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Il ragazzo della porta accanto
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E-book394 pagine6 ore

Il ragazzo della porta accanto

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Info su questo ebook

«Un esordio straordinario.» Alexandra Burt autrice di Giovane ragazza scomparsa

Aveva una vita perfetta e lui non ne faceva parte

Cecilia Wilborg vive insieme al marito affettuoso e alle due bellissime figlie nella cittadina norvegese di Sandefjord. Sa bene che deve stare molto attenta, perché un errore commesso in passato potrebbe mandare in frantumi in un solo istante la sua esistenza così serena. Annika Lucasson si arrangia come può. La vita per lei è tutt’altro che tranquilla: il compagno è uno spacciatore e un uomo violento. Annika conosce il segreto di Cecilia e non dubita che una come lei sia disposta a fare qualunque cosa perché rimanga sepolto. Il mondo di Cecilia comincia a scricchiolare quando qualcuno dimentica di andare a prendere un bambino alla piscina locale. Cecilia si offre di riaccompagnarlo, ma quando arriva a casa sua quel che trova è un posto vuoto e abbandonato. Tobias è davvero un ragazzino fragile e innocente come appare? E perché la vita di Cecilia rischia di scontrarsi pericolosamente con quella di Annika?

Una famiglia serena e rispettabile.
Una tranquilla cittadina scandinava, dove non è mai successo niente di male.
Una rete di bugie densa e quasi impenetrabile.

«Una trama intricata, con una magistrale costruzione che soddisferà sicuramente i lettori di thriller.»
Booklist

«Questo romanzo è un esordio straordinario. L’autrice ha escogitato una trama favolosa, piena di intrighi, colpi di scena e segreti oscuri che emergono in ogni pagina.»
Alexandra Burt, autrice del bestseller Giovane ragazza scomparsa
Alex Dahl
è di origine americana e norvegese. È nata a Oslo, si è laureata in lingua russa e tedesca  all’università di Bath ed è autrice di numerosi racconti pubblicati nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Il ragazzo della porta accanto è il suo thriller d’esordio, venduto in sei Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2018
ISBN9788822727077
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    Anteprima del libro

    Il ragazzo della porta accanto - Alex Dahl

    2122

    Titolo originale: The Boy At The Door

    Copyright © Alexandria Bockfeldt-Dahl 2018

    Traduzione dall’inglese di Mariacristina Cesa

    Prima edizione: gennaio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2707-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Alex Dahl

    Il ragazzo della porta accanto

    Indice

    Prima parte

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Seconda parte

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Terza Parte

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciasette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Epilogo

    I

    II

    Ringraziamenti

    A Oscar e Anastasia, con amore

    Prima parte

    Capitolo uno

    Martedì: mi sveglio già di pessimo umore. Mi capita spesso, a dire la verità, ma oggi è peggio del solito. Tanto per cominciare perché mi sveglio sola – Johan è partito per Londra per la terza volta in un mese – e, secondo, perché è ottobre e sarà buio totale fin quasi alle nove. Esco dal letto riluttante e, per un po’, resto alla finestra a guardare il porto. Non sono ancora le sette ma, dall’altra parte della baia, una fila di auto avanza lentamente verso l’autostrada. Lo specchio d’acqua sotto un sottile e inquietante strato di ghiaccio riflette opaco la luce della luna. Al piano di sotto le mie figlie hanno già iniziato a litigare. Ho il telefono pieno di messaggi e di chiamate perse, ma non ce la faccio ad affrontarli adesso. Con tutto quello che sta accadendo, non sono quasi mai passata in ufficio la scorsa settimana, ci dovrò andare stamattina.

    Faccio un paio di respiri esageratamente profondi con lo sguardo fisso sulla luna ancora alta nel cielo; consapevolezza: è questa la via da seguire, dicono. Cerco di pensare a Sandefjord d’estate, quando a tarda sera c’è ancora luce ed è davvero una gioia restarsene qui alla finestra a guardare il porto interno, mite e calmo, pieno di barchette. Abbiamo più sole rispetto a qualsiasi altra parte della Norvegia, ma devo dire che gli inverni sono particolarmente umidi e scialbi. Stando alle previsioni, oggi pomeriggio dobbiamo aspettarci altri rovesci di pioggia torrenziale ma, per il momento, è fresco e sereno. Faccio un altro paio di respiri profondi per darmi forza sufficiente ad affrontare la giornata. Credo che a tutti a volte capiti di percepire il mondo come un luogo oscuro.

    Nel mio universo il martedì è un giorno del cavolo. Soprattutto adesso che Marialuz ha deciso di lasciarci a metà del suo contratto e mi ritrovo senza au pair. Sembra proprio di non poter vincere con queste persone. Non è che ami particolarmente avere un’estranea in giro per casa, ma neanche mi piace dover fare tutto da sola. Non è possibile e basta. Soprattutto il martedì, quando le bambine hanno le attività pomeridiane in due zone opposte della città. Nicoline ha danza alle cinque e Hermine nuoto alle sei. Dato che Nicoline finisce alle sei e mezza, devo andare a prenderla con la macchina e riportarla in piscina dove, sedute su orribili sedie di plastica, guardiamo i bambini fare su e giù nell’acqua fino alle sette e un quarto. Nicoline frigna per tutta la mezz’ora in cui dobbiamo stare lì, a meno che non le lasci guardare i tutorial di trucco su YouTube dal mio telefono o le compri le caramelle. Cosa che faccio, ovviamente.

    Stasera sono particolarmente stressata, irritabile, perché al lavoro le cose non sono andate esattamente secondo i piani. Per i miei clienti mi faccio in quattro, a volte nel vero senso della parola, e hanno comunque da ridire. Angela Salomonson ha avuto il coraggio di mandarmi un’email oggi per dirmi che i cuscini di seta grezza viola che le ho fatto fare a mano a Lione sembrano grigio tortora alla particolare luce della sua veranda e mi chiede di chiamarla immediatamente per discuterne. Ecco con che cosa deve avere a che fare una interior designer di una benestante cittadina piena di mogli viziate e annoiate. A volte penso che sia un miracolo perfino che riesca a lavorare, considerando che ho due bambine piccole, un marito sempre in viaggio e nessuna au pair. Non è che abbia bisogno di lavorare, ma mi piace quello che faccio e una come me costa. E poi, nella mia cerchia, viene considerato da pigri stare a casa. A meno che non gestisca un’attività di cupcake dal tavolo della cucina e ci crei un blog, e non è il mio caso, dato che odio sia i cupcake che i blog.

    Fuori piove forte e, mentre osservo le scariche d’acqua rovesciarsi contro le finestre a tutta parete al di là della piscina, mi rendo conto di non ricordare l’ultimo giorno in cui non è piovuto. Immagino che a ottobre sia così praticamente ovunque, ma sono quel tipo di persona che soffre particolarmente i cieli tetri e il vento umido – sono un Toro e preferisco essere sempre circondata dalla bellezza.

    Mentre i bambini si mettono in fila al trampolino da un metro, uno di loro attira il mio sguardo. Non so bene perché. È più minuto rispetto agli altri e ha una pelle liscia e profondamente olivastra. Dondola su e giù sui talloni e si strofina le braccia, ma il viso è totalmente privo dell’espressione buffa che hanno gli altri in attesa del loro turno. Sembra impaurito. Mi guardo intorno scrutando i genitori in attesa nella stanza umida e surriscaldata, per provare a individuare i suoi – non ricordo di averlo mai visto. C’è la madre di Sara la cicciottella, quella grassa con cui cerco sempre di non parlare… ho sentito dire che ha un grande bisogno di amiche e l’ultima cosa che voglio è ritrovarmi attaccata una mamma amica. C’è il padre di Emrik – un bell’uomo che veniva a scuola con me e che ora è poliziotto, e al quale ogni tanto getto un’occhiata per poi distogliere subito lo sguardo. Riesco a sentire i suoi occhi su di me adesso, ma aspetto dieci secondi più di quanto vorrei prima di incontrarli. Gli rivolgo un leggerissimo sorriso che ricambia immediatamente, come un cagnolino riconoscente. Sono una brava ragazza ormai, anche se non mi riesce facile; sono finiti i tempi del brivido di eccitazione a questi giochetti, quando magari avrei allentato il primo bottone della camicetta muovendo lentamente la lingua dietro i denti. Passo in rassegna i pochi adulti rimasti in cerca dei genitori del bambino, ora ignorando volutamente lo sguardo voglioso del padre di Emrik.

    Ci sono i nonni di Amalie, l’amica del cuore di Hermine, seduti uno di fianco all’altra a mangiare biscotti da una vecchia e scolorita scatola di latta rossa. C’è anche una donna slanciata, dai capelli ramati, seduta accanto alla porta, il petto bianco ricoperto di lentiggini accaldato e arrossato. Sta guardando attentamente il bambino, quindi immagino che debba essere la madre, ma mi sorprende che abbia avuto un figlio con qualcuno di etnia diversa; se il bambino è così scuro, il padre deve esserlo ancora di più e, a prima vista, questa donna non mi dà l’idea di una con gusti così esotici.

    Non c’è nessun altro; immagino che molti siano in macchina, preferendo di gran lunga la lettura del giornale nel loro bozzolo battuto dalla pioggia alle vocine stridule dei bambini che fendono l’aria calda e umidiccia.

    Alla fine, la lezione si conclude con due tentativi di tuffo alquanto deludenti e Hermine viene dove sediamo io e Nicoline.

    «Lo avete visto?». Sorride raggiante mostrando uno squarcio carnoso dove sei denti sono caduti contemporaneamente.

    «Fantastico», dico alzandomi in piedi, raccogliendo le cose e toccando Nicoline, che sta guardando una ragazzina americana di dieci anni che applica uno spesso strato di fondotinta prima di un esperto contouring sul viso elfico. «Sbrigati a cambiarti. Ti aspettiamo nell’atrio».

    Ma Hermine non si sbriga affatto, così Nicoline e io restiamo impazienti in quello spazio rivestito di mattonelle a fissare le colonne di pioggia che fanno avanti e indietro nel parcheggio come ballerini sulla pista. Continuo a controllare l’orologio e sono le sette e mezza passate quando ricompare, i capelli appena fonati e un velo di lucidalabbra rosa nonostante stia praticamente per affrontare il guado di un torrente.

    Riesco quasi a percepire tra le dita il sottile stelo del calice di vino, e l’idea di dover ancora avere a che fare con le bambine per oggi mi rende leggermente isterica. Cominciano a discutere su chissà cosa appena varchiamo la soglia e, tra le loro voci acute e lo scrosciare della pioggia, sento l’altra voce solo dopo aver già fatto diversi passi. Mi giro appena ed è la segretaria, una donna di mezza età dal viso stanco, riccioli grigi e una felpa con su scritto: Felice Halloween. Mi chiama a gran voce in mezzo al diluvio, facendomi cenno di tornare dentro… un classico: evidentemente una delle bambine ha dimenticato qualcosa.

    «Cecilia, giusto?», chiede mentre rientro, ormai fradicia. Noto di nuovo il bambino, quello che mi aveva colpito in piscina. È seduto su una panca con lo sguardo fisso a terra e i capelli che gocciolano sulle mattonelle scure.

    «Sì?»

    «Ecco… mi chiedevo se potesse accompagnare a casa questo bambino. Non è venuto nessuno a riprenderlo».

    «Che significa che non è venuto nessuno?».

    La donna mi si avvicina accanto alla porta e abbassa la voce in un sussurro, indicando la panca.

    «Forse c’è stato un malinteso… Sa dove abita. A Østerøya. Ho controllato sulla lista e non sembra molto distante da dove siete voi».

    «Mi spiace, ma mi è scomodo», dico ora guardando quasi con desiderio la notte scura e umida. «Non c’è nessun altro che potrebbe riaccompagnarlo? C’era una donna dentro, pensavo fosse la madre».

    «Temo di no. Sono andati via tutti». Accidenti a Hermine e al suo phon.

    «Ha chiamato i suoi genitori?»

    «Sì, ma al numero che mi ha dato risponde sempre la segreteria».

    «Non può prendere un autobus o qualcosa?». La segretaria mi rivolge uno sguardo leggermente freddo, che poi punta in modo eloquente verso il diluvio all’esterno.

    Nicoline e Hermine fissano a bocca aperta prima il bambino, poi la segretaria e infine me. L’idea che nessuno venga a prenderti alla fine delle attività sportive è chiaramente impensabile per loro, e hanno ragione, infatti. Che razza di genitore è chi non va a riprendere il figlio in piscina? A certa gente dovrebbe essere impedito di procreare, tanto per cominciare.

    «Va bene», dico. «Certo che lo accompagno». Guardo il bambino aspettandomi di vederlo saltare in piedi e seguirci alla macchina, invece rimane in silenzio a fissare il pavimento.

    «Non l’ho mai visto prima», dico alla segretaria. «Come si chiama?»

    «Tobias», risponde. «Ha iniziato solo qualche settimana fa. Ha otto anni, ma dato che è piccolo per la sua età e non sa nuotare molto bene, l’abbiamo spostato nel gruppo dei sette anni».

    «Capisco». Cerco di non pensare alla mezz’ora aggiuntiva che mi costerà il casino dei suoi genitori, né al mio enorme bicchiere di Chablis davanti al fuoco prima del ritorno di Johan. Mi avvicino a dove è seduto.

    «Andiamo», gli dico, ma subito mi rendo conto del mio tono brusco. Mi inginocchio accanto a lui e, solo allora, alza gli occhi e mi guarda. Sembra un passerotto, con occhietti nervosi e agitati, ma ha un viso dolce e morbido, incorniciato da sopracciglia scure e definite. È minuto, sembra impossibile che abbia un anno di più della mia Hermine, così alta e solida. C’è qualcosa di serio e poco infantile in lui che per un attimo mi sconcerta ma che, subito dopo, attribuisco all’essere cresciuto in una famiglia in cui ci si dimentica di andare a prendere in piscina un bambino di otto anni, a ottobre, in una serata di pioggia e freddo cane. «Vieni», gli dico, ora più dolcemente. Non prende la mano che gli tendo, ma si alza e raccoglie le sue cose.

    In macchina, per una volta, le bambine sono in assoluto silenzio e l’unico rumore è quello ripetitivo e rapido dei tergicristalli. Nicoline siede davanti, accanto a me, e fissa le luci intermittenti del porto mentre attraversiamo la città in direzione di Østerøya. Dallo specchietto vedo che Hermine sta guardando pensierosa il visetto pallido di Tobias, girato verso il finestrino, per poi iniziare a disegnare sagome sulla condensa: cuori trafitti da frecce, le sue iniziali H.W., coniglietti dal viso sorridente.

    «Mamma?», fa Nicoline.

    «Sì?»

    «Puoi lasciarci a casa prima di riaccompagnarlo?».

    Casa nostra è a due minuti soltanto e non sarebbe male per le bambine avvantaggiarsi con la routine serale. «Certo. Però non c’è ancora papà a casa. Atterra alle dieci».

    «Okay».

    «Mi ci vorrà una ventina di minuti, per cui intanto potete mettervi il pigiama e lavarvi i denti». Svolto nel lungo vialetto e quando appare la villa torno a guardare il bambino. Casa nostra fa di sicuro un certo effetto con il suo tetto nero, la morbida luce dietro le numerose finestre, il triplo garage e la piscina che si intravede attraverso le siepi, la vista panoramica sul mare e l’accogliente porta rossa. Mi chiedo se sia mai stato in un’abitazione del genere prima d’ora, ma la sua espressione neutrale non tradisce nulla. Di nuovo in strada, cerco di fare un po’ di conversazione.

    «Allora, a che scuola vai?».

    Silenzio.

    «Tobias?».

    Silenzio.

    «Vai in… ehm, seconda? Terza?».

    Silenzio. Rinuncio.

    Accosto davanti al numero 8 di Østerøysvingen, l’indirizzo che la segretaria mi ha scritto sul retro di un biglietto da visita del Sandefjord Svømmerklubb, ma non sembra esserci nulla. Guardo di nuovo Tobias, ma è immobile, come se non fosse mai stato qui.

    «Tobias? È qui che abiti?». Annuisce lentamente, e alla fine, attraverso il buio e la pioggia, individuo la sagoma di una costruzione un po’ distante dalla strada, sopra una rupe rocciosa. «Okay, allora ciao», dico, ma non si muove.

    «Ehm, vuoi che ti accompagni alla porta?». Lentamente, alza gli occhi nei miei, e c’è qualcosa nel modo in cui mi guarda che mi inquieta. Annuisce. Distolgo lo sguardo, di nuovo verso quella che sembra un’angusta casetta di legno, maledicendo il corso degli eventi. Potrei già essere a casa, i piedi sul mio nuovo sgabello InDesign, un calice di vino frizzante in mano, «Scandinavian Homes» da sfogliare, il cachemire Missoni sulle gambe, il crepitio del fuoco e l’ululato del vento. Invece sto qui sotto la pioggia scrosciante con un inquietante ragazzino muto, alla ricerca dei suoi genitori. Corro dall’auto su per un sentierino di ghiaia verso la porta di casa, il bambino al seguito, apparentemente indifferente ai rovesci di acqua gelida. Busso a quella fragile porta blu con la vernice scrostata che però si apre, evidentemente non chiusa a dovere. Un rimbombo sovrasta la pioggia martellante e non riesco a capire se venga dal mio cuore o da qualcosa dentro la casa.

    «Permesso?», dico ad alta voce fingendo sicurezza e aprendo del tutto il battente. La porta dà direttamente sul soggiorno, ma appare chiaro che è una casa disabitata – non ci sono mobili se non la struttura di legno di un divano al centro della stanza. Ci sono mucchi di polvere ovunque, ragnatele che pendono dall’alto, muffa negli angoli ed escrementi di topo sparsi. Mi giro di scatto verso il bambino sulla soglia, senza più alcun dubbio che il rimbombo che sento venga dal mio cuore.

    «Tobias», dico prendendolo per le esili spalle. «È casa tua questa?». Annuisce.

    «Dove sono i tuoi genitori?». Nessuna reazione.

    «Tobias, guardami! Mi devi spiegare cosa sta succedendo! Abiti in questa casa? A me sembra che non ci viva proprio nessuno qui». Ancora non risponde, ma seguo il suo sguardo su per una scala stretta. Corro al piano di sopra, i passi riecheggiano nello spazio vuoto e cavo. Rabbrividisco al pensiero di quel bambino al piano di sotto, al buio, da solo. Per un breve istante sono riconoscente per le mie stesse figlie. Pur con tutti i loro difetti e il costante fastidio dei litigi infiniti, non hanno niente a che vedere con la stramberia di questo ragazzino.

    In cima alla scala c’è una lampada Ikea bianca, pulita a vedersi, staccata ma, a quanto pare, messa da poco in mezzo alla polvere. La attacco e quando si accende mi guardo intorno. Ci sono due camere da una parte e dall’altra della scala e un piccolo lavandino. In una delle due c’è un materasso sporco, appoggiato alla parete e, nell’angolo, un sacco della spazzatura strapieno di abiti. Nell’altra, un materasso più piccolo accanto alla finestra e una cartolina attaccata al muro con un chiodo: Cracovia. La giro, ma non c’è scritto niente.

    Al piano di sotto, Tobias è dove l’ho lasciato, immobile sulla porta, non si guarda minimamente intorno. Mi inginocchio davanti a lui, determinata a comunicare.

    «Tobias, devi dirmi cosa sta succedendo, ora. Tu vivi in questa casa?». Annuisce.

    «Dove sono i tuoi genitori, Tobias?». Nessuna risposta.

    «Ascolta, adesso chiamo la polizia».

    «No!». Quel grido mi sorprende nella sua potenza. Visto il tipo fisico, mi sarei immaginata un debole miagolio.

    «Ma devo, Tobias. Ovviamente non posso lasciarti in questa… casa vuota. Dove sono i tuoi genitori, tesoro?». Faccio per prendere il telefono dalla tasca, ma poi mi ricordo che l’ho lasciato a Nicoline.

    «Senti, adesso torniamo a casa mia a fare qualche telefonata. Non devi preoccuparti, Tobias. Sei un bambino e non hai fatto niente di male. Deve sicuramente trattarsi di qualche malinteso. Okay?». Scuote il capo deciso e la sua espressione indifferente di poco prima è sostituita da uno sguardo torvo. Mi rialzo in piedi e gli prendo la mano, che è umida e fredda. «Dài, tesoro, andrà tutto bene. Ti aiuto io». Mi guarda fisso e annuisce appena, gli occhi tristi e distanti.

    A casa, parcheggio fuori dal garage perché sicuramente il resto della serata mi vedrà impegnata ad accompagnare questo ragazzino disgraziato dovunque la polizia scoprirà che sono i suoi genitori, perché, poco ma sicuro, non sono nella loro catapecchia. Spengo il motore, do una rapida occhiata nel retrovisore e resto di sale, la mano sulla maniglia. Tobias sta piangendo in silenzio, i lacrimoni indugiano per un attimo sul mento prima di cadere sui jeans già fradici.

    «Ehi…», dico. «Ehi… vieni dentro. Ti preparo una cioccolata calda e puoi guardare un film con le mie bambine mentre troviamo una soluzione, okay?». Mi sembra che scuota il capo, ma i suoi singhiozzi sono così violenti che temo stia tremando in tutto il corpo.

    «Per favore», sussurra alla fine. «Per favore, posso stare qui stanotte? Solo stanotte? Loro torneranno domani. Giuro. Giuro! Solo stanotte! Per favore, non chiami la polizia!».

    «Ma, Tobias, dove sono? E chi sono loro? I tuoi genitori?»

    «Sì».

    «Dove sono?»

    «Tornano domani».

    «E come lo sai?»

    «Me l’hanno detto». A queste parole, sospiro esasperata. A giudicare dallo stato del loro alloggio, non mi fiderei di ciò che dicono.

    «Per favore», ripete, e c’è qualcosa di così urgente e schietto nei suoi occhi che esito prima di rispondere. Devo dire di no. Non può restare qui come se niente fosse. Sarà sicuramente illegale tenersi un bambino a dormire senza perlomeno avvertire le autorità. Dovrei chiamarli ora e verrebbero subito; uomini e donne, aspetto serio e valigetta, seduti nel mio salotto per tutta la notte a fare domande a un bambino perlopiù muto. Telefonate, pianti, implorazioni, l’espressione sgomenta di Johan al ritorno dall’aeroporto tra due ore scarse. Oppure… oppure sistemarlo nella stanza degli ospiti, solo per stanotte, lasciarlo a scuola domattina presto e fine. A quel punto, se i genitori non dovessero tornare, se ne occuperà la scuola stessa.

    «Okay», dico. «Certo che puoi restare stanotte. Ma solo stanotte». Annuisce e mi rivolge un sorrisetto tirato, mentre saliamo gli ultimi gradini. Accanto alla porta d’ingresso c’è appeso un cuore di legno, fatto e dipinto da Nicoline, che dice: Benvenuti dalla famiglia Wilborg!. Tobias si ferma lì davanti a lungo, e qualcosa nella sua espressione seria e concentrata mi destabilizza. C’è dell’altro: qualcosa nel suo sorriso, di conosciuto, di già visto. La cittadina è piccola. Potrei averlo incontrato ovunque, in qualsiasi momento. Non è così strano. Ma in quel sorriso c’è qualcosa, qualcosa di… familiare.

    «Benvenuto». Gli tengo aperta la porta con un sorriso rigido e, con un cenno di assenso, Tobias entra.

    A volte mi sveglio nelle ore più tranquille della notte, quando la casa sembra ronzare delicatamente in tutta la sua dolce normalità, e allora vado a stare per un po’ nella camera di una delle bambine dall’altra parte del corridoio. Resto ferma ad ascoltare il ritmo lento e dolce del suo respiro. Nonostante l’inferno che mi fanno passare certe volte e il costo astronomico di essere una delle tante madri lavoratrici che cercano di conciliare tutto quanto, provo una profonda gratitudine per averle avute. Che qualcuno di così perfetto e meraviglioso come queste due abbia scelto di nascere proprio da me e Johan è stupefacente.

    Hermine è una contestatrice nata, di lingua tagliente e di una bellezza assoluta. È arguta e indipendente, maestra di sarcasmo da quando è piccola. Nicoline ha preso l’innata delicatezza di modi e pensieri di Johan, e non lo dico per dire, perché nessun altro in famiglia è così assolutamente e semplicemente gentile come quei due. Nicoline vuole che andiamo sempre tutti d’accordo e percepisce facilmente quando qualcosa non va per il verso giusto. Un giorno sarà una madre eccezionale, di quelle che vivono per i visetti lucidi, sporchi e incrostati di zucchero. Il genere di madre che io non sono.

    Amo le mie bambine, enormemente, ma spesso le mie intenzioni non vanno di pari passo con la pratica. Voglio essere la madre che legge favole per ore dopo aver trascorso il pomeriggio a infornare biscotti a forma di unicorno lucidi, rosa e senza glutine. Voglio essere la madre con una perenne espressione tranquilla e armoniosa, anche quando gridano: «Mamma!», per la settima volta… in un minuto. «Mamma, mamma, mamma!». «Sì», voglio dire sorridendo, «eccomi». Distributore di agi, negozio unico di cibo, divertimento e rassicurazioni a volontà. Ma il più delle volte non lo sono. Io sono la madre che fantastica di piscine di champagne a Mala Beach, che vuole distruggere tutto quando gridano e litigano, quella la cui pazienza materna semplicemente non c’è.

    Ma le adoro. Soprattutto in quelle ore silenziose e buie, quando le loro espressioni sono vulnerabili e nude alla luce della luna, il respiro libero e pacifico, le manine chiuse sul mento di un viso indifeso, quasi al limitare dell’infanzia.

    Stanotte è tutto diverso. Me ne resto per ore stesa a letto, incapace di dormire, concentrandomi per sincronizzare il respiro con quello dolce e regolare di Johan. Una parte di me vuole alzarsi e andare dalle bambine, per essere certa che siano là, al sicuro. Voglio vagare silenziosamente per la casa, accertarmi che sia tutto okay, che sia tutto come deve essere, ma non lo faccio, perché stanotte ogni cosa è diversa e inusuale e so che scoppierei a piangere se mi muovessi anche solo di un centimetro.

    Capitolo due

    Qui a Sandefjord abbiamo tutto. O meglio, non abbiamo niente ed è proprio questo il punto, secondo me. Non abbiamo nessuna di quelle indesiderabili componenti che rendono la vita difficile in altri luoghi: inquinamento, povertà, crisi degli alloggi, elevato tasso di criminalità, problemi di immigrazione – e potrei continuare all’infinito. Non è un luogo in cui spuntano dal nulla bambini con occhi vuoti, senza genitori e nient’altro che un costume di Batman e un logoro asciugamano celeste in una busta di plastica. Sandefjord non è mai stato un posto così. Finora.

    È il tipico luogo in cui tutti vorrebbero vivere. Paesaggio da cartolina, comodo e riparato dal suo fiordo, che attira il malocchio delle altre località meno attrattive. Non posso biasimarli, ovviamente, non è da tutti avere il privilegio di vivere in un posto come questo. Qui tutti hanno una bella casa di proprietà, una macchina nuova in garage, un lavoro ben retribuito, diverse vacanze all’estero ogni anno e anche una casetta in montagna. Tutti quelli che conosco, perlomeno.

    La telefonata è arrivata all’ora di pranzo. Avevo appena iniziato a rilassarmi dopo gli ultimi eventi e, sebbene fossi in ufficio da circa un’ora, avevo deciso di anticipare la pausa pranzo per potermi fare le extension alle ciglia – a Johan piacciono. Mentre mi avviavo dall’ufficio a Kilen, oltre la pescheria e le barche tirate in secca per l’inverno, oltre l’acqua grigio ferro del porto interno, mi sembrava che tutta la città rispecchiasse il mio stato d’animo: freddo e consumato da tutta quella pioggia. Camminando ho controllato il telefono un paio di volte, non so bene perché. E poi, quando ero distesa sul lettino e la ragazza stava accuratamente lavorando sulle mie nuove, morbidissime ciglia, ho sentito vibrare il telefono dentro la borsa. In continuazione. Non andava, non ci poteva essere niente di così urgente da meritare continui tentativi di chiamata. La ragazza delle extension si era fermata un attimo per chiedermi se volevo rispondere. «No», ho ribattuto, cercando di scacciare le ondate di fastidio. Forse, in un certo senso, già sapevo ciò che so ora?

    «Cecilia Wilborg?», ha detto una morbida voce femminile quando ho risposto al sesto tentativo, di ritorno dal salone di bellezza in quella giornata uggiosa.

    «Sì?»

    «Salve, sono Vera Jensrud e la chiamo dalla scuola Østerøyparken. Sono felice di essere riuscita a contattarla. Trovare il suo numero non è stato facilissimo. Ma forse immagina il motivo della mia chiamata».

    «Mi spiace, no. In effetti, ehm, sono impegnata in questo momento», ho mentito tirandomi una pellicina. «In cosa posso aiutarla?»

    «È vero che ha accompagnato a scuola un bambino stamattina?»

    «Sì. Sì, è vero».

    «Posso chiederle in che rapporti è con questo bambino, signora Wilborg?»

    «Nessuno. Di nessun genere. Ora mi scusi, ma devo…».

    Vera Jensrud mi ha interrotto. «Ma Tobias vive con lei e la sua famiglia, giusto?».

    Sono scoppiata a ridere, uno starnazzare eccessivo e indignato. «Prego?»

    «Senta, il bambino non frequenta questa scuola».

    «E quale allora?»

    «Non lo sappiamo. Rifiuta di dircelo. Le lascio immaginare che problema sia stato per tutti, più che altro, naturalmente, per il bambino. A questo punto dobbiamo stabilire immediatamente chi è e a chi appartiene e l’unica cosa che siamo riusciti a tirargli fuori è che vive con lei».

    Con una rapida occhiata all’edificio in cui lavoro, ho cercato di trattenermi dal gridare. «Non vive affatto con me! Non lo conosco!».

    «Ma non l’ha accompagnato lei stamattina?»

    «Be’, sì, ma l’ho visto per la prima volta ieri sera».

    «Bene». Vera Jensrud sembrava combattuta tra il credere a un ragazzino mezzo muto o a me. «Aspetti. Dice di averlo conosciuto ieri sera? Ma è rimasto a casa sua?».

    Ho esitato. La paura iniziava a filtrarmi in ogni poro, fredda e orribile come veleno. Il vento mi tirava la giacca e ho fatto di corsa il breve tragitto verso l’ufficio. «Sì, senta, è una situazione molto strana. Mi ha detto che frequentava quella scuola, quindi ho immaginato che la cosa migliore fosse accompa­gnarlo lì».

    «Ma avrà parlato con i suoi genitori ieri sera prima di portarlo a casa… È per questo che la sto chiamando, in realtà: per caso sa come poterli contattare?»

    «Ecco… ehm… La signora della piscina ha cercato più volte di telefonare, ma non hanno mai risposto».

    «E quando ci ha provato lei, da casa sua?»

    «Ecco… non l’ho fatto. Tobias mi ha chiesto esplicitamente di non farlo».

    «Signora Wilborg, si tratta di un bambino di otto anni. Non le è venuto in mente di dover chiamare i genitori prima di portarsi a casa a dormire qualcuno di così piccolo?»

    «Mi dispiace di non poterla aiutare. Ora temo di dover proprio andare…». Balbettando, ho chiuso il telefono, che però ha ripreso a squillare prima ancora che si spegnesse lo schermo e, rendendomi conto che i colleghi dell’ufficio di fronte mi stavano guardando, ho risposto. Ho gonfiato il petto e dato loro le spalle cosicché non vedessero la mia espressione di estremo fastidio.

    «Che c’è? Ho detto che non posso aiutarla!».

    «Signora Wilborg, parla l’ispettore di polizia Thor Ellefsen. Sono qui insieme a Vera Jensrud, l’insegnante di educazione civica della Østerøyparken, e a una rappresentante dei servizi sociali. Abbiamo veramente bisogno che venga qui appena possibile per discutere di questa situazione».

    «Senta», ho detto con il tono più educato che sono riuscita a tirare fuori nonostante fossi già presa dal panico e mi sentissi recedere in uno stordimento vuoto. «Vorrei davvero aiutarvi e mi dispiace da morire per questo povero bambino. Solo che non credo di avere niente da aggiungere alla vostra… inda­gine».

    «Lui dice che abita con lei».

    «Be’, non è così».

    «È davvero la situazione più strana che mi sia mai capitata. Pensa di riuscire a stare qui tra un quarto d’ora? Sarebbe meglio che venisse con suo marito».

    «Johan? Oh, no, no. Non serve».

    «In casi come questi preferiamo che siano presenti entrambi i coniugi. Apprezzeremmo qualsiasi aiuto lei e suo marito potrete darci. Possiamo chiamarlo noi per spiegargli tutto, se preferisce».

    «No, no. Lo chiamo io». L’irritazione aveva ceduto il posto alla rabbia più profonda. Dopo aver riattaccato, ho fissato il mare leggermente mosso, le file di graziose casette lungo la riva, il cielo basso, bianco e grigio, i sentieri calpestati di foglie color ocra nel parco al di là della strada.

    Ho sempre amato questa città, per una vita, ma in quel momento la odiavo e avrei voluto passarci sopra come un gigante, schiacciando e bruciando tutto lungo il percorso fino a non lasciare altro che schegge carbonizzate. E ora, mentre guido lentamente e distrattamente verso la scuola in cui ho lasciato Tobias stamattina, non mi sento affatto più calma. Vedo la macchina di Johan poco più avanti della mia e lo immagino serio e pensieroso dietro il volante che si guarda intorno cercandomi, in ansia per essere stato convocato dalla polizia. Si preoccuperà per quel bambino, torcendosi le mani e tormentandosi sull’effetto che tutta questa situazione potrebbe avere su di me. Prima ancora che mi noti e nei pochi istanti prima di raggiungerlo, devo ripercorrere il resto degli eventi di ieri sera e stamattina per essere sicura di riportarli con esattezza.

    Quando Johan è tornato dall’aeroporto, ero riuscita a ristabilire una parvenza di normalità in casa. Le bambine erano andate presto a letto senza fare storie, scosse dalla presenza di Tobias; nell’aria aleggiava un senso di estraneità. Lo avevo sistemato nella vecchia stanza di Marialuz, nell’appartamento seminterrato e, per un attimo, mi ero sentita in colpa per averlo lasciato due piani sotto di noi, soprattutto in una notte così turbolenta. Ma dovevo fare ciò che ritenevo giusto per la mia famiglia, no?

    Avevo sentito la porta al piano di sotto chiudersi dolcemente, subito seguita dai passi familiari di Johan. Quando è apparso in cima alle scale, dalla chaise-longue davanti alla finestra a tutta parete gli ho rivolto il mio sorriso più abbagliante. Avevo acceso candele in infiniti vasetti metallici e nel camino ardeva un timido fuocherello. Sul tavolo, una bottiglia aperta di Côte de Beaune-Village, il suo vino rosso preferito. Gliene ho versato un bicchiere e l’ho guardato posarsi sfinito sul divano, strofinandosi gli occhi. Mi sono sistemata accanto a lui, il ritratto perfetto della moglie in adorazione.

    Ho sempre pensato che gli uomini vadano trattati con il giusto

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