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Un milione di volte buonanotte
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Un milione di volte buonanotte
E-book304 pagine3 ore

Un milione di volte buonanotte

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Info su questo ebook

Uno Sliding Doors romantico e pieno di colpi di scena

La notte della festa prima delle vacanze, la diciassettenne Hadley prende “in prestito” l’auto di Ben, il suo ragazzo. Ovviamente senza dirglielo. Peccato che Ben non sia un tipo che lascia correre, e si vendica postando sui social una foto compromettente di Hadley senza veli, a beneficio di tutta la scuola. Quando viene avvertita di quello che sta succedendo, Hadley si trova a dover prendere una decisione. Può tornare indietro alla festa e costringere Ben a eliminare la foto oppure vendicarsi a sua volta portando la sua adorata macchina il più lontano possibile dalla sperduta cittadina dell’Ohio in cui vivono. Nel primo caso il piano per vendicarsi potrebbe portare alla luce segreti sconvolgenti. Nell’altro Hadley si ritroverebbe intrappolata nell’auto con il suo ex, Josh, costretta a rivivere con lui tutti gli errori commessi nel passato, incluse le cause della loro rottura. Hadley è di fronte al bivio e può scegliere solo una delle due strade… o forse no?

«Questo romanzo è pieno di adrenalina, intrighi e rivelazioni. Brillante e avvincente!»
Kirkus Reviews

«Una storia davvero ben architettata che fa schizzare il cuore in gola.»
Publishers Weekly

«Una corsa selvaggia. I lettori che cercano un’avventura con un po’ di romanticismo avranno pane per i loro denti.»
School Library Journal
Kristina McBride
insegna inglese al liceo e collabora con la Antioch University Midwest e la Wright State University. Ha una grande passione per la musica, gli alberi, le borse e il cioccolato. Vive in Ohio con il marito e i due figli ed è autrice di quattro romanzi young adult. Un milione di volte buonanotte è il suo primo romanzo pubblicato con la Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2018
ISBN9788822727091
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    Anteprima del libro

    Un milione di volte buonanotte - McBride Kristina

    1

    Oak Grove, Ohio – 21:07

    «Credi che sia proprio il caso?», chiese Mia dal sedile posteriore mentre uscivo da Main Street con la bmw del mio fidanzato, proseguendo su Old Henderson Road verso la cima della collina. Un intricato baldacchino di alberi si chiuse sulla nostre teste. Li sentivo, udivo i rami ondeggiare e le lucide foglie primaverili frusciare come se volessero sussurrarmi qualcosa.

    «Ho un po’ paura, Hadley». Brooklyn mi fissava dal posto del passeggero. «Siamo tutte già state qui, sul luogo dell’incidente, ma dovevamo proprio tornarci di notte?»

    «Non ci pensare», dissi. «Questa sera onoriamo la sua memoria. Tutti ne ricordano solo la morte. Ma lei era molto di più».

    «Se non dobbiamo pensare a com’è morta, perché stiamo tornando nel posto in cui se n’è andata per sempre?», domandò Brooklyn.

    «Perché è l’anniversario». Strinsi forte le mani sul volante. «Non è così che si fa?»

    «È anche il primo sabato dello spring break», aggiunse Mia. «La festa sta cominciando. Se volete la mia opinione, il modo migliore di rendere omaggio a Penny è tornare indietro, bere un paio di drink, ballare come matte e baciare qualche ragazzo a caso per divertimento».

    Iniziai a chiedermi se non fossi nel torto. Forse ero io quella che aveva dimenticato come onorare la memoria di Penny Rawlins: la ragazza che stava in mezzo a una folla danzante, con il volto incollato a un cielo pieno di stelle, muovendosi frenetica al ritmo della musica. Quella a cui si dipingeva un sorriso trionfante sulle guance lentigginose quando vinceva i tornei di beer pong sbaragliando persino i giocatori di football dell’ultimo anno; la stessa persona che poteva facilmente perdersi in un momento di pace, riversando la sua anima sulle pagine del blocco da disegno che portava sempre con sé.

    Ma questi pensieri non mi fermarono, non mi fecero cambiare idea. Continuai invece a guidare sulla stradina alberata che, curva dopo curva, si allontanava da tutto fino a raggiungere la Torre delle Streghe, un edificio che assomigliava a un vecchio faro senza lanterna. Era lo scenario del peggior incidente nella storia di Oak Grove – quello che ci aveva portato via Penny.

    «La festa può aspettare», dissi. «Voglio guidare tra gli alberi, con il tettuccio abbassato e la musica a tutto volume, insieme alle mie due migliori amiche. Avevamo detto che l’avremmo fatto. Insieme».

    «Abbiamo accettato quando era ancora solo un’idea». Le parole di Brooklyn cavalcarono l’aria fuori dalla decappottabile. «Sai, una proposta fatta tanto per fare».

    «BE’, È VENUTA IN MENTE A NE. E CI È PIACIUTA. PER QUESTO CE NE SIAMO ANDATE, DIRETTE AL SUPERMERCATO CIRCLE K. ED È PER QUESTO CHE HO PRESO LA…».

    «Sì, lo so», mi interruppe Brooklyn. «Solo che ora non ne sono più tanto sicura. Mi sembra sbagliato».

    «Non lo è». Seguii la curva dell’asfalto, chiedendomi come sarebbe stato uscire di strada e schiantarsi contro la spessa fila di alberi ondeggianti. «È la cosa giusta da fare. Fidatevi».

    «Va bene», convenne Mia con un brivido. «Facciamolo. Per lei. Anche se è inquietante».

    «Lo è solo se continui a ripeterlo». Guardai nello specchietto retrovisore e incrociai lo sguardo di Mia, cercando di non pensare alla curva in cui Penny aveva esalato l’ultimo respiro.

    Brooklyn rise, appoggiando la testa all’indietro contro il sedile. «Sembri proprio lei, sai».

    «È per questo che siamo qui». Alcune ciocche di capelli mi schiaffeggiarono il viso. «Per ricordarla com’era».

    «Chiassosa. Selvaggia. E completamente libera». Brooklyn allungò le gambe sul tappetino, con i capelli ricci sciolti che passavano dal nero brillante al grigio argenteo, mentre i raggi della luna facevano capolino tra gli alberi.

    Schiacciai il piede sull’acceleratore, sentendo l’improvviso bisogno di andare più veloce. Di arrivare alla torre. Di essere nell’ultimo posto in cui era stata Penny. «Siamo tutte d’accordo? Per Penny?»

    «Per Penny!», urlarono entrambe, proprio mentre i rami si diradavano e il cielo stellato sembrò spalancarsi sopra le nostre teste.

    Allungai la mano verso la manopola del volume e lo alzai al massimo prima che Brooklyn o Mia potessero dire qualcosa. Un remix di una qualche canzone pop riecheggiò nella notte, investendo con un’esplosione di vita tutto ciò che era rimasto nell’ombra dalla morte di Penny.

    Mi sembrò bello – incredibilmente bello – essere viva, essere alla guida di quell’auto con le mie migliori amiche. Avvolte dalla musica, dall’aria fresca e dalla luce della luna. Era uno di quei momenti che non avrei mai dimenticato.

    Immaginai ci fosse anche Penny in macchina, con il vento a scompigliarle i capelli color caramello, gli occhi chiusi, le braccia alzate fuori dal tettuccio e le mani che si muovevano al ritmo del basso. La sentii con noi, la sua leggerezza e meraviglia, il modo in cui avrebbe riso della paura di Mia e di quella di Brooklyn, che ne aveva ma cercava di nasconderla; tutto questo mentre si congratulava con me per aver lasciato la festa.

    Dopo qualche altra curva, raggiungemmo l’edificio a sei piani e accostammo. I miei occhi viaggiarono sul prato che si stendeva dalla strada fino alla base del fabbricato. La torre attirò la mia attenzione, mi paralizzò per un momento. Le pietre scintillavano nella luce dei fari, mentre spostavo lo sguardo lungo i muri, partendo dalla porta, che era sempre stata aperta per tre quarti da quando ne avessi memoria, fino al parapetto che incoronava la cima del faro. Sospirai sollevata. Quello che stavamo facendo mi sembrava giusto. Più che giusto. Era necessario.

    «Pronte?», chiesi, abbassando il volume della radio.

    «Non lo so», rispose Brooklyn con una smorfia. «Non mi piace dirlo, ma questo posto emana influssi negativi, Hadley».

    «È solo il tuo legame affettivo con la torre a essere negativo». Cercai di togliermi dalla testa i brutti ricordi, ma non era facile.

    «Un legame affettivo negativo? Dici?», chiese Mia.

    «Siamo qui per un motivo». Parcheggiai la macchina e mi voltai verso la mia amica. Il suo volto era così pallido che sembrava quasi brillare nel buio. «Un anno fa non ci siamo state nel momento del bisogno. Non dovremmo esserci almeno adesso?».

    Mia sospirò. «Ti odio perché hai ragione».

    Brooklyn aprì la portiera del passeggero, ne uscì e tirò in avanti il sedile per permettere a Mia di saltare giù dall’auto.

    Mi vibrò il telefono nella tasca per la quinta o sesta volta da quando avevo svoltato in Old Henderson Road. Anche i miei nervi fremettero con il cellulare. Ma era il momento di pensare unicamente a Penny. Scesi e camminai fino a portarmi davanti alla macchina, dove mi aspettavano Brooklyn e Mia, investite dalla luce dei fari. Li avevo lasciati accesi. Non potevamo affrontare quel posto e la sua storia nell’oscurità totale.

    «Non riesco ancora a credere che sia venuta quassù quella notte». Mia fissava l’ombra che si allungava dietro la torre e spariva in mezzo agli alberi retrostanti. Era incredibilmente buio lì, come le tenebre di un buco nero, che inghiottivano ogni traccia di luce e si infiltravano nel labirinto di sentieri che si ramificavano, come fratture, da quel punto in poi.

    «Lo so», disse Brooklyn. «Sto male immaginandola per quelle stradine da sola. Pensando che non c’era nessuno quando…».

    «Non era spaventata», la interruppi. Penny non aveva paura di nulla. «Adorava i boschi di notte».

    «Sì», commentò Mia, «ma…».

    «Niente ma». Indicai con un cenno del capo il monumento a forma di macigno che era stato sistemato fra la torre e la strada. Era ruvido, cesellato ai bordi e con quell’aria ornamentale che Penny, grazie alla sua sensibilità artistica, avrebbe apprezzato. «Siamo qui per lei».

    Camminammo insieme, con il sacchetto di plastica del discount che pendeva dal braccio di Mia e a ogni passo mi colpiva la coscia.

    «Non riesco ancora a crederci», disse Brooklyn quando ci fermammo, a braccetto, gli occhi incollati al nome inciso al centro della pietra –

    PENELOPE RAWLINS

    – e al motivo stellato dello sfondo. Era lo stesso che Penny aveva dipinto sulla testiera del letto quando eravamo in prima superiore; quello che, secondo lei, rappresentava un sogno che acquisiva forma. «Non posso credere che sia morta».

    «Lo so». Barcollai, sentendo le gambe cedere al pensiero che non l’avremmo mai più rivista. «Non sono sicura che ci abitueremo mai all’idea».

    Presi la borsa dal braccio di Mia e ne tirai fuori l’oggetto che aveva ispirato il nostro viaggio alla torre: una bottiglia di gin. L’avevo trovata in fondo al bancone degli alcolici, nascosta dietro la pila di bicchieri rossi di plastica che ero stata mandata a cercare. Mi aveva fatto pensare a Penny. Il suo drink preferito era sempre stato il Gin Tonic. Quando l’avevo vista, avevo capito che saremmo dovute venire qui. Era stato una sorta di segno.

    «Vi ricordate quanto tutti le volessero bene?». Brooklyn mi sfilò la bottiglia di mano e aprì il sigillo. «Dio, la odiavo per questo. Ero così gelosa».

    «Vero», concordò Mia. E poi rise. «La adoravano tutti. Qualsiasi cosa facesse. Ed era pazzesco perché sapeva essere veramente stronza quando voleva».

    Ridemmo tutte e tre perché era così. Una Penny arrabbiata non portava a niente di buono. Diventava stranamente silenziosa e covava l’ira fino a quando non era ora di tirarla fuori. Brooklyn bevve un lungo sorso e passò il gin all’amica.

    «Mi manca tanto da far male». Mia incollò le labbra alla bottiglia e rabbrividì, strizzando gli occhi mentre deglutiva, poi me la passò. «Oh, mio Dio, come faceva a bere questa roba?»

    «Non ne ho idea». Prima di prenderne un sorso a mia volta, alzai la bottiglia al cielo per un brindisi. «Vi ricordate la sua risata? Quel piccolo singhiozzo che faceva quando si divertiva davvero? Se mi sforzo molto, lo sento ancora».

    «Mi ricordo tutto». Mia mi prese il gin e ne versò un po’ sul prato davanti a noi. «Il modo in cui saltellava quando abbracciava qualcuno. Come scriveva messaggi alla velocità della luce. E l’incredibile lealtà che mostrava a tutti i suoi amici».

    «Soprattutto a noi», aggiunse Brooklyn. «Era particolarmente leale con noi».

    «Pensate che sarebbe viva se le avessimo impedito di lasciare la festa quella sera?», domandai. E poi mi pentii di averlo fatto. La risposta ovvia era .

    «Non potevamo saperlo», rispose Brooklyn con voce rotta. «Non c’era modo di sapere cosa sarebbe successo».

    «Una di noi sarebbe dovuta andare con lei». Mi si riempirono gli occhi di lacrime.

    «Smettila», disse Mia. «Smettila. Abbiamo giurato, dopo il funerale, che non avremmo mai più fatto così».

    «Ma è così difficile». Mi si bloccò la voce in gola. «Quando ripenso a quella notte. Dio, ragazze, l’abbiamo lasciata sola. Lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per noi…».

    «È vero». Brooklyn si asciugò gli occhi. «E per questo, noi dobbiamo fare la cosa più importante per lei. Dobbiamo vivere».

    «Hai ragione». Infilai la mano nel sacchetto di plastica e ne estrassi l’altro oggetto che avevamo portato per onorare la memoria di Penny: un pacchetto gigante di Skittles, che era appeso a un gancio all’entrata del Circle

    K

    . «Dobbiamo vivere per Penny».

    Ne strappai un angolino e la confezione mi scricchiolò tra le mani. Un pungente profumo di zucchero mi investì mentre facevo cadere sul palmo qualche caramellina. Ne offrii alle mie amiche ed entrambe accettarono.

    «Ormai ne sono dipendente», disse Mia, scegliendone una rossa e mettendosela in bocca. «È tutta colpa sua».

    «Idem», aggiunse Brooklyn, prendendone una gialla. «Le Skittles sono una favola».

    Optai per una di quelle viola e me la misi in bocca, con gli occhi annebbiati dal sapore e dalle mille emozioni; poi svuotai il resto del sacchetto nel buio. Penny non era lì – il suo corpo era stato sepolto nel cimitero alla periferia della città – ma io la sentivo più vicina in quel luogo. Forse perché lì lei era viva.

    «Guardate!», disse Mia, piegandosi e raccogliendo qualcosa dal prato, accanto a una delle Skittles verdi e sollevando l’oggetto in aria, davanti a noi. Era una piccola statuina di legno a forma di tartaruga, con il guscio giallo e un fiore arancione dipinto sulla schiena.

    «Credete che sia una delle sue?», chiese Brooklyn.

    «È probabile». Pensai alla collezione di tartarughe di Penny. Ne aveva almeno trenta disposte su una mensola in camera, tutte minuziosamente decorate. «Forse i suoi genitori sono venuti qui prima. O Tyler. Sembra che l’abbiano appena lasciata, la vernice è ancora perfetta».

    «Le sarebbe piaciuto che questa piccolina stesse qui», disse Mia, appoggiando la tartaruga dalla testa ondeggiante sulla cima del monumento di pietra. «Quindi, ora cosa si fa?»

    «Il punto è pensare a lei, no?», domandò Brooklyn. «Quello che abbiamo fatto, l’avrebbe fatta sorridere. E poi ci avrebbe insultate per esserci perse la festa».

    «Okay, non vorrei sembrare insensibile, ma possiamo andarcene?». Uno sguardo al viso a forma di cuore di Mia – gli occhi strizzati e il naso arricciato – e capii al volo. Mia doveva fare pipì. Mia Hughes doveva sempre far pipì.

    «Se hai tanta urgenza, perché non vai…».

    «Non dirlo nemmeno per scherzo, Hadley», rispose con una smorfia. «Non puoi pensare che vada lì».

    «Non ti sto mica suggerendo di far pipì sul memoriale».

    «Se Penny fosse qui», disse Brooklyn, «ti sfiderebbe ad andare nel bosco».

    Il mio cellulare vibrò di nuovo. Feci un respiro profondo, sapendo di non avere più tempo.

    «Non penso proprio di poterlo fare». Mia guardò la torre e il bosco che si allungava nell’oscurità totale. «È troppo inquietante».

    «Tu», inclinai la testa, cercando di non ridere, «potresti far pipì ovunque».

    «Ha ragione», commentò Brooklyn, tirando fuori il telefono e usandolo come torcia. «Dài, vengo con te».

    Mentre si allontanavano, infilai il sacchetto di Skittles nella giacca di lana e tirai fuori il cellulare dalla tasca, tornando verso la macchina. Mi accomodai al posto del guidatore e respirai a fondo. Ben doveva già essersi accorto che la sua adorata macchina era sparita. Era sicuramente arrabbiato, ma almeno avrebbe smesso di ignorarmi e avrebbe ascoltato quello che avevo da dire.

    Fissai lo schermo e socchiusi gli occhi per abituarmi alla luce che emanava. Mi resi conto che le vibrazioni non erano dovute alle chiamate. Avevo dodici nuove notifiche su Facebook. Non mi interessava molto degli aggiornamenti della festa – chi indossasse cosa, chi si facesse chi – ma visto che ero da sola in macchina, premetti il dito sull’icona dell’applicazione.

    Dopo pochi secondi, una foto apparve sullo schermo. Era l’immagine di un’adolescente nuda. Mi sembrava stranamente familiare, ma non sapevo perché. Poi vidi il mio nome e il panico mi invase il petto, spandendosi in onde che facevano eco al battito agitato del mio cuore.

    2

    Torre delle Streghe – 21:24

    Mentre fissavo il display mi tremavano le mani. Strizzai gli occhi per non vedere la sfilza di commenti postati dai miei compagni.

    Non ero io, non era possibile, non poteva essere vero.

    Prima di tutto, non ero una fan delle cheerleader alla Oak Grove High – e questa era solo una delle ragioni per cui non mi sarei mai e poi mai spogliata davanti a un obiettivo posando come una majorette, con una gamba in aria e solo le mani a coprire i miei due pompon naturali. Chiunque fosse quella ragazza misteriosa doveva ritenersi fortunata, perché aveva angolato il corpo in maniera tale da impedire di vedere di più.

    E poi qualcosa attirò la mia attenzione. La giovane nella foto non era completamente nuda. Indossava un anello. Quando ingrandii l’immagine, il mio cuore si fermò. Quello era il mio anello. Il mio preferito, d’argento e turchesi. Non lo toglievo mai dalla mano destra.

    E se qualcuno dell’università di Ohio State avesse visto quella foto? Al pensiero mi si strinse lo stomaco. Mi chiesi se avrebbero potuto revocare la mia ammissione – e la borsa di studio – per colpa di uno stupido scatto. Poi mi vennero in mente i miei genitori e il college passò in secondo piano. Se avessero visto quell’immagine, non mi avrebbero mai più permesso di allontanarmi da casa, nemmeno per Ma per qualche motivo, a importarmi di più era l’idea che tutti gli altri avrebbero visto la foto. Era quello che contava ora. Gli altri erano alla festa, a cinque minuti da me, e non c’era modo di evitarli. Mi chiesi quante visualizzazioni avesse avuto quello scatto, quanti dei miei compagni mi avessero vista completamente nuda.

    Poi un caleidoscopio di pensieri d’impossessò della mia mente, fermandosi su quella sola immagine e trasformandola in una scena reale, riportando così alla luce alcuni ricordi che avevo sepolto ma che, da qualche settimana, stavo cercando di ritrovare: quelli della notte che io e Ben avevamo trascorso da soli per festeggiare il suo diciottesimo compleanno. Tutto però era sfocato e vago.

    Mi risentii gridare, in una sorta di eco: Vai! Combatti! Vinci!. Avevo la pelle d’oca mentre giravo su me stessa in una stanza che già sembrava muoversi da sola, con le mani alzate in aria come una cheerleader, e passavo dal suo regalo di compleanno (un ballo sensuale che mi era sembrato perfetto) al mostrarmi completamente nuda (una parodia di Sidney Hall e delle sue seguaci).

    Volevo urlare. Oppure fondermi insieme al sedile di pelle della macchina di Ben. Invece aprii gli occhi, spalancai la portiera e vomitai sul prato.

    Guardai di nuovo lo schermo e la foto era sempre lì. Ed ero sempre io. La parte peggiore arrivò quando mi resi conto di chi avesse postato quell’immagine tanto privata e imbarazzante – l’unica persona che poteva averla sul cellulare. Il mio ragazzo. Ben Baden.

    Feci scorrere il dito sul display, trovai in rubrica il contatto di Ben e, spaccandogli il viso sorridente con il polpastrello, portai il telefono all’orecchio, aspettando che prendesse la linea. Uno squillo. Due. Tr…

    «Dov’è la mia macchina, Hadley?»

    «Come puoi pensare alla tua stupida auto dopo aver postato quella foto?»

    «L’hai vista?». La voce era morbida, come miele caldo. «Non ti arrabbiare, Hadley, non è niente di che».

    «Niente di che?», chiesi con voce tremante, mentre la vergogna si faceva spazio nel mio petto. «Come può una foto di me nuda, caricata su Facebook dal mio ragazzo, essere niente di che

    «Sei figa in quello scatto. E poi, mica si vede niente».

    «Dici sul serio? Ben, sei matto se pensi…».

    «Ehi, io l’ho solo postata. Non avevo idea che qualcuno avrebbe iniziato a taggare tutti quelli della classe».

    Il mio cuore vacillò – minacciò di esplodere – e poi l’imbarazzo che avevo cercato di controllare prese fuoco, lambendomi con una fiamma incandescente e terrorizzandomi. «Ma cosa stai dicendo! Sono taggate circa trecento persone, Ben. Una foto di me nuda compare sulla homepage di tutti quelli dell’ultimo…».

    «Be’, non di tutti. Sicuramente non degli sfigati come Jo…».

    «Non posso credere che stia succedendo davvero».

    «Hai rubato la mia macchina, Hadley. Pensavi che non mi sarei vendicato?»

    «L’ho presa in prestito. Per dimostrare qualcosa. Non è che…».

    «Che coincidenza. Anche io ho caricato la foto per dimostrare qualcosa. Ha funzionato?»

    «Non puoi paragonare le due cose, Ben. Rimuovi l’immagine. Ora».

    «Potrei farlo. Ma

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