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I cartelli dei narcos. La vera storia
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E-book461 pagine6 ore

I cartelli dei narcos. La vera storia

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Info su questo ebook

La storia vera degli agenti infiltrati che hanno sfidato il brutale mondo dei narcos 

L’agente dell’FBI Scott Lawson si aspettava un bel po’ d’azione quando è stato inviato nella città di Laredo, al confine col Messico. Invece finora ha passato le giornate a una scrivania, tra scartoffie varie. Tutto cambia il giorno in cui gli viene chiesto di indagare sulla vendita di un cavallo a un prezzo da capogiro. Ad acquistarlo è stato Miguel Treviño, uno dei leader degli Zeta, il più brutale cartello della droga messicano. Per Scott è l’occasione perfetta per infiltrarsi, seguendo il fiume di denaro che ruota intorno alle scommesse ippiche. Inizia subito a lavorare al caso con Alma Perez, un’agente con una grande esperienza, che di incarichi impossibili se ne intende: si è messa in testa di sgominare lo spietato cartello della droga dall’interno. E così Lawson e Perez si trovano ad affrontare una missione delicatissima, diretti verso il cuore pulsante dell’organizzazione criminale più potente e pericolosa del mondo… 

L’adrenalinico racconto di un infiltrato nel brutale mondo del narcotraffico

«L’autrice utilizza le sue ricerche per dare spessore alla trama e rendere credibili tutti i passaggi: arricchisce il contesto senza rallentare il ritmo del libro. Una storia vera che si legge come un romanzo, adatta agli appassionati di crime ma anche a chi vuole saperne di più sui cartelli della droga.»
Publishers Weekly

«Melissa del Bosque ha scritto un libro affascinante e adrenalinico, ricco di intrighi, tradimenti e violenza. Si è come in prima linea in queste pericolose terre di confine, impossibile interrompere la lettura.»
Gilbert King, Premio Pulitzer
Melissa Del Bosque
è una giornalista investigativa che si è occupata dei traffici al confine tra Messico e usa. Ha vinto un Emmy e il National Magazine Award grazie alle sue inchieste approfondite. I suoi articoli sono stati pubblicati su «Marie Claire», «Time» e «The Guardian». Attualmente è un’inviata speciale del «Texas Observer».
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2018
ISBN9788822729200
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    Anteprima del libro

    I cartelli dei narcos. La vera storia - Melissa Del Bosque

    Per Miroslava Breach, Javier Valdez, Regina Martínez e per gli altri giornalisti messicani uccisi nello svolgimento del loro lavoro, e per tutti i giornalisti esuli o alla ricerca di asilo che – con grande vergogna degli Stati Uniti – chiedono rifugio e vengono accolti da celle di detenzione.

    La hora más oscura es justo antes del amanecer.

    Uno

    L’agente speciale Scott Lawson accostò nel parcheggio vuoto e spense il motore ¹. Riusciva a sentire il rumore cadenzato dei fucili automatici – pop, pop, pop, pop – che riecheggiava in Messico, dall’altra parte del fiume. Abbassò il finestrino dal lato del guidatore, e sollevò la mano sinistra per schermarsi gli occhi dal sole del Texas meridionale.

    Era arrivato da poco a Laredo, in Texas, e ogni tanto si recava in quel parcheggio nei pressi del fiume perché era il punto più vicino a Nuevo Laredo che potesse raggiungere senza entrare in territorio messicano, fuori dalla sua giurisdizione. La città messicana era a meno di cinquecento metri dal punto in cui si trovava la sua Chevy Impala malmessa, ma era come se fosse a un mondo intero di distanza. Scrutò l’ampio letto del Rio Grande mentre scorreva languidamente sotto il ponte internazionale diretto verso il Golfo del Messico. Aveva sentito che la calma del fiume poteva trarre in inganno, che nell’acqua si nascondevano correnti nascoste. I messicani lo chiamavano Rio Bravo: il fiume feroce. Lawson scese dall’auto e si avvicinò all’argine. Dalla sponda, riuscì a vedere un groviglio caotico di linee telefoniche e cavi elettrici, cartelloni pubblicitari in spagnolo e vecchi edifici bianchi in stile coloniale, del tutto simili a quelli che si trovavano nel centro di Laredo. Non fosse stato per il fiume, sarebbe stato facile considerare le due città come una sola.

    Istintivamente, sentendo il ritmo del fuoco rapido che riecheggiava dall’altra parte del fiume, gli venne da fare una smorfia. Una colonna di fumo nero si innalzò nel cielo. Qualcosa stava andando a fuoco. Non riusciva a capire di cosa si trattasse. Una bandiera messicana – la bandiera più grande che avesse mai visto – sventolava nella calda brezza pomeridiana vicino agli uffici doganali dall’altra parte del fiume. Gli sovvenne che non avrebbe potuto essere più lontano dalla sua casa in Tennessee. Ma in quanto novellino non aveva avuto parola in merito alla scelta dell’FBI sulla sua prima destinazione. E dopo sei settimane al confine, stava ancora cercando di capire in che razza di posto fosse finito.

    Ogni giorno, seduto alla sua scrivania, leggeva della carneficina in corso e scorreva fotografie cruente su siti come Borderland Beat, che segnalavano ossessivamente qualsiasi svolta ed evento nella guerra per la droga in Messico. Ma gli sembrava ancora tutto molto astratto. Per questo quando era venuto a sapere che a Nuevo Laredo era scoppiata un’altra sparatoria aveva lasciato il suo ufficio per raggiungere in auto l’argine del fiume. Ma mentre se ne stava in piedi vicino alla sponda, un gringo alto e biondo con stivali da cowboy, evidentemente fuori posto – come una specie di bersaglio ambulante, pensò – non vide tracce degli Zeta o del Cartello del Golfo, che si erano dichiarati guerra a vicenda pochi giorni prima. Riusciva solamente a sentire l’eco rimbombante del fuoco dei fucili automatici e a vedere le tracce di fumo che indicavano che le due fazioni stavano combattendo per conquistare il territorio, la violenza che si riversava oltre i confini di Nuevo Laredo.

    Sul fronte americano del fiume la vita proseguiva come al solito. La guerra per la droga imperversava nella regione da sette anni, e si era ormai trasformata in una surreale quotidianità. A un isolato di distanza da dove aveva parcheggiato la volante, le persone continuavano a fare spese nei negozi del centro, mentre i messicani – tra cui molti civili innocenti – morivano nella città dall’altra parte del fiume. Le fonti messicane dell’FBI avevano già previsto che quella guerra sarebbe stata ancora più violenta della precedente, che risaliva a cinque anni prima, quando due ex alleati avevano unito le forze contro il cartello di Sinaloa per la conquista della città. All’epoca, nel 2005, le forze di polizia di Nuevo Laredo erano state spazzate via, i corpi degli agenti squartati e lasciati in grossi sacchi di plastica dagli assassini del cartello ². L’esercito messicano aveva pattugliato le strade all’interno di veicoli blindati, e molti avevano iniziato a definire la città piccola Baghdad.

    Nel corso della sua prima settimana a Laredo, a Lawson era stato detto che il loro lavoro consisteva nell’impedire che la violenza attraversasse il fiume. Ma finora aveva trascorso la maggior parte del tempo seduto alla sua postazione tappezzata di grigio, a studiare un manuale di procedure dell’FBI grosso quanto un elenco telefonico, a redigere rapporti, chiamati 1023, per gli analisti d’intelligence dell’FBI o ad appuntarsi qualsiasi informazione che riuscisse a trovare sulla violenza in aumento a sud del Rio Grande.

    Gli mancava lavorare sul campo come agente nella periferia di Nashville. In piedi sull’argine del fiume, con i suoi trent’anni e il nuovo distintivo dorato dell’FBI appuntato alla cintura sotto la camicia, si domandò se avesse commesso un errore. Era cresciuto idolatrando i poliziotti che, come suo padre, lavoravano nelle piccole cittadine. Ma era stato sempre suo padre a insistere affinché lui avesse qualcosa in più rispetto al modesto salario di un poliziotto. Motivo per cui, sin da quand’era piccolo, gli aveva ficcato in testa l’idea di lavorare nell’FBI. Ma qual era il senso di far parte di un’agenzia federale esclusiva se a conti fatti era bloccato dietro una scrivania? Nuevo Laredo sta andando a fuoco, pensò malinconico, e io non faccio che scrivere rapporti.

    All’accademia, nessuno si era preso la briga di dire a Lawson che Laredo era considerata una località molto difficile. Pochissimi agenti si offrivano volontari perché per gli agenti con famiglia era troppo vicino alla guerra per la droga in Messico, senza contare che molti si sentivano isolati se non masticavano lo spagnolo. In qualità di novellino, Lawson era il candidato perfetto, perché sarebbe dovuto andare ovunque il bureau avesse deciso di mandarlo. Ancora meglio, non aveva moglie o figli da mettere in conto nell’equazione. Dal momento che si trattava di un incarico difficile, avrebbe dovuto rimanere a Laredo per almeno cinque anni. Ma c’era un lato positivo. Se ci fosse riuscito, avrebbe potuto scegliere la destinazione del suo incarico successivo, e la maggior parte degli agenti non aveva quel privilegio finché non trascorreva almeno un decennio nell’FBI. Era ancora giovane, pensò, e nel giro di cinque anni avrebbe potuto far ritorno a casa in Tennessee.

    Era arrivato la settimana prima del Natale 2009, con qualche borsone pieno di vestiti e un cappello da cowboy comprato a San Antonio. Da lì, aveva guidato verso sud attraversando terreni perlopiù deserti con qualche ranch sparso qua e là. Quando aveva iniziato a preoccuparsi di essersi spinto troppo in là, con tutti i segnali stradali che davano indicazioni per il Messico, aveva raggiunto la periferia di Laredo. Era una città di dimensioni modeste, con meno di 240.000 abitanti. Si sviluppava lungo un’ansa del Rio Grande, mentre dalla parte opposta del fiume c’era il Messico e la tentacolare Nuevo Laredo, grande circa il doppio della sua città gemella americana. Forse era per questo che Laredo sembrava priva di radici. A collegare le due città c’erano quattro ponti per autoveicoli e un ponte ferroviario. Il traffico pulsava avanti e indietro sui ponti a ogni ora del giorno, soprattutto autoarticolati che portavano i loro carichi giù in Messico o a nord, verso altre zone degli Stati Uniti o del Canada. Facendo qualche ricerca su Laredo, Lawson aveva scoperto che veniva chiamata la stazione di servizio dell’America perché era il più grande porto interno della nazione. Ogni giorno, più di dodicimila camion attraversavano i confini della città, i loro scarichi diesel che lasciavano nell’atmosfera un bagliore bluastro e davano all’aria un retrogusto metallico ³.

    Si domandò come mai l’FBI avesse deciso di inviare proprio lui al confine. Forse per le cinque settimane trascorse in Messico a studiare spagnolo, anche se al momento faticava a ricordare alcunché. Forse era perché aveva lavorato nella narcotici. Quando era nella squadra antidroga della contea di Rutherford, aveva arrestato la sua parte di spacciatori contribuendo a sequestrare chili e chili di metanfetamina, marijuana ed eroina nera lungo le interstatali. Gli era capitato di interrogare i trafficanti dopo aver sequestrato i loro carichi di stupefacenti e visto il terrore nei loro occhi quando gli confessavano che i loro parenti in Messico sarebbero morti perché quel carico non era arrivato a destinazione. Credeva di aver capito.

    Ma prima di lasciare l’accademia dell’FBI a Quantico, in Virginia, era stato preso in disparte per un briefing quando gli altri erano già andati a casa. Ricordava le immagini cruente che scorrevano una dopo l’altra sullo schermo del computer del suo istruttore; le decapitazioni, i torsi smembrati con la lettera Z incisa sopra. Gli Zeta erano un nuovo tipo di cartello, gli aveva spiegato l’istruttore, estremamente violenti e dotati di addestramento militare ⁴. Formati nel 1999 dai disertori delle Forze speciali messicane, cioè il Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales, o GAFE, avevano iniziato come guardie del corpo o esecutori per il cartello del Golfo, ma poco dopo si erano trasformati in un cartello autonomo, impiegando una violenza e una brutalità senza precedenti nella guerra per la droga. Gli Zeta combattevano per il controllo sul confine tra Stati Uniti e Messico, gli disse l’istruttore, e avevano iniziato a massacrare anche i cittadini di Laredo. «Non hai la più pallida idea di quello in cui ti stai cacciando», lo aveva messo in guardia. «La tua vita sarà a rischio ogni singolo giorno».

    Ma con sua grande sorpresa, aveva scoperto che Nashville aveva un tasso di omicidi più alto di Laredo, anche se a casa non gli credeva nessuno. Eppure dall’argine del fiume sentiva esplosioni di granate e fucili automatici che sparavano a meno di cinquecento metri di distanza. Com’era possibile che due città tanto simili avessero sei omicidi all’anno l’una, e trecento l’altra?

    Durante la sua prima settimana a Laredo, l’agente speciale supervisore, David Villarreal, gli aveva fatto un riassunto spiegandogli cosa ci si aspettava da lui in quell’ufficio: «La nostra squadra si concentra sugli Zeta. Ecco di cosa ci occupiamo. E tu devi cercare di imparare tutto il possibile su di loro». Così Lawson aveva accompagnato altri agenti nei loro incontri con i rispettivi informatori per poi stilare per loro i rapporti 1023, e solo per apprendere tutto ciò che poteva sugli Zeta. Quello che aveva scoperto finora era che Heriberto Lazcano Lazcano, noto come Z-3, era il leader del cartello, e Miguel Ángel Treviño Morales, o Z-40, il suo secondo in comando. Treviño regnava su Nuevo Laredo come un signore feudale insieme al suo fratello minore Omar, noto come Z-42; aveva trentaquattro anni, dunque tre in meno di Miguel, e serviva il fratello come braccio destro. A Lawson venne spiegato che la Z del loro nome derivava dal codice radio, mentre il numero denotava il momento in cui si erano uniti al cartello. I Treviño erano stati tra le prime reclute del cartello provenienti da Nuevo Laredo.

    Miguel si era fatto strada in fretta tra i ranghi degli Zeta grazie alla sua reputazione di assassino e sadico a sangue freddo la cui sete di violenza tendeva pericolosamente verso la psicopatologia. Secondo una delle storie che giravano, Miguel aveva ucciso il figlio neonato di un rivale mettendolo in un microonde; in un’altra versione si trattava di una tinozza d’olio bollente. Lawson non sapeva se la storia fosse vera, ma sembrava che chiunque lavorasse nelle forze dell’ordine lungo il confine ne avesse sentita una variante, e nessuno dubitava che Miguel ne fosse capace.

    Tra una ricerca sugli Zeta e una sessione di studio del manuale operativo dell’FBI andava in pattuglia con i poliziotti di Laredo assegnati alla sua unità, tanto per uscire dall’ufficio e sentirsi di nuovo un poliziotto di strada. Se non altro il bureau lo aveva assegnato ai crimini violenti, esaudendo una sua richiesta esplicita. L’agenzia interna dell’FBI di Laredo, dov’era stato assegnato, era solo un piccolo ufficio satellite, mentre il quartier generale si trovava a circa duecentocinquanta chilometri di distanza, a San Antonio.

    L’agenzia di Laredo era suddivisa in due squadre – crimini finanziari e crimini violenti. A ciascuna squadra erano assegnati otto agenti, e quattro ufficiali di polizia per aiutare ad alleviare le tensioni sempre presenti tra forze dell’ordine locali e federali.

    La squadra dei crimini violenti era perlopiù composta da agenti portoricani e cubani trasferiti da Miami che si lamentavano di essere stati retrocessi nella sperduta Laredo solo perché parlavano spagnolo. Lawson, biondo e alto un metro e novantacinque, era stato soprannominato "Güero", a causa della sua carnagione pallida, e i suoi colleghi scoppiavano a ridere ogni volta che cercava di parlare spagnolo con il suo pesante accento del Tennessee. Lawson la prendeva bonariamente. Era il figlio di un poliziotto. E sapeva che lo stavano solo mettendo alla prova, per vedere se e come si sarebbe riuscito a integrare.

    Per facilitare la sua transizione nell’ufficio di Laredo, l’FBI gli aveva assegnato come responsabile un agente anziano, Jason Hodge. Sui quaranta, Hodge si vestiva ancora come il contabile che era un tempo; era un uomo sempre carico di energia nervosa, le sue camice spesso macchiate di caffè. Sedevano schiena contro schiena alle rispettive postazioni. Lawson aveva notato che Hodge aveva l’abitudine di armeggiare nervosamente con la suola di gomma che si era parzialmente staccata da una delle sue scarpe in pelle. Flip, flip, flip. Era il rumore che sentiva ogni volta che il suo collega si scervellava su qualche aspetto delle sue indagini.

    Hodge era piuttosto contrariato di essere stato assegnato ai crimini violenti. Preferiva scrivere rapporti d’intelligence o lavorare alle indagini sui crimini finanziari. Una pila di documenti e un foglio Excel erano le uniche cose di cui aveva bisogno per essere felice. Ma il pensiero di andare sotto copertura o partecipare a operazioni di sorveglianza lo metteva a disagio. L’argomento di conversazione che preferiva era il suo imminente trasferimento da Laredo, a cui puntava entro la fine dell’anno. Aveva già programmato i suoi ultimi giorni nella cittadina di confine fino all’ultimo istante.

    Non potevano essere più diversi, eppure Hodge era stato anche uno dei primi a farlo sentire il benvenuto a Laredo, invitandolo a casa per assaggiare i piatti fatti in casa da sua moglie. Lawson apprezzava il buon cibo e la compagnia. L’ultima cosa che voleva era tornare nella sua stanza spoglia nell’albergo a lunga permanenza che dava le spalle a uno squallido bar per camionisti. Avrebbe dovuto comprare un alloggio e sistemarsi – e dal momento che si trattava di una località critica, l’FBI avrebbe ricomprato la casa se non fosse poi riuscito a venderla – ma non aveva nemmeno iniziato a cercare. Stava ancora provando ad accettare l’idea che per i prossimi cinque anni avrebbe dovuto considerare Laredo, e il Texas, la sua casa.

    ¹ Intervista dell’autrice all’agente speciale Scott Lawson.

    ²Alex Chadwick, Drug Cartel Battles Escalate in Nuevo Laredo (intervista con il corrispondente del «Dallas Morning News», Alfredo Corchado), NPR, 26 luglio 2005, http://www.npr.org/templates/story/story.php?storyId=4771483.

    ³ International Trade, Laredo Development Foundation, http://ldfonline.org/site-selection/international-trade/.

    ⁴ George Grayson, Samuel Logan, The Executioner’s Men: Los Zeta, Rogue Soldiers, Criminal Entrepreneurs, and the Shadow State They Created, Transaction, New Brunswick 2012.

    Due

    Con l’adrenalina che scorreva ancora nelle vene, Miguel e Omar Treviño erano dell’umore giusto per festeggiare. Erano riusciti a sfuggire per un pelo a una sparatoria con l’esercito nel centro di Nuevo Laredo ⁵. Erano morti almeno sei uomini, e i militari avevano crivellato tre volanti della polizia intervenute a difesa del cartello. Ma i fratelli erano riusciti a sfuggire all’imboscata. Quando si erano riuniti alla periferia della città, era ormai calata la notte e l’unica luce che illuminava l’autostrada deserta era quella che proveniva dai fari della loro scorta.

    Era la fine di ottobre 2009, e mancavano ancora quattro mesi alla dichiarazione di guerra degli Zeta al cartello del Golfo. Ma Miguel era il tipo d’uomo che pianificava sempre tutto in anticipo. Negli ultimi due anni aveva investito parecchio nelle corse dei quarter horse, un’attività che non solo rifletteva la sua passione, ma era anche un riflesso del suo rango in continua crescita tra le fila degli Zeta. Nel Messico settentrionale, le corse dei quarter erano da tempo un’ossessione legata all’orgogliosa tradizione di allevamenti equini, profondamente radicata anche nei vecchi territori della California e delle regioni del Sud-ovest degli Stati Uniti. Ogni cartello aveva i propri fantini, allevatori e agenti ippici preferiti. Il fatto che fosse diventato il proprietario delle migliori dinastie equine era il segno di un aumento notevole delle sue ricchezze e del suo potere all’interno del mondo della droga. E presto, sapeva che la sua posizione in quel mondo sarebbe stata messa alla prova.

    La sua mente aveva iniziato a ragionare su un piano dopo aver ricevuto una buona nuova dal Texas, due settimane prima. Un giovane sauro di sua proprietà, di nome Tempting Dash, si era qualificato per una delle corse da quarter più prestigiose d’America. In passato non aveva mai tenuto in gran considerazione quel cavallo. Discendeva da una linea di sangue rinomata, ma era talmente magro e minuto che negli ippodromi in Messico avevano iniziato a chiamarlo Huesos, Ossa. Ma il cavallo li aveva lasciati tutti a bocca aperta con la sua sorprendente velocità. Nel giro di due giorni, Tempting Dash avrebbe corso nella corsa texana Dash for Cash, una delle gare più redditizie della stagione, con un premio in denaro di 445.000 dollari. La corsa si teneva ogni ottobre nell’ippodromo di Lone Star Park a Grand Prairie, non lontano da dove i fratelli avevano trascorso la loro adolescenza, in quella Dallas sempre troppo interessata allo status delle persone, con le sue automobili di lusso e le ville recintate. A Miguel era sempre piaciuta Dallas, una città che gli aveva fatto conoscere un lato più seducente della vita rispetto ai poveri barrios della classe operaia di Nuevo Laredo.

    Negli ultimi due anni, Ramiro Villarreal, un agente ippico di Monterrey, aveva acquistato e fatto correre cavalli negli Stati Uniti per conto di Miguel. Ed era stato proprio Villarreal che gli aveva recapitato la buona notizia su Tempting Dash. Con tutti quei soldi in ballo, Miguel non aveva alcuna intenzione di lasciare l’esito della corsa unicamente in mano al fato e alle abilità naturali del cavallo.

    Aveva chiesto a suo fratello minore di contattare Villarreal sul suo Nextel per assicurarsi che in Texas andasse tutto secondo i piani. Anche Omar, come Miguel, si era distinto nei ranghi del cartello. Le sue guance tonde e il viso da ragazzino lo facevano sembrare meno minaccioso di Miguel, che aveva occhi scuri e feroci e zigomi affilati; eppure Omar, che si sforzava sempre di mostrarsi all’altezza del suo fratello maggiore, era altrettanto spietato e incline alla violenza.

    Villarreal prese il suo Nextel per rispondere alla chiamata di Omar ⁶. Era in auto, diretto a un’asta di cavalli presso l’Heritage Place di Oklahoma City, da cui poi si sarebbe diretto al Lone Star Park per la corsa di sabato.

    «Che stai facendo, Gordo…?», chiese Omar al paffuto agente di cavalli. «Dimmi… quali sono le previsioni…? Quando parte Chevo?»

    «Dopo le 9:40… ma deve arrivare insieme al veterinario per fargli controllare i cavalli…», rispose Villarreal.

    «Le batterie sono pronte?». Era un vecchio trucco. Per vincere la corsa, Tempting Dash sarebbe stato colpito da una scossa elettrica emessa da un dispositivo portatile. L’oggetto usato dai fantini, denominato buzzer, era stato vietato negli Stati Uniti. Ma in una sessione d’addestramento l’avevano usato su Tempting Dash per valutare la sua reazione e per verificare se la scossa poteva provocare quello scatto di velocità necessario per portarsi a casa la vittoria.

    «È andata», disse Villarreal, intendendo che l’esperimento aveva avuto successo.

    «E dove sei ora?»

    «Sulla strada tra San Antonio e Austin».

    «Vincerai, Gordo, sono certo che vincerai», disse Omar. Ordinò a Villarreal di mettersi in posa con Tempting Dash nel cerchio del vincitore; quando avrebbero scattato la foto avrebbe dovuto fare un segnale con la mano che i fratelli avrebbero potuto riconoscere, in modo da rendere noto il vero proprietario del cavallo. «Vinceremo», ripeté Omar.

    «E se vinciamo che succederà?», chiese Villarreal. Il segnale radio del suo Nextel iniziava a vacillare.

    «Vinceremo. Vedrai».

    L’ascesa al potere di Miguel era stata alquanto inconsueta. Non aveva contatti politici, e veniva da un quartiere povero della periferia di Nuevo Laredo. Ma era un uomo del suo tempo, scolpito in tutto e per tutto dal passato del Messico. E con il cartello del Golfo e gli Zeta ormai sul piede di guerra, verso la fine del 2009, Miguel era pronto a ottenere ancora più potere.

    Da molti punti di vista, la politica aveva spianato la strada alla sua ascesa. Per diversi decenni aveva governato in Messico il semiautoritario Partido Revolucionario Institucional, o PRI, e i suoi leader avevano ammassato le proprie ricchezze grazie al sistema del plata o plomo, argento o piombo, costringendo all’obbedienza o minacciando chiunque osasse sfidare il loro monopolio e permettendo a nepotismo e corruzione di prosperare.

    Mentre in Messico l’economia della droga illegale continuava a espandersi, arrivando a generare più di trentacinque miliardi di dollari all’anno, i leader del PRI suddivisero il controllo del Paese tra alcune organizzazioni, compresi i cartelli del Golfo e di Sinaloa ⁷. Generali, agenti di polizia e politici ricevevano una percentuale dai cartelli che lavoravano nei territori divisi, e in cambio lasciavano che questi portassero avanti indisturbati i loro traffici illeciti ⁸. Come parte dell’accordo, i capi dei cartelli si impegnavano a mantenere la violenza tra loro e a non richiamare attenzioni indesiderate sui rispettivi crescenti imperi criminali. Si trattava un piano pragmatico che rendeva anche le élite politiche estremamente ricche, dal momento che il novanta percento della cocaina e il settanta percento della metanfetamina e dell’eroina consumate negli Stati Uniti – il mercato più grande del mondo per quel che riguarda il consumo di droghe – venivano prodotte in Messico o dovevano attraversarlo.

    Ma nel 2000 i vecchi accordi, che già avevano iniziato a mostrare segni di cedimento, andarono completamente in frantumi quando il PRI perse la corsa alla presidenza per la prima volta in più di settant’anni ⁹. Il nuovo presidente, Vicente Fox, un ex dirigente della Coca-Cola, e il suo partito che si opponeva al vecchio regime, il Partido Acción Nacional, o PAN, promisero di diminuire la corruzione del governo e rendere il Paese più democratico. «Il Messico non merita quel che sta succedendo. È fondamentale mettere in atto un cambiamento democratico», dichiarò.

    Era un messaggio che i messicani aspettavano sin dai tempi della rivoluzione, ma era troppo tardi. I cartelli erano diventati troppo potenti, e la legge troppo debole. Quando il presidente Fox disfece i vecchi accordi stretti con il PRI, i cartelli intravidero una possibilità. Iniziarono a rafforzare il controllo sui propri territori. Armati fino ai denti e ben finanziati, i narcotrafficanti non avevano più intenzione di prendere ordini dai politici. Decisero che le cose dovevano andare nel modo opposto. È tristemente ironico che proprio quando il Messico si stava facendo un nome nel mondo per il suo neonato spirito democratico, abbia preso forma la prima organizzazione narcoterroristica paramilitare del Paese: gli Zeta.

    I fondatori militari del cartello erano stati addestrati dall’esercito americano per combattere le crescenti minacce del narcotraffico ¹⁰. Ma i signori della droga pagavano meglio del governo. Osiel Cárdenas, il leader del cartello del Golfo, il cui quartier generale si trovava a Matamoros nello Stato di confine di Tamaulipas, reclutò i disertori militari per trasformarli in guardie del corpo personali e per far loro proteggere la plaza di Nuevo Laredo, vale a dire il nuovo territorio di spaccio e traffico, il più desiderabile nel suo vasto impero della droga, che spaziava dal confine tra Texas e Messico fino alla costa messicana del Golfo. Cárdenas definì la nuova alleanza l’Azienda. Aveva legioni intere di nemici. Paranoico e spietato, si guadagnò il suo soprannome, El Mata Amigos, l’ammazza-amici, dopo aver incaricato uno dei soldati fondatori degli Zeta, Arturo Guzmán Decena, di sparare alla nuca di un suo socio d’affari.

    Nel 2003, Cárdenas venne arrestato e spedito in un carcere di massima sicurezza vicino a Città del Messico, dove continuò a gestire l’Azienda da dietro le sbarre. Inviò gli Zeta a sedare qualsiasi rivolta scoppiasse nei suoi territori della metà orientale del Messico.

    Con l’arresto di Cárdenas, l’astuto signore della droga Joaquín El Chapo Guzmán intravide nella crisi un’opportunità, e inviò il suo esercito di sicarios, o assassini, ad assumere il controllo della tanto desiderata plaza di Nuevo Laredo. Il cartello di Sinaloa di Guzmán, nato nel fertile Triangolo d’oro nella parte occidentale del Paese dove veniva coltivata la maggior parte dell’oppio, era la più vasta e potente organizzazione dedita al narcotraffico in Messico. Ed El Chapo e i suoi associati puntavano a conquistare tutto il Paese.

    Miguel e Omar si schierarono con gli Zeta, gli assassini dell’Azienda, per muovere guerra contro El Chapo e il cartello di Sinaloa. Nuevo Laredo, loro città natale, era sempre stata un mercato particolarmente desiderato nel traffico di droga. Camion e treni facevano continuamente avanti e indietro sui suoi cinque ponti internazionali. Ogni anno quasi la metà degli scambi commerciali tra i due Paesi – almeno centottanta milioni di dollari tra importazioni ed esportazioni – passava da Nuevo Laredo ¹¹. Tra i migliaia di rimorchi pieni di televisori, ricambi per auto e motori a combustione c’erano altri carichi di valore, inclusi chili di cocaina, eroina e metanfetamina, abilmente nascosti in falsi scompartimenti o lasciati passare da agenti doganali statunitensi sul libro paga del cartello.

    Il lavoro dei fratelli era quello di sterminare gli assassini e i collaboratori del cartello di Sinaloa a Nuevo Laredo, che l’Azienda definiva contras. Miguel si distinse immediatamente nel suo nuovo incarico. Non era addestrato dal punto di vista militare come gli altri Zeta, ma era un abile cacciatore. Non vedeva alcuna differenza tra l’uccidere i contras e i cervi che cacciava nei sobborghi della città. Se non uccideva qualcuno ogni giorno, sentiva di non aver fatto il proprio dovere. E se per qualche ragione non riusciva a sferrare personalmente il tiro de gracia a un contra, allora suo fratello Omar, che lo seguiva come un’ombra, interveniva per finire il lavoro al posto suo.

    La reputazione della ferocia e della violenza di Miguel crebbe in fretta. Nel 2006, gli Zeta erano riusciti a respingere le incursioni dei Sinaloa, preservando i territori dell’Azienda, il tutto mentre Miguel continuava a salire di grado.

    A capo degli Zeta c’era ora Heriberto Lazcano, un ex militare delle Forze speciali. Lazcano era un leader pragmatico, ambizioso e spietato. Si era guadagnato il suo soprannome, El Verdugo, il boia, per i suoi metodi di tortura barocchi, come per esempio gettare le sue vittime in pasto ai leoni e alle tigri che teneva in uno dei suoi ranch. Nel 2007, il Messico finalmente estradò Osiel Cárdenas in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti. La stretta dell’ammazza-amici sull’Azienda si stava allentando, e Lazcano decise di approfittarne. Iniziò a prendere in considerazione piani d’indipendenza ed espansione. In qualità di ex militare, aveva idee molto personali su come dovessero essere gestiti gli Zeta. Mentre il cartello del Golfo si accontentava di trafficare droga, gli Zeta avrebbero invece potuto richiedere una percentuale su ogni transazione del mercato nero all’interno dei propri territori, che si trattasse di petrolio rubato al monopolio nazionale della Pemex, di CD pirata o prostituzione. Avrebbero anche potuto imporre una tassa su imprese e commerci legali in cambio di protezione.

    In Miguel Treviño, Lazcano trovò un alleato utile e altrettanto spietato. Spedì il suo nuovo braccio destro a conquistare altri territori. Gli Zeta, sfruttando il loro addestramento militare, raccolsero informazioni sui rivali e sulle forze di governo usando un sistema di spie e informatori, per poi costruire reti di comunicazioni private. Ma la loro tattica più efficace era diffondere il terrore per soggiogare i nemici e le comunità conquistate. I cadaveri dei membri delle gang rivali venivano appesi ai ponti, e lungo le autostrade venivano lasciati sacchi della spazzatura pieni di parti del corpo amputate. I corpi venivano ammassati davanti alle stazioni di polizia o agli incroci principali delle città, la lettera Z incisa sui loro busti. Era la specialità di Miguel, nonché il suo biglietto da visita.

    Nel 2008, Lazcano incaricò Miguel di occuparsi anche del reclutamento nazionale, per espandere le loro fila ¹². Per la prima volta nel traffico di stupefacenti del Messico, gli Zeta organizzarono dei campi in stile militare gestiti da paramilitari colombiani e Kaibiles, le squadre speciali guatemalteche rinomate per le loro abilità di guerriglia nella giungla, affinché addestrassero le reclute nell’uso di lanciarazzi da spalla, mitragliatori calibro .50, e altri armamenti di livello militare contrabbandati nel Paese dagli Stati Uniti o dall’America centrale. Gli Zeta stavano addestrando uomini comuni per trasformarli in soldati mercenari ¹³. Miguel cercò di reclutare persone come lui, individui poveri e senza istruzione o futuro. Cercava di scoprire se questi uomini, in gran parte poco più che adolescenti, fossero sufficientemente spietati da diventare Zeta. Gli addestratori consegnavano loro un machete o una mazza e gli ordinavano di uccidere una persona legata davanti a loro. I bersagli umani venivano scelti tra i contras rapiti o tra le ondate di migranti che attraversavano i loro territori diretti verso gli Stati Uniti. Quelli che non provavano alcun rimorso dopo l’assassinio diventavano le guardie del corpo personali di Miguel o soldati di prima linea. Era un patto con il diavolo; accettavano che le loro vite fossero brevi e violente in cambio di denaro e della sensazione che si prova a esercitare il potere.

    Mentre gli Zeta accrescevano il proprio controllo sui territori e i propri ranghi, nel 2006 in Messico venne eletto un nuovo presidente, membro dello stesso partito orientato agli affari, il PAN, del suo predecessore, Vicente Fox. Ma il presidente Felipe Calderón assunse una posizione ancora più rigida e militante nei confronti del crescente potere dei narcotrafficanti. Nel suo primo anno di servizio, Calderón portò l’esercito in strada a combattere i cartelli, trasformando le schermaglie per la droga in Messico in una vera e propria guerra. Ma a inizio 2010 molti si accorsero che quella ottenuta dal governo non poteva affatto definirsi vittoria ¹⁴. Tutto ciò con cui si ritrovò Calderón fu un’enorme pila di cadaveri – circa 120.000 persone – e un sempre crescente numero di desaparecidos, vittime di una guerra per la droga in espansione.

    Ancora più preoccupante fu il rapporto sulla sicurezza globale pubblicato a inizio 2009 dall’esercito statunitense, secondo il quale il Messico correva il rischio di andare incontro a un rapido e improvviso collasso se la campagna militare di Calderón non avesse avuto esito positivo ¹⁵. Furibondo, il presidente messicano aveva risposto ai media americani: «Dire che il Messico sia uno Stato fallito è assolutamente falso. Non ho perso nessuna area – nemmeno una – di territorio messicano». Ma la verità era molto più complessa di quanto Calderón fosse disposto ad ammettere. Molti dei militari, dei poliziotti, e perfino alcuni dei suoi stessi ministri di governo, lavoravano già per il nemico.

    Miguel e gli Zeta stavano facendo tanti di quei soldi che iniziavano a diventare un problema. Mentre Miguel pianificava le sue strategie nella periferia deserta di Nuevo Laredo per l’imminente corsa in Texas, ciascun fratello portava sempre con sé diverse sacche piene di contanti per farsi strada a forza di mazzette tra imboscate e blocchi militari. La maggior parte dei soldi era in dollari americani, ma finché non riuscivano a riciclarli attraverso il sistema bancario, avrebbero potuto usarli solamente per la corruzione. Una squadra di contabili e avvocati lavorava giorno e notte per studiare nuovi metodi per riciclare il denaro sporco.

    Gli Zeta erano un’impresa multimiliardaria e transnazionale, esattamente come la General Motors o la ExxonMobil, e per far circolare la merce non c’era territorio più redditizio o desiderato della loro terra natale. In un mese, spedendo tra i mille e i tremila chilogrammi di cocaina colombiana negli Stati Uniti, Miguel poteva arrivare a guadagnare fino a trenta milioni di dollari ¹⁶. E quelli erano solamente i proventi di una città all’interno di un territorio in via di espansione sotto il suo controllo nella metà orientale del Messico.

    I fratelli investirono le loro nuove ricchezze in imprese in cui circolavano parecchi contanti, come casinò e bar, oltre ad acquistare immobili, auto sportive e miniere di carbone. Ma Miguel rimase ossessionato dalle corse di cavalli, una passione che condivideva con suo fratello e con il padre, che in passato aveva lavorato nei ranch di ricchi proprietari terrieri nel Messico settentrionale.

    Se Tempting Dash avesse vinto la corsa, con i 445.000 dollari in palio Miguel sarebbe diventato il proprietario di una risorsa estremamente preziosa. Col passare del tempo aveva sempre più senso far crescere il suo giro d’affari delle corse negli Stati Uniti, in modo da poter portare il denaro fuori dal Messico. L’imminente battaglia per il territorio e il potere tra Zeta e cartello del Golfo rischiava di diventare la più feroce e mortale mai vista in Messico.

    Fino ad allora, l’unica forza che la sua famiglia avesse mai conosciuto consisteva nei suoi numeri. Erano una grande famiglia composta da sette fratelli e sei sorelle; Miguel era proprio il figlio di mezzo, seguito da Omar ¹⁷. Crescendo su entrambi i fronti del confine tra Stati Uniti e Messico, avevano sempre vissuto ai margini per colpa della povertà, soprattutto dopo che loro padre se n’era andato quando erano ancora giovani.

    Se c’era una cosa che conoscevano bene, erano gli stenti. Il fratello

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