlio per curare le malattie e gli infortuni che capitavano ai suoi fratelli e alle sue sorelle. All’altra figlia toccò infine la parola divinare, e fu così in grado di prevedere il futuro. Alcuni sostenevano che poteva addirittura dar forma al futuro con il potere delle sue parole.

    La Tessitrice, il Mutante, il Guaritore e l’Indovina vissero a lungo ed ebbero tanti figli, ma persino con quelle parole benedette e abilità straordinarie, la vita nel mondo era piena di insidie e tribolazioni. Sovente, l’erba era più utile dell’oro. L’uomo era più desiderabile di una bestia. Il caso era più seducente della conoscenza, e la vita eterna non aveva alcun senso senza l’amore.

    Il Guaritore poteva guarire i suoi familiari quando si ammalavano, ma non poteva salvarli da se stessi. Rimase impotente a guardare suo fratello, il Mutante, il quale trascorse così tanto tempo nelle sembianze di una bestia, circondato da altre bestie, che finì per diventare una di esse. La Tessitrice, che amava il Mutante, era talmente devastata dal dolore che iniziò a filare senza sosta, vorticando su se stessa, finché non s’intessé da sola in oro: si tramutò in una statua di sofferenza, che giaceva accanto al pozzo del mondo da cui era sbucata. L’Indovina, rendendosi conto di aver divinato ogni singolo evento, giurò di non parlare mai più, e il Guaritore, rimasto da solo, morì di crepacuore rifiutandosi di guarire.

    I loro figli e le loro figlie si sparsero per la Terra, e gli anni divennero decenni e i decenni secoli. Crebbero in numero, e tanti di loro erano dotati del potere delle parole, o dell’abilità di trasformarsi, guarire o tessere. Ma il potere si diluì e si alterò, perché questi doni si mescolarono l’un l’altro. Emersero nuovi poteri, mentre altri furono persi per sempre. C’era anche chi usava quei doni per compiere del male.

    Un discendente del Mutante, un re capace di trasformarsi in un dragone, saccheggiò le campagne, incendiando i campi e uccidendo i suoi avversari. Un potente guerriero, che desiderava diventare re, trucidò il dragone e si conquistò a fatica la gratitudine di un popolo terrorizzato. Secondo lui, i sudditi dovevano essere tutti uguali, perciò chi era capace di tessere ogni cosa in oro, mutar forma o guarire le malattie non doveva usare quei doni, né godere di quel privilegio esclusivo e vantaggioso. Invidia e timore si erano ormai diffusi tra il popolo, e molti concordarono con l’ambizioso guerriero, sebbene alcuni avessero un’opinione differente. Una donna, il cui figlio era stato salvato da un guaritore, argomentò che i doni, in effetti, avevano giovato a tutti. Un altro uomo, il cui raccolto era stato tratto in salvo da un’indovina che aveva previsto una catastrofica tempesta e l’aveva perciò avvisato di mietere al più presto, si trovò d’accordo con quella donna.

    Ma le voci della paura e del malcontento sono sempre le più forti. E così, uno dopo l’altro – Indovine, Guaritori, Mutanti e Tessitrici – furono sterminati. Le Indovine furono bruciate sul rogo; alle Tessitrici furono tagliate le mani. Fu data la caccia ai Mutanti come si faceva con gli animali di cui assumevano le sembianze, e i Guaritori furono lapidati nelle piazze di villaggi finché tutti coloro che avevano ricevuto alla nascita quei doni speciali, o qualsiasi altro dono, cominciarono a temere i loro stessi poteri, e di conseguenza tennero nascosti i propri talenti.

    Il guerriero diventò re e suo figlio regnò dopo di lui. I re guerrieri sedettero sul trono, generazione dopo generazione, sempre attenti a eliminare i possessori del dono dalla popolazione; convinti che, per raggiungere l’uguaglianza, nessuno doveva essere speciale e bisognava quindi stroncare il potere delle parole.

    Mia madre creava le parole. Era un’Indovina, e le sue parole erano magiche. Lei parlava, e le parole prendevano vita. Realtà. Verità. Mio padre era a conoscenza del suo dono, e ne era spaventato. Le parole possono essere terribili quando la verità non è gradita.

    Mia madre era molto attenta con le parole, così attenta che le privò di suono quando morì. Adesso le parole sciamano silenti intorno a me come spettatori quieti, in attesa che qualcuno le pronunci per dar loro la scintilla di vita.

    Eppure, mentre camminavo, la foresta era fitta di suoni.

    La notte mi sussurrava, le parole si addossavano, uno strato dopo l’altro. Il gufo bubolava chi?, ma non voleva conoscere la risposta. La sapeva già e se ne stava a guardare, serafico. La luna era enorme sopra di me, la terra soffice sotto i miei piedi, e mi godevo la sensazione di appartenere alle altre creature silenziose. Eravamo uguali. Vivevamo, ma nessuno si accorgeva veramente di noi. Accarezzai con la punta delle dita la corteccia ruvida di un albero, e in risposta sentii un saluto, anche se era piuttosto un sentimento, e non tanto una parola. Il mondo dormiva. Anche la foresta stava dormendo, ma non così profondamente. C’era un mondo intero che si stava svegliando; mi appoggiai contro l’albero, che mi sembrava un amico, e mi lasciai inondare dalla pace.

    Un grido improvviso squarciò la calma scuotendo le foglie, e l’albero si ritirò in se stesso, e le parole che incombevano su di me si azzittirono all’istante, lasciandone soltanto una. Pericolo. Pericolo, rimbombava la foresta, e invece di correre via, mi voltai verso quel suono.

    Qualcosa era in preda a un atroce dolore.

    Non so perché gli corsi incontro, ma lo feci. Corsi verso quel grido che lacerò l’oscurità e mi fece rizzare i peli sulle braccia. L’urlo si acquietò brevemente soltanto per levarsi ancora, un richiamo di morte: io inciampai in una radura e mi avvicinai al grido. Là, illuminato dal chiaro di luna, c’era il volatile più grosso che avessi mai visto. Era accasciato per terra, con una freccia che gli spuntava dal petto. Le piume sussultavano a ogni suo respiro. Ogni respiro era dolore, fatica; e allora mi avvicinai piano, un passo dopo l’altro, molto piano.

    Non potevo calmarlo come fa una mamma con un bambino: i suoni umani raramente quietavano le bestie selvatiche, se non si trattava di un amato animale domestico o di un fido destriero. E non era questo il caso. L’uccello sollevò la lucente testa bianca e puntò gli occhi neri sul mio viso: mi osservava con un’espressione di cauta disperazione. Le ali tremavano per l’impulso di volare, ma non c’era un briciolo di forza dietro quel movimento.

    Era un’aquila, un esemplare maschio. Di quelle aquile che puoi scorgere soltanto da lontano, se mai ci riesci. Era maestosa con la sua bianca testa regale e le piume nere come fuliggine, dalla punta screziata di rosso sangue. Non osai toccarla, e non lo feci per il mio bene, ma per il suo. Se l’avessi toccata, non le avrei arrecato conforto, bensì spavento; con grande sforzo, l’aquila avrebbe provato a volare, invano, accrescendo il dolore che già provava. Mi accovacciai lì accanto e la osservai nel tentativo di capire cosa potevo fare. Se potevo fare qualcosa per alleviare la sua agonia.

    Allungai una mano e la posai sulla punta dell’ala più vicina. Chiudendo gli occhi, spinsi una parola verso l’aquila: energia silenziosa racchiusa nel pensiero. Era così che gli animali condividevano la loro essenza con me; e pareva funzionare – con risultati di diversa intensità – quando volevo fare a modo mio.

    Sei al sicuro, dissi in silenzio. Al sicuro.

    Sotto la mia mano, l’ala smise di tremare. Aprii gli occhi e rivolsi uno sguardo colmo di gratitudine all’aquila. Sei al sicuro, promisi ancora. Era immobile, perfettamente immobile, ma i suoi occhi erano fissi sul mio viso, i suoi respiri erano più corti.

    Stava morendo.

    La freccia si era conficcata a fondo nel petto; se provavo a estrarla, rischiavo di uccidere l’aquila ancora più in fretta. Ero molto preoccupata dalla sua sofferenza, dagli animali che avrebbero potuto scovarla e divorarla ancor prima che morisse.

    Poi c’era la questione della freccia. Chi aveva scagliato quel dardo?

    Ascoltai con attenzione, concentrando i miei sensi sul mondo esterno; udii la conversazione degli alberi, il ronzio della vita notturna e il fruscio del vento. Non avvertivo pericolo o paura, e non presentii la caccia né l’avvicinarsi del pensiero umano. Forse l’aquila aveva volato per un bel pezzo per fuggire dall’arciere, prima di cadere.

    Luce. Sentii quella parola levarsi dall’uccello. Luce. Mi chiesi se bramava la luce del giorno, se il chiarore poteva salvarlo dal suo destino, come se la notte fosse responsabile della sua morte. O forse l’aquila intravedeva il fulgore di un’eternità luminosa che lo invitava a volare nei cieli infiniti, in mezzo alle divinità.

    Luce.

    Potevo restare fino a quel momento. Potevo restare fino all’alba, se la creatura sopravviveva fino all’aurora. Avrei tenuto a bada i predatori mentre l’aquila abbandonava un mondo per volare in un altro. Mi rilassai, accarezzandogli le piume setose del petto.

    Il mio tocco rimase leggero e le mie intenzioni forti, spingendo il mio proposito nei suoi respiri dolenti.

    Sollievo, gli dissi. Conforto. Quiete. Pace. Le parole erano solo un balsamo, non una cura. Non ero una guaritrice, in fondo. Ma gli augurai con tutta me stessa di guarire, anche se era soltanto un desiderio. Era così sfolgorante, ed era intollerabile vederlo morire.

    Boojohni mi sarebbe venuto a cercare bofonchiando, brontolando e lamentandosi dei piedi indolenziti e delle ginocchia nodose, ma sarebbe comunque venuto perché mi voleva bene e si sarebbe preoccupato, se non fossi rientrata a casa. Mio padre mi aveva legato a sé, sin da piccola. Legata, come un cane indisciplinato. Mio padre era così terrorizzato che potesse succedermi qualcosa che non mi aveva mai lasciato da sola e indifesa. Era compito di Boojohni assicurarsi che non mi accadesse nulla. All’epoca ero alta quanto lui, e sembravamo due bambini disobbedienti a caccia di guai e aspre punizioni, ovunque andassimo. Boojohni odiava i castighi ancora più di me. Ma veniva ricompensato per il fastidio e l’umiliazione. La mia umiliazione, invece, non veniva considerata.

    Boojohni era un troll: assomigliava più a una scimmia che a un uomo adulto, con un naso schiacciato e gommoso che torreggiava su una barba folta e scarmigliata, come i capelli che gli crescevano sull’attaccatura bassa della fronte e gli arrivavano fino alle spalle. Era alto solo un metro e venti, o poco più, pur essendo completamente cresciuto, ma indossava i vestiti, camminava su due gambe ed era savio come qualsiasi uomo; anche se Boojohni era il primo a rinnegare la razza umana.

    Adesso ero molto più alta di Boojohni ma lui continuava a proteggermi, anche se ormai mi ero liberata del guinzaglio. Nessuno poteva mettermi in gabbia, nonostante mio padre ci avesse provato. Se la sua preoccupazione fosse scaturita dall’amore, sarebbe stata più facile da tollerare, ma derivava soltanto dall’istinto di autoconservazione, dalla paura e dal risentimento reciproco, che era divenuto sempre più forte e profondo da quando era morta mia madre.

    Sospirai lievemente, appena uno sbuffo, ma l’aquila alzò gli occhi e mi guardò.

    Luce. Dal suo petto si levò di nuovo quella parola. Urgente. Come una richiesta.

    Presto, fu la mia risposta silenziosa. Gli accarezzai la testa, per calmarlo. Era una bugia. Non sarebbe giunta la luce, perché mancavano ancora diverse ore all’alba. Ma io sarei rimasta lì, e Boojohni si sarebbe limitato a brontolare. Aveva il fiuto dei cani da caccia di mio padre. Mi avrebbe trovato facilmente, se mi avesse cercato con insistenza.

    Mi adagiai in una posizione più comoda, avvolgendomi la veste attorno alle gambe per scacciar via il freddo, e mi strinsi nel mantello. La stagione rigogliosa della crescita era sempre più vicina, e la neve aveva ormai abbandonato la terra, per fortuna. Gli alberi erano rivestiti di verde, e l’erba era alta e folta sotto di me. Mi rannicchiai attorno all’aquila come una mezzaluna, con la testa posata su un braccio mentre con l’altra mano accarezzavo e calmavo quella creatura, incitando la guarigione con i miei pensieri.

    Non ero molto brava a proteggere gli altri.

    Mi concentrai con tutta me stessa e con una tale convinzione, riversando tutta la mia energia per trasmettere pace e riposo alla povera aquila, che presto finii per addormentarmi, cullata dai miei stessi auguri silenti.

    Capitolo 2

    Mi svegliai quando le mani tozze e grassocce di Boojohni mi diedero dei buffetti sulle guance; l’alba stava intessendo i suoi colori nel cielo a oriente, e lunghi cirri dorati mi solleticavano le palpebre. Ero infreddolita e indolenzita, con il corpo rigido. Il braccio sinistro si era intorpidito, e nella mano destra stringevo una lunga piuma nera, striata di rosso.

    L’aquila era sparita, lasciandosi dietro di sé una scia di sangue, qualche penna e poco altro. Era morta? Balzai in piedi, facendo sussultare Boojohni, che aveva avuto il buonsenso di non attraversare tutta la foresta gridando il mio nome. Non serviva a niente chiamarmi a gran voce quando io non potevo rispondere. Aveva usato il naso, e inoltre conosceva bene i miei luoghi preferiti, eppure mi parve stanco e sollevato quando mi afferrò la mano, per attirare la mia attenzione.

    «Cosa?», domandò quando si accorse che ero allarmata.

    Indicai il sangue e le piume. Aquila. Ferita.

    Feci un gesto veloce con la mano. Non sapevo se sentiva le parole che gli premevo contro o se capiva i miei gesti. Forse era la lingua di due vecchi compagni o tutte quelle cose messe insieme, ma io e Boojohni avevamo il nostro linguaggio, e per quanto fosse primitivo, riuscivamo a comunicare.

    «Se n’è andata. Come se qualcuno l’avesse trascinata via», si limitò a bofonchiare. Chinai il capo in preda al rimorso. Ma io non avevo udito nulla! L’avrei dovuto sentire, ne ero sicura. A meno che l’aquila non fosse morta, e il lupo fosse stato lesto e furtivo.

    Boojohni si accovacciò e seguì il sentiero dei rametti spezzati e della fauna sconvolta, allontanandosi dal sangue e dalle piume.

    Lupo?

    «No», brontolò, come se gliel’avessi chiesto ad alta voce. Spesso faceva così. «Non un lupo. Un uomo». Mi indicò la mezza impronta di un tacco nel terreno. «Quello non è un animale».

    Freccia.

    Alzò lo sguardo verso di me. Mi battei la mano sul cuore e tirai indietro le braccia come se stessi per tirare con l’arco. L’arciere alla fine aveva trovato la sua preda, così pareva. Ero fortunata che avesse voluto soltanto l’aquila, perché io ero stata estremamente vulnerabile nel sonno.

    Boojohni mi rimproverò; ovviamente pensava la stessa cosa. Si alzò e si mise le mani sui fianchi, lasciando perdere la sua pista.

    «Il tuo dolce cuore si sta spandendo fino al cervello e lo sta trasformando in poltiglia. Hai rischiato di essere ammazzata, Uccellino. O ancora peggio». Boojohni mi chiamava spesso con quel nomignolo affettuoso.

    Inclinai la testa, per dimostrargli che lo stavo ascoltando, ma non cambiò niente. Non avrebbe cambiato niente. Avrei fatto di testa mia, e lui lo sapeva. Rimasi immobile per un altro momento, in cerca dell’aquila, di un segno nell’aria, ma non ne trovai traccia: era proprio sparita. Sospirai sconfitta, e mi coprii i capelli con il cappuccio del mantello. La grossa treccia, che portavo avvolta sulla testa, pesava come una corona di spine e probabilmente ne aveva anche l’aspetto. Avevo già rimosso una foglia e una soffice piuma. Non ero vanitosa, ma non volevo attirare l’attenzione su di me, al mio ritorno al torrione.

    «Per favore, per favore, per amore dei troll e delle altre creature benedette, smettila di vagare per le foreste come un pipistrello invece di comportarti da piccola dama!». Boojohni stava montando su una protesta. Parlava in tono aspro, ma la parola che si sprigionava da lui era amore. Non ascoltavo i pensieri delle persone così come uscivano dalla loro bocca. Udivo le singole parole, il vocabolo dominante. Così come sentivo le parole che governavano ogni cosa vivente. La parola dominante che mi trasmetteva Boojohni era sempre amore, e io riuscivo a tollerare le sue sfuriate perché sapevo da cosa scaturivano.

    Sospirai e continuai a camminare. Lui si affrettò per raggiungermi allungando le braccia tozze nel tentativo di fermarmi. Lo superai. Non stavo cercando di complicare le cose, ma non volevo discutere; inoltre riuscivo a camminare e, allo stesso tempo, a restare in ascolto. Boojohni non ne era capace: la sua bocca e le braccia faticavano a funzionare assieme. Mi strattonò per un braccio.

    «C’è una guerra in corso, a poche miglia da qui! Una guerra! Centinaia di uomini violenti e bestie prive di scrupoli, che non esiterebbero a trascinare una donna per i capelli! Soprattutto una fanciulla che dorme nei boschi, come un dono delle fate!».

    Annuii, per fargli sapere che capivo, ma non servì a calmarlo.

    «Tuo padre mi taglierebbe la barba, se sapesse quanto spesso te la svigni per comunicare con la foresta! Non desideri forse che il povero Boojohni trovi il vero amore e la felicità? Quale donna-troll mi vorrebbe mai senza la barba?». Rabbrividì per l’orrore. Gli tirai la barba con affetto e ripresi a camminare.

    Boojohni era perso nell’idea terrificante di potersi ritrovare rasato, e io di colpo pensai alla guerra a Jeru, la guerra che mio padre e i suoi fidi consiglieri tenevano d’occhio. Il re si era accampato nella proprietà di mio padre lungo la linea del fronte dell’ultima schermaglia. Fedele alla tradizione di famiglia, il giovane sovrano passava più tempo ad ammazzare gli avversari in sella al suo destriero che seduto sul trono. Questa volta, tuttavia, le creature che gli facevano guerra erano di gran lunga più terribili di lui.

    Le chiacchiere sui Volgar erano probabilmente esagerate, ma erano voci davvero terrificanti: secondo alcuni, uccidevano soltanto per bere il sangue e mangiare la carne degli avversari perché credevano che l’energia vitale si trasferisse da un corpo all’altro. Il loro capo, conosciuto soltanto come Liege, aveva le ali di un avvoltoio e artigli affilati come lame. Sorvolava sulle sue armate e le dirigeva dall’alto.

    Liege voleva il regno di Jeru, convinto che c’era un potere speciale da distruggere, sebbene il re di Jeru, il padre di re Tiras, avesse eliminato la magia dalla popolazione. Liege voleva il regno di Jeru, e anche quello di Dendar e Porta e Willa. Aveva conquistato prima Porta, poi Dendar, lasciando la devastazione più assoluta al suo passaggio.

    Adesso si trovava al confine di Jeru, nella valle di Kilmorda, e re Tiras e i suoi guerrieri si erano radunati per affrontarlo. Mio padre era dilaniato tra speranza e lealtà. Era un signore di Jeru, e perciò aveva bisogno che Liege e i Volgar venissero sconfitti; ma allo stesso tempo aspirava al trono. La cosa migliore sarebbe stata che re Tiras morisse dopo aver sconfitto Liege e i suoi Volgar, quelle orde di canaglie. In questo modo, mio padre non avrebbe dovuto contendersi il trono con quei mostri predatori.

    Mia madre aveva predetto che il vecchio re avrebbe sacrificato la sua anima e suo figlio al cielo. Non era ancora finita: re Zoltev era morto, anche se non c’era certezza riguardo alla sua anima, e suo figlio era vivo e vegeto, eppure mio padre stava progettando il proprio futuro su questi fatti. Era il successore più probabile. Voleva essere re, e io desideravo solo liberarmi di lui. Mia madre disse a mio padre che io non avrei dovuto più parlare, e che se fossi morta, sarebbe morto anche lui. Mio padre le aveva creduto pienamente, e perciò avevo passato gli ultimi quindici anni in gabbia, intrappolata. Mio padre mi controllava con ansia per vedere se stessi bene, e mi odiava perché il suo fato era legato al mio.

    Quando mio padre mi guardava, udivo quasi sempre la stessa parola. Udivo il nome di mia madre. Meshara. Mi guardava e ricordava l’ammonimento di mia madre. Udivo il nome di mia madre nella voce di mio padre, poi lui si girava dall’altra parte. Inevitabilmente.

    Non si voltava dall’altra parte perché le assomigliavo. Mia madre era bella, io no. I miei occhi erano grigi, completamente. Non azzurri come il cielo o smeraldini come il mare. Grigi, e basta. Ero pallida d’incarnato, e i miei capelli erano castano chiaro: color cenere, li aveva definiti mia madre. Non troppo chiari, non troppo scuri. Un castano quieto, come il topolino che si nascondeva nell’angolo e aspettava che io dormissi per rubarmi le briciole da sotto il tavolo. I miei colori erano timidi e schivi, come il mio carattere. Pallida. Insipida. Così reticente che non mi ero mai pienamente materializzata: un fantasma, grigio e insignificante.

    «Non sei così invisibile come pensi, Uccellino», sbottò Boojohni, come se avesse ascoltato le mie riflessioni interiori. «Non sono stato l’unico ad accorgersi che stamattina non c’eri. Succedono cose strane. Mertin, uno dei garzoni della stalla, giaceva nudo come un verme in mezzo al fieno, subito dopo l’alba. Uno dei cavalli era scomparso. Il preferito di tuo padre, quello grigio. Poi è arrivata Bethe urlando in cucina, sosteneva che la tua stanza era vuota e il letto intatto. Le ho fatto giurare di star zitta finché non ti avessi trovata annusando le tue tracce. E ovviamente ci sono riuscito».

    Scossi la testa e sospirai. Bethe era la mia cameriera. Tendeva ad allarmarsi facilmente, ma per me era sconvolgente che qualcuno avesse rubato la cavalla grigia. Era buona, e non tolleravo che l’avessero portata via.

    Mi toccai gli occhi e feci una domanda con le mani. Boojohni mi rispose subito, aveva capito.

    «Nessuno ha visto niente… a parte il deretano del povero Mertin quando è saettato fuori dalla stalla». Boojohni ridacchiò.

    Indicai i miei abiti, dalla testa ai piedi. Svestito?

    «Sì, completamente. Niente stivali, brache, camicia, mantello. Non credo che Mertin si preoccupi di indossare le mutande».

    Sussultai. Trovavo sgradevole il pensiero delle mutande di Mertin. Era un omaccione intrattabile, e così villoso che con i suoi peli era possibile tessere un piccolo tappeto da mettere dinanzi al focolare. Ma se la cavava bene con i cavalli; e non era certo un uomo con il quale mettersi a discutere. Chissà se qualcuno gli aveva rubato i vestiti senza svegliarlo.

    «Mertin credeva di essere la vittima di una burla, finché non si è accorto che il cavallo era scomparso. Adesso non ride più, perché sa che si prenderà tante frustate per aver bevuto durante il turno di guardia. Eppure sostiene di non aver bevuto; almeno non così tanto da perdere i sensi. Ha un bernoccolo enorme in testa; forse qualcuno gli ha dato un cazzotto».

    Annuii. Quella teoria aveva più senso.

    «Tuo padre non è per niente felice. È già molto teso per la battaglia sul confine. Non gli riferiremo che hai dormito nei boschi, mentre i ladri erano in giro per la proprietà».

    Ci affrettammo in silenzio, evitando la strada e attraversando i boschi, sebbene non fosse il sentiero più diretto. Boojohni capì che volevo evitare lo sguardo dei mattinieri, che a quell’ora erano già indaffarati. Non avevo motivo di essere fuori di casa, e in giro, così presto: arruffata, coi vestiti sgualciti e incappucciata, con l’aria di una che aveva trascorso la notte a rotolarsi nel fieno con Mertin.

    Il torrione di mio padre si ergeva su un colle. A sud era circondato da diversi piccoli villaggi disposti come una mezza luna, mentre a nord era delimitato da campi e foreste. L’unica strada per il torrione era irta, con ripidi strapiombi sulle montagne scoscese che bordavano la valle superiore di Corvyn. Era una terra fertile, bella e mozzafiato, e ben fortificata dal paesaggio naturale. Ma i Volgar erano uomini alati. Dirupi e irte salite non li avrebbero scoraggiati granché, se l’armata al confine non fosse riuscita a respingerli. Eravamo a sole venti miglia dal fronte nella valle di Kilmorda e mio padre, sebbene fosse preoccupato e si consultasse di frequente con i suoi consiglieri, non aveva inviato un solo guerriero da Corvyn per aiutare re Tiras a sconfiggere i Volgar.

    Il torrione era una piccola città: c’erano due forgiatori, un macellaio, un operaio, uno stampatore, un sarto, fornai e tessitori e artigiani e guaritori; tutti privi di magia. Arti e mestieri erano accettati; i doni mistici, no. Tutti erano lesti a mostrare quanto fossero seri e utili, e di conseguenza, mentre crescevo, il mio unico desiderio fu di essere utile a mia volta.

    Nessuno mi aveva insegnato a leggere o scrivere. Mio padre non l’aveva permesso. Aveva paura di darmi le parole, in qualsiasi forma, e poiché non parlavo, la gente sovente dimenticava che comunque capivo, perciò conversava liberamente davanti a me. In quel modo imparai un sacco di cose, ascoltando e osservando gli altri. Avevo passato tanto tempo con le vecchie signore del torrione, donne che non erano mai state a scuola, ma che erano istruite in centinaia di altri modi. Da loro imparai a guarire con le erbe e a calmare con il mio tocco. Appresi la saggezza e l’attenzione, imparai ad accettare con pazienza e ad aspettare in silenzio. Cosa non ne ero sicura, ma nel mio cuore ero sempre in attesa, come se il momento annunciato da mia madre un giorno sarebbe arrivato.

    «Pensavamo che vi avesse rapita un uomo alato!», strillò Bethe quando Boojohni e io entrammo in cucina dal retro del torrione. Ero ancora incappucciata e tenevo lo sguardo basso. Sospirai. Avevo sperato di salire per le scale di servizio senza che nessuno mi vedesse, ma Madame Pattersley, la governante, e la mia cameriera ci stavano chiaramente cercando.

    «E cosa dovrebbe volere uno dei Volgar dalla piccola Lark, eh?», sbottò Boojohni. «Lei è esile, avrebbe dovuto rapire anche te, Bethe. Ma sarebbe stato un po’ difficile portarti via». Boojohni ammiccò e le diede una pacca sull’abbondante didietro. Lei ricambiò la pacca e si dimenticò del tutto di me, ed era proprio quello lo scopo di Boojohni, ma non riuscii a sfuggire altrettanto facilmente alla governante di mio padre. Mi piombò addosso, e con uno strattone mi levò il cappuccio dalla testa. Restò a bocca aperta quando vide i miei capelli.

    «Milady! Dove siete stata?».

    Essere incapace di rispondere fu un sollievo, e mi limitai a scrollare le spalle; iniziai a sciogliermi la treccia che mi ornava la testa, e così caddero foglie e rametti intrappolati tra le ciocche.

    «Siete stata con un uomo!», squittì Bethe. «Avete trascorso la notte nel bosco, con un uomo».

    «Non ha fatto nulla del genere», brontolò Boojohni, offeso. Gli accarezzai la testa in segno di gratitudine.

    «Bisognerà avvertire vostro padre, Lark. Sapete quanto si preoccupa per voi. Non posso nascondergli una cosa del genere», annunciò Madame Pattersley con un’espressione virtuosa. Madame Pattersley aveva passato gli ultimi quindici anni, da quando era morta mia madre, a cercare di conquistarsi le attenzioni di mio padre. In quello eravamo simili, anche se io ci avevo rinunciato da molto tempo. Lei gli raccontava ogni cosa. Forse ciò rimediava al fatto che io non potessi dirgli niente.

    «Nascondermi cosa?». Sull’uscio si profilò mio padre.

    «Lark è stata tutta la notte fuori di casa, milord», annunciò Madame Pattersley, e quella rivelazione rimbalzò dalle pentole e dalle pignatte che penzolavano su di noi; l’esultanza della governante ne echeggiò il baccano.

    Alzai lo sguardo su mio padre, sperando che a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1