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La rosa del califfo
La rosa del califfo
La rosa del califfo
E-book410 pagine5 ore

La rosa del califfo

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller La moglie del califfo

Shahrzad è stata la moglie del califfo del Khorasan. Era giunta nella sua dimora con lo scopo di vendicare la morte di altre fanciulle andate in sposa a lui. Poi il suo piano è saltato, Khalid non è infatti il mostro che tutti credono. È un uomo tormentato dai sensi di colpa, vittima di una potente maledizione. Ora che è tornata dalla sua famiglia, Shahrzad dovrebbe essere felice, ma quando scopre che Tariq, suo amore d’infanzia, è alla guida di un esercito e sta per muovere guerra al califfo, la ragazza capisce che deve intervenire se vuol salvare ciò che ama. Per tentare di evitare una sciagura, spezzare quella maledizione, ricongiungersi a un uomo di cui ora scopre di essersi innamorata, Shahrzad farà appello ai suoi poteri magici, a lungo rimasti sopiti dentro di lei…

Bestseller del New York Times
Finalista al Goodreads Choice Awards 2016

«Il giusto mix tra azione e romanticismo.»
School Library Journal

«Un’eroina piena di coraggio. Una storia d’amore ardente.»
Booklist

«Eccitante, pieno di sentimento. Un racconto da mille e una notte.»
Kirkus Reviews
Renée Ahdieh
Vive a Charlotte, in North Carolina, con il marito e il loro cane. La rosa del califfo è il seguito del suo primo romanzo di grande successo, uscito per la Newton Compton in Italia, dal titolo La moglie del califfo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2017
ISBN9788822705068
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    Anteprima del libro

    La rosa del califfo - Renée Ahdieh

    1491

    Titolo originale: The Rose and the Dagger

    Copyright © 2016 by Renée Ahdieh

    Published in agreement with the author,

    c/o BAROR INTERNATIONAL, INC., Armonk, New York, U.S.A.

    Traduzione dall’inglese di Arianna Pelagalli e Lorena Palladini

    Prima edizione ebook: aprile 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0506-8

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Realizzazione: Sebastiano Barcaroli

    Copertina: Raul Rodriguez/iStockphoto/Theresa Evangelista

    Renée Ahdieh

    La rosa del califfo

    Erica, Elaine e Sabaa.

    Questo libro non sarebbe stato possibile senza di voi.

    E, come sempre, a Victor.

    La vera essenza della rosa risiede nelle spine.

    JALAL AL-DIN RUMI

    Indice

    Prologo

    L’acqua mente

    Sempre

    Storie e segreti

    Una linea indelebile

    Un passaggio fra due mondi

    Disposto ad apprendere

    Il bruto e la farfalla

    Nemmeno una goccia

    Come una rosa che si schiude

    Il falò

    Senza limiti

    Il ragazzo sul mare

    Là dove giacciono le rovine

    La chiamata alle armi del topo

    Un equilibrio perfetto

    Una volta per tutte

    Il serpente alato

    Il lato oscuro di uno specchio

    L’inganno e la finta

    Una freccia nel cuore

    Un fratello e una casa

    Tutto all’aria

    Il più grandioso dei poteri

    La vita e la morte nelle pagine di un libro

    Il palazzo in arenaria

    La tigre e il falco

    Il baniano in fiamme

    Il serpente volante

    Battuti

    La conchiglia bianca

    Il baratto, le bugie e il tradimento

    Arrivi indesiderati

    Le porte di Amardha

    La rosa

    Il pugnale

    Il potere dell’amore

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Prologo

    La ragazza aveva undici anni e tre quarti.

    Tre quarti molto importanti. Quella mattina si erano rivelati fondamentali quando suo padre le aveva lasciato il comando, assegnandole un compito cruciale. E così, con un sospiro esausto, si rimboccò le maniche lacere e caricò i detriti sulla carriola.

    «È pesantissimo», si lamentò il suo fratellino, tentando, dall’alto dei suoi otto anni, di sollevare un calcinaccio. Diede un colpo di tosse, investito dalla nuvola di fuliggine che si era sollevata dai resti carbonizzati della casa.

    «Aspetta, ti do una mano». La ragazza lasciò cadere il badile, che piombò a terra con un sonoro clang.

    «Non mi serve il tuo aiuto!».

    «Dobbiamo collaborare, altrimenti non riusciremo a rassettare tutto prima che baba torni a casa». Si piantò i pugni sui fianchi, fulminandolo con lo sguardo.

    «Guardati intorno!», esclamò lui spalancando le braccia. «È impossibile rassettare tutto».

    Gli occhi della ragazza si spostarono su ciò che il fratello le stava indicando.

    Le pareti di argilla della loro casa erano sventrate. Distrutte. Annerite. Il tetto era squarciato, aperto verso un cielo scialbo e desolato.

    Verso le rovine di quella che un tempo era una città gloriosa.

    Un pallido sole di mezzogiorno faceva capolino da dietro i tetti diroccati di Rey, gettando luci e ombre sulla pietra rovinata e il marmo bruciato. Qua e là, pile di macerie ancora fumanti erano il crudele ricordo di ciò che era avvenuto pochi giorni prima.

    La ragazza indurì lo sguardo e si avvicinò al fratellino.

    «Se non hai voglia di lavorare, aspettami fuori. Io continuo. Qualcuno deve pur farlo». Si chinò a raccogliere la pala.

    Il ragazzo diede un calcio a una pietra, che schizzò sulla terra battuta e si fermò urtando i piedi di uno sconosciuto incappucciato fermo davanti a ciò che restava dell’ingresso della loro casa.

    La ragazza strinse le dita intorno al manico del badile e sospinse il fratellino dietro di sé.

    «Posso aiutarvi…?». Le parole le si bloccarono in gola. Il rida’ nero dello sconosciuto era intarsiato di fili d’oro e d’argento. Il fodero della spada era finemente intagliato ed elegantemente tempestato di pietre preziose, e i suoi sandali erano ricavati da una pelle di vitello pregiatissima.

    Non poteva essere un avventuriero qualsiasi.

    La ragazza raddrizzò le spalle. «Posso aiutarvi, sahib?».

    L’uomo non rispose subito e la ragazza sollevò la vanga, l’espressione tesa e il cuore che le martellava nel petto.

    Lo straniero oltrepassò la cornice pericolante della porta. Si tolse il cappuccio e sollevò i palmi delle mani in segno di supplica. I suoi gesti erano prudenti, si muoveva con una sorta di grazia liquida.

    Giunse sotto un flebile raggio di luce e la ragazza scorse il suo viso per la prima volta.

    Era più giovane di quanto si fosse aspettata. Non doveva avere più di vent’anni.

    Il suo volto rispettava i canoni della bellezza, ma i suoi lineamenti erano troppo spigolosi, la sua espressione troppo severa. Il sole rivelò un particolare che contrastava con l’eleganza del suo abbigliamento: la pelle dei palmi era screpolata e arrossata, indice di attività manuali.

    I suoi occhi stanchi erano di un colore fulvo-dorato. La ragazza aveva già visto un paio d’occhi così, una volta. In un quadro che raffigurava un leone.

    «Non volevo spaventarvi», disse l’uomo gentilmente. I suoi occhi si mossero sui resti della loro piccola abitazione. «Potrei parlare con vostro padre?»

    «Non c’è, è andato a fare la fila per i materiali edili», rispose la ragazza, osservandolo con diffidenza.

    L’uomo annuì. «E vostra madre?»

    «È morta», rispose il fratellino, sbucando dietro le spalle della sorella. «Le è crollato il tetto addosso durante la tempesta. È morta il giorno dopo».

    Nella voce del bambino c’era una noncuranza che la ragazza non condivideva.

    Per suo fratello, quelle parole non avevano ancora assunto un significato concreto. Dopo il prezzo altissimo che avevano pagato a causa della terribile siccità dell’ultimo anno, la tempesta aveva imposto un ulteriore, tremendo tributo alla loro famiglia.

    E suo fratello doveva ancora metabolizzare quell’ultima perdita.

    Per un attimo, l’espressione dello straniero divenne ancora più arcigna. L’uomo distolse lo sguardo e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Un istante dopo tornò a puntare gli occhi su di loro, lo sguardo imperscrutabile nonostante le mani strette a pugno. «Avete una vanga in più?»

    «E perché mai voi dovreste aver bisogno di una vanga, ricco straniero?». Il bambino marciò davanti all’uomo, minaccioso.

    «Kamyar!». Sbalordita, la sorella lo afferrò per la logora parte posteriore del qamis.

    Lo straniero osservò il ragazzino per alcuni istanti prima di accovacciarsi. «Ti chiami Kamyar, giusto?», chiese con le labbra increspate da un sorriso quasi impercettibile.

    Il bambino non disse nulla, quasi incapace di reggere lo sguardo dell’altissimo straniero.

    «Vi… vi domando scusa, sahib», balbettò la giovane. «Ogni tanto fa l’insolente».

    «Non scusatevi. So apprezzare l’insolenza, se proviene dalla persona giusta». A quel punto il viso dello straniero si aprì in un vero sorriso, e la sua espressione si addolcì.

    «Sì», disse il bambino, intromettendosi nella conversazione, «io mi chiamo Kamyar. E voi?».

    L’uomo lo studiò per alcuni istanti.

    «Khalid».

    «Perché volete una vanga, Khalid?», ripeté il fratellino.

    «Vorrei aiutarvi a riparare la casa».

    «Perché?»

    «Perché collaborando si finisce più in fretta».

    Kamyar annuì lentamente, poi piegò la testa da un lato. «Ma questa non è casa vostra. Cosa ve ne importa?»

    «Rey è casa mia. Ed è anche casa vostra. Se io avessi bisogno di aiuto e tu fossi in grado di offrirmelo, me lo negheresti?»

    «No», rispose Kamyar senza alcuna esitazione. «Non ve lo negherei».

    «Allora siamo d’accordo». L’uomo si rialzò in piedi. «Mi presteresti la tua vanga, Kamyar?».

    I tre trascorsero il resto del pomeriggio a sgombrare il pavimento dai frammenti di legno carbonizzato e dai detriti fradici.

    La ragazza non svelò allo straniero il proprio nome e si rifiutò di chiamarlo in un modo diverso da sahib; Kamyar invece prese a trattarlo come se fossero due vecchi amici con un nemico in comune. Quando l’uomo offrì loro dell’acqua e alcune fette di pane lavash, la giovane chinò il capo e si sfiorò la fronte con le dita in segno di gratitudine.

    Un tenue rossore le tinse le guance quando quello straniero quasi bello ricambiò il gesto senza proferire parola.

    Ben presto, il giorno illividì nella notte e Kamyar si ritirò in un angolo, con il mento che gli ciondolava sul petto e le palpebre che si facevano sempre più pesanti.

    Lo straniero dispose l’ultimo pezzo di legno ancora utilizzabile vicino alla porta, scrollò la polvere dal rida’ e si rimise il cappuccio sulla testa.

    «Grazie», mormorò la giovane, sapendo bene che quello era il minimo che potesse dire.

    L’uomo voltò la testa, scoccandole un’occhiata, e infilò una mano nel mantello per estrarre un borsellino chiuso da un cordoncino di pelle.

    «Prendetelo. Ve ne prego».

    «No, sahib». La ragazza scosse la testa. «Non posso accettare i vostri soldi. Abbiamo già approfittato fin troppo della vostra generosità».

    «Non è molto. Ma vorrei che lo aveste voi». I suoi occhi, che avevano un’aria stanca già quando era arrivato, adesso parevano esausti. «Vi prego».

    In quel momento sul suo volto velato dalle ineffabili ombre della sera, coperto di granelli di polvere e cenere, c’era qualcosa…

    Qualcosa che parlava di una sofferenza profonda, pervasiva, quasi impossibile da immaginare.

    La ragazza afferrò il borsellino.

    «Grazie», le disse l’uomo in un sussurro, come se fosse lui, il bisognoso.

    «Shiva», disse lei. «Mi chiamo Shiva».

    Negli occhi dell’uomo passò un lampo di incredulità, e i suoi lineamenti duri parvero addolcirsi.

    «Ma certo». Le rivolse un inchino profondo portandosi le dita alla fronte.

    Confusa, la ragazza ricambiò il gesto di cortesia. Quando sollevò di nuovo lo sguardo, l’uomo aveva svoltato l’angolo.

    Ed era scomparso nell’oscurità sempre più fitta della notte.

    L’acqua mente

    Era solo un anello.

    Eppure per lei rappresentava tutto.

    Tutto ciò che aveva da perdere. Tutto ciò per cui valeva la pena di combattere.

    Shahrzad spostò la mano sotto un raggio di sole. L’anello d’oro brillò due volte, come se volesse ricordarle il suo compagno, sperduto da qualche parte al di là del Mare di Sabbia.

    Khalid.

    I suoi pensieri andarono al palazzo di marmo di Rey. A Khalid. Sperò che fosse insieme a Jalal o almeno con suo zio, lo shahrban.

    Sperò che non fosse solo. Alla deriva. Smarrito…

    Perché non sono con lui?

    Contrasse le labbra.

    Perché l’ultima volta che sono stata a Rey sono morte migliaia di persone innocenti.

    E Shahrzad non poteva farvi ritorno finché non avesse trovato il modo di proteggere il suo popolo.

    Il suo amore.

    Finché non avesse capito come spezzare la maledizione di Khalid.

    Fuori dalla tenda, una capra prese a belare con festoso trasporto.

    Stizzita, Shahrzad schizzò fuori dalla coperta rabberciata e afferrò il pugnale accanto al sottile materasso di lana. Una minaccia sterile, certo, ma doveva assolutamente sforzarsi di mantenere almeno una parvenza di controllo.

    Come per schernirla, i versi divennero ancora più insistenti.

    E questo cos’è? Una campana?

    La bestiola fuori dalla tenda aveva una campanella appesa al collo! Fra il clangore e i belati dormire sarebbe stato impossibile.

    Shahrzad si drizzò a sedere stringendo le dita intorno all’impugnatura incastonata di pietre preziose del pugnale…

    E poi, lanciando un grido d’esasperazione, ricadde all’indietro sulla ruvida lana del materasso.

    Tanto non riuscirei a dormire comunque.

    Era troppo lontana da casa. Troppo lontana da dove il suo cuore anelava di essere.

    Ricacciò indietro l’improvviso groppo in gola. Sfiorò col pollice l’anello con le due spade incrociate, che Khalid le aveva infilato al dito della mano destra solo due settimane prima.

    Adesso basta. Di questo passo non riuscirò a combinare niente.

    Si alzò nuovamente a sedere e si guardò intorno.

    Il materasso di Irsa, accuratamente arrotolato, era ordinatamente riposto in un angolo della piccola tenda. Con tutta probabilità la sua sorellina era già in piedi da ore, a cuocere il pane, preparare il tè e a intrecciare l’indegna barbetta della capra.

    A Shahrzad venne quasi da sorridere, nonostante tutto.

    Con l’oscurità che alimentava la sua diffidenza, si infilò il pugnale nella cintura e si alzò in piedi. I muscoli le dolevano per le lunghe giornate di viaggio e le notti insonni.

    Tre notti di afflizioni. Tre notti di fuga da una città in fiamme. Un’infinita serie di domande che non trovavano risposte. Tre lunghe notti a preoccuparsi per suo padre, il cui corpo martoriato doveva ancora riprendersi dalle contusioni che aveva riportato sulle montagne oltre i confini di Rey.

    Shahrzad fece un respiro profondo.

    In quel posto c’era un’aria strana. Più secca. Frizzante. Flebili lame di luce si incanalavano nelle cuciture della tenda disegnando linee oblique. Un sottile strato di limo ricopriva ogni cosa, e il piccolo mondo di Shahrzad sembrava forgiato a partire da una scura polvere di diamante.

    All’estremità della tenda era collocato un tavolino con una brocca di porcellana e una bacinella di rame. Gli esigui effetti personali di Shahrzad si trovavano lì accanto, avvolti nel tappeto liso che le aveva regalato Musa Zaragoza alcuni mesi prima. Si inginocchiò davanti al tavolo e riempì la bacinella d’acqua per lavarsi.

    L’acqua era tiepida ma pulita. L’immagine riflessa che la guardava di rimando appariva stranamente calma.

    Calma ma distorta.

    Il volto di una ragazza che aveva perduto tutto e niente nell’arco di una sola notte.

    Immerse nell’acqua entrambe le mani. La sua pelle sembrava pallida e lattiginosa sotto la superficie, diversa dal suo solito colorito bronzeo.

    Fissò lo sguardo nel punto in cui l’acqua incontrava l’aria, sulla strana piega che prendevano le sue mani, come se avessero varcato il confine di un altro mondo…

    Un mondo che si muoveva più lentamente e aveva delle storie da raccontare.

    L’acqua mente.

    Si sciacquò il viso e si passò le dita umide nei capelli. Infine sollevò il coperchio dello scrigno di legno lì accanto e usò un pizzico di menta, pepe bianco e salgemma per pulirsi la bocca impastata di sonno.

    «Sei sveglia. Non credevo che ti alzassi così presto, sei arrivata molto tardi stanotte».

    Shahrzad si voltò e trovò Irsa ferma sotto la falda aperta della tenda, il suo profilo slanciato si stagliava contro un triangolo di luce del deserto.

    Irsa sorrise, e Shahrzad ne scorse più distintamente i lineamenti sbarazzini. «Non ti sei mai svegliata in tempo per la colazione». Piegò la testa per entrare e si richiuse la falda della tenda alle spalle.

    «Come si fa a dormire con gli strilli di quella dannata capra?». Shahrzad schizzò Irsa con un po’ d’acqua, sperando di evitare la consueta raffica di domande.

    «Chi, Farbod?»

    «Hai dato un nome a quella bestia?», domandò Shahrzad sorridendo mentre cercava di addomesticare i riccioli ingarbugliati in una treccia.

    «È un essere molto dolce». Irsa corrugò la fronte. «Dovresti dargli una possibilità».

    «Ti prego di informare Farbod, se intende continuare con queste esibizioni mattutine, che il mio piatto preferito è lo stufato di capra, servito con salsa di melograno e noci tritate».

    «Ah!». Irsa estrasse un lungo pezzo di spago dalla tasca sgualcita dei pantaloni sirwal. «Dimenticavo che adesso c’è un’aristocratica in mezzo a noi». Legò lo spago intorno all’estremità della treccia di Shahrzad. «Avvertirò Farbod che non deve più arrecare offesa all’illustre califfa del Khorasan».

    Shahrzad voltò la testa per guardare Irsa negli occhi chiari.

    «Sei diventata altissima», disse piano. «Quand’è che sei cresciuta così tanto?».

    Irsa cinse la vita di sua sorella con le braccia. «Mi sei mancata». Sfiorò inavvertitamente l’impugnatura del pugnale e si ritrasse, allarmata. «Perché hai…».

    «Si è svegliato baba?», domandò Shahrzad offrendole un sorriso a trentadue denti. «Mi accompagneresti da lui?».

    La notte della tempesta, Shahrzad era saltata in groppa a un cavallo ed era partita alla ricerca di suo padre insieme a Tariq e Rahim, giungendo fino alla cima di una montagna alle porte di Rey.

    Ma non si sarebbe mai aspettata di imbattersi in uno spettacolo come quello.

    Jahandar al-Khayzuran era steso in una pozzanghera, raggomitolato su se stesso con un libro rilegato in pelle stretto al petto. Aveva i piedi e le mani ustionati. Rossi e ruvidi e scorticati. I capelli gli cadevano a ciocche, e la pioggia li trascinava nel fango, sulle pietre umide, come rifiuti abbandonati.

    Il cavallo pomellato di sua sorella era morto da un pezzo. Qualcuno gli aveva tagliato la gola. Il suo collo era solcato da rigagnoli di sangue rappreso. Il liquido si era insinuato nelle venature del fango, tingendole di cremisi e disegnando dei motivi inquietanti lungo il pendio fradicio.

    L’immagine del corpo di suo padre rannicchiato sul declivio rosso e grigio era impressa indelebilmente nella memoria di Shahrzad.

    Quando aveva tentato di togliergli il volume dalle mani, Jahandar si era messo a gridare in una lingua che Shahrzad non gli aveva mai sentito parlare. Gli occhi gli si erano rivoltati dentro le orbite e le palpebre si erano chiuse per non riaprirsi più. Erano già trascorsi quattro giorni.

    Shahrzad non se ne sarebbe andata finché non lo avesse visto spalancare gli occhi.

    Doveva essere sicura che suo padre stesse bene. Doveva scoprire cosa gli era accaduto.

    Indipendentemente da cosa – o da chi – la aspettava a Rey.

    «Baba?», chiamò Shahrzad a bassa voce inginocchiandosi accanto a lui nella piccola tenda.

    L’uomo rabbrividì nel sonno, le dita saldamente aggrappate all’antico tomo premuto sul suo petto. Jahandar si rifiutava di lasciarlo andare persino in quello stato di delirio. Nessuno aveva il permesso di toccarlo.

    Irsa sospirò. Si chinò di fianco a Shahrzad e le passò un bicchiere d’acqua.

    Shahrzad lo avvicinò alle labbra screpolate del padre e attese di sentirlo deglutire. L’uomo mormorò qualcosa fra sé e si girò sul fianco, seppellendo il libro sotto le coperte.

    «Cosa ci hai messo?», domandò Shahrzad a sua sorella. «Ha un buon odore».

    «Un po’ di menta fresca e del miele. E anche qualche foglia di tè e un goccio di latte. Hai detto che non mangia nulla da giorni. Ho pensato che potesse aiutarlo». Irsa si strinse nelle spalle.

    «Ottima idea. Avrei dovuto pensarci io».

    «Non essere così dura con te stessa. Non è da te. E poi… tu hai già fatto abbastanza». Irsa stava dimostrando una saggezza del tutto inusuale per una quattordicenne. «Si sveglierà presto, ne sono sicura». Si morse il labbro, il suo tono mancava di convinzione. «Le ferite guariranno, ma occorre portare pazienza. Ci vorrà del tempo».

    Shahrzad esaminò le mani di suo padre in silenzio. Le ustioni avevano formato delle vesciche, le ferite avevano assunto delle sfumature rosse e viola.

    Cos’ha fatto la notte della tempesta?

    Cos’abbiamo fatto?

    «Dovresti mettere qualcosa sotto i denti. Non ti ho vista mangiare nulla da quando sei arrivata ieri sera», disse Irsa interrompendo il flusso dei suoi pensieri.

    Prima che avesse il tempo di controbattere, Irsa le tolse il bicchiere dalla mano, la aiutò a rialzarsi e la trascinò fuori dalla tenda del padre, verso le dune. L’odore della carne sul fuoco impregnava l’aria del deserto, il fumo era una nuvola informe sopra di loro. Minuscoli granelli di sabbia si insinuavano fra le dita dei piedi di Shahrzad, bollenti ai limiti della sopportazione. Feroci raggi di sole si abbattevano sugli oggetti, slabbrandone i contorni.

    Mentre camminavano, Shahrzad osservò l’accampamento Badawi attraverso le palpebre socchiuse, studiando l’affaccendarsi e l’andirivieni di volti perlopiù amichevoli; gente che trasportava da un punto all’altro ceste colme di cereali e sacchi di viveri. I bambini sembravano abbastanza sereni, però era impossibile ignorare la fornita selezione di armi – spade, asce, frecce – disposte ordinatamente all’ombra di ampie pelli di animale conciate. Era impossibile ignorare le armi e il loro incontrovertibile significato…

    Ci si preparava alla guerra.

    E mi prenderò quelle vite, mille volte tanto.

    Shahrzad si irrigidì ma poi rilassò le spalle: non voleva gravare sua sorella del fardello di tali preoccupazioni. Erano riservate alle persone dotate di abilità particolari.

    Persone come Musa Zaragoza, il magus del Tempio del Fuoco.

    Le costò un discreto sforzo di volontà, ma alla fine riuscì a scrollarsi di dosso il pensiero opprimente della maledizione. Lei e Irsa si fecero strada in mezzo alle tende, dirette a quella più grande, al centro dell’accampamento. Era una struttura notevole, per quanto variopinta: un guazzabuglio di colori stinti dal sole, sormontato da un guidone sbiadito che sbatacchiava nella brezza. L’ingresso della tenda era controllato da una sentinella incappucciata con una tunica di stoffa grezza.

    «Niente armi». La mano della guardia ghermì la spalla di Shahrzad con la forza di un uomo avvezzo alla violenza. Il genere di persona che dal proprio ruolo trae più piacere di quanto dovrebbe.

    Nonostante la sua indole saggia, la reazione di Shahrzad fu immediata e automatica. Si liberò dalla presa e fulminò l’uomo con lo sguardo.

    Non sono dell’umore giusto per sopportare gli zotici, e tantomeno le loro velleità bellicose.

    «Non è consentito introdurre armi nella tenda dello sceicco». La guardia allungò la mano verso il pugnale della ragazza, gli occhi minacciosi che gli brillavano.

    «Toccami un’altra volta e…».

    «Shazi!». Irsa intervenne per ammansire l’uomo. «Vi prego di perdonare mia…».

    Il soldato sospinse Irsa da una parte. Senza pensarci due volte, Shahrzad lo colpì sul petto con entrambi i pugni. L’uomo vacillò lievemente, le narici dilatate dalla collera. Shahrzad udì delle grida alle proprie spalle.

    «Ma che ti prende, Shahrzad!», urlò Irsa, il suo volto una maschera di stupore per l’avventatezza di sua sorella.

    La guardia afferrò Shahrzad per l’avambraccio. La ragazza si preparò al combattimento, dita dei piedi in tensione e pugni serrati.

    «Lasciala immediatamente!». Un’ombra si profilò sul soldato, lunga e incombente.

    Fantastico.

    Shahrzad fece una smorfia, un lampo di rimorso squarciò il mare della sua collera.

    «Non mi serve il tuo aiuto, Tariq», disse a denti stretti.

    «Non ti sto aiutando». Il ragazzo le si fece più vicino, scagliandole un’occhiata rapida ma eloquente. Il dolore che Shahrzad gli vide sul volto fu sufficiente a privarla di tutta la sua arditezza.

    Riuscirà mai a perdonarmi?

    La guardia si voltò verso Tariq con una deferenza che in un altro contesto l’avrebbe irritata profondamente. «Vi porgo le mie scuse, sahib, ma si è rifiutata di…».

    «Lasciala, ho detto. Non mi interessano le scuse. Obbedisci agli ordini, soldato, o ne pagherai le conseguenze».

    L’uomo la lasciò andare con riluttanza. Shahrzad si allontanò di scatto e si voltò a guardare le persone che erano sopraggiunte. Tariq era affiancato da Rahim e da alcuni altri giovani, fra i quali un fanciullo magro come un filo d’erba che indossava degli abiti da adulto. Aveva un viso lungo e affusolato punteggiato da sparuti ciuffetti di barba e due occhi glaciali sormontati da un paio di sopracciglia corrugate. Quegli occhi la fissavano con aperto disprezzo.

    Le dita di Shahrzad si mossero verso il pugnale.

    «Grazie, Tariq», disse Irsa, dal momento che Shahrzad non sembrava intenzionata a dimostrare alcuna gratitudine.

    «Nessun problema», replicò lui con uno strano cenno del capo.

    Shahrzad si morse l’interno della guancia. «Io…».

    «Non disturbarti, Shazi. Fra noi non occorrono inutili convenevoli». Detto questo, Tariq si rimise il cappuccio del rida’ e si infilò nella tenda, come se non volesse restare con lei un secondo di più. Il ragazzo dagli occhi glaciali le lanciò un’occhiataccia e seguì Tariq all’interno. Rahim le si fermò davanti, scuro in volto, e la osservò con un’espressione che sembrava dire che da lei si sarebbe aspettato di più. Dopodiché si avvicinò a Irsa con la testa piegata da una parte, interrogativo. La ragazza gli scoccò un mezzo sorriso e Rahim varcò la soglia della tenda con un sospiro, senza proferire parola.

    Irsa sferrò una gomitata nelle costole alla sorella. «Cosa ti ha preso?», la redarguì sottovoce. «Siamo ospiti in questo posto, non puoi comportarti così».

    Abbacchiata, Shahrzad annuì bruscamente ed entrò nella tenda.

    Impiegò alcuni istanti per abituarsi all’improvvisa oscurità. Alle travi che sostenevano la copertura erano appese delle lanterne di ottone, la loro luce pallida in confronto a quella del sole del deserto. In fondo alla tenda era collocato un tavolo di legno grezzo basso e lungo. Il pavimento era punteggiato da disordinate pile di cuscini di lana. Gruppetti di bambini urlanti sfrecciarono accanto a Shahrzad, intenzionati ad accaparrarsi il posto migliore al tavolo della colazione.

    Al centro di quel caos stava seduto un uomo attempato con una barba incolta e un paio d’occhietti vispi. Quando la vide, le rivolse un sorriso sorprendentemente caloroso. Alla sinistra dell’uomo stava una donna che doveva avere all’incirca la sua stessa età, con una lunga treccia di uno sbiadito color rame. Alla destra dell’anziano era invece seduto il padre di Shiva, Reza bin-Latief. Shahrzad avvertì una stretta allo stomaco provocata dal senso di colpa. Lo aveva intravisto anche la notte precedente, ma nel trambusto dell’arrivo non avevano avuto modo di parlare; Shahrzad non era sicura di essere pronta ad affrontare il padre di Shiva.

    Era trascorso troppo poco tempo da quando si era dimostrata incapace di esigere la giusta vendetta per la morte di sua figlia.

    Era trascorso troppo poco tempo da quando Shahrzad si era innamorata del ragazzo che l’aveva assassinata.

    Non era il caso di attirare attenzioni indesiderate, perciò Shahrzad tenne la testa bassa e andò a sedersi sul cuscino accanto a Irsa, di fronte a Tariq e Rahim.

    Evitò di incrociare lo sguardo delle persone che aveva intorno, specialmente quello del fanciullo con gli occhi di ghiaccio, che non perdeva occasione di lanciarle delle fastidiose occhiatine ostili. Shahrzad aveva una gran voglia di denunciare pubblicamente l’atteggiamento impudente di quel ragazzo, ma l’ammonizione di Irsa conteneva un’indiscutibile verità: in quel posto erano delle ospiti.

    E non potevano comportarsi avventatamente.

    Non con il benessere della loro famiglia in ballo.

    Al centro del piano usurato del tavolo venne sistemato un immenso vassoio d’argento pieno di ammaccature con una coscia di agnello arrosto. Vennero poi distribuiti dei cestini ricolmi di fette di pane barbari ai semi di sesamo imburrate e delle ciotole sbeccate piene di ravanelli e pezzi di formaggio di capra salato.

    Bambini urlanti agguantavano mazzetti di ravanelli e staccavano grossi pezzi di barbari prima di avventarsi sulla carne a mani nude. Gli adulti sminuzzavano nelle tazze profumati gambi di menta fresca che poi inondavano con delle scure cascate di tè caldo.

    Quando Shahrzad si azzardò ad alzare lo sguardo si accorse che l’anziano con gli occhi vispi la stava fissando, un altro sorriso caloroso sulle labbra. Gli incisivi eccessivamente distanziati gli conferivano un’aria da sciocco.

    Ma Shahrzad non si lasciò ingannare da quella prima impressione.

    «Dunque, amico mio… è questa Shahrzad», disse il vecchio.

    Con chi parla?

    «Avevo ragione…», proseguì l’uomo prorompendo in una fragorosa risata. «È bellissima».

    Gli occhi di Shahrzad guizzarono da un capo all’altro della tavolata, e si fermarono su Tariq.

    Le sue ampie spalle erano rigide, la mascella squadrata serrata. Espirò dal naso e incrociò il suo sguardo.

    «È vero», ammise Tariq, rassegnato.

    Il vecchio voltò la testa verso Shahrzad. «Avete causato parecchi problemi, bellezza».

    Nonostante la rassicurante mano di Irsa posata sulla propria, quel commento rinfocolò la collera di Shahrzad come una fonte di calore con dei tizzoni ancora ardenti.

    Consapevole della sua momentanea mancanza di grazia, Shahrzad decise di non rispondere. Si arrotolò la lingua in bocca e si mordicchiò il labbro inferiore.

    Sono un’ospite. Non posso comportarmi come desidero.

    Nemmeno se mi sento sola e arrabbiata.

    Il vecchio le rivolse un altro sorriso. Ancora più ampio e sdentato.

    Snervante.

    «Ne vale la pena?».

    Shahrzad si schiarì la gola. «Come, prego?», disse, cercando di tenere a freno le proprie emozioni.

    Il ragazzo con gli occhi di ghiaccio osservava la scena con la rapita concentrazione di un falco.

    «Vale la pena di sopportare tutti questi problemi solo per voi, bellezza?», ripeté il vecchio, intonando la domanda in un’irritante cantilena.

    Irsa strinse le dita della sorella nel palmo sudato, supplicandola tacitamente di mantenere la calma.

    Shahrzad non poteva mettere a repentaglio l’incolumità di sua sorella. Non in un accampamento pieno di sconosciuti. Sconosciuti che potevano decidere di abbandonare la sua famiglia nel deserto anche solo per una parola sbagliata. O tagliare le loro gole per uno sguardo di troppo. No. Shahrzad non poteva mettere in pericolo la precaria salute del padre. Neanche per sogno.

    Sorrise lentamente, prendendosi il tempo di cui aveva bisogno per imbrigliare la collera. «Credo che la bellezza non meriti tante attenzioni». Shahrzad strinse forte la mano di Irsa, in cerca di un supporto fraterno. «Ma io valgo molto di più di ciò che

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