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Strade insanguinate
Strade insanguinate
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E-book620 pagine8 ore

Strade insanguinate

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Info su questo ebook

«Il miglior libro di Stuart Macbride.» Scotland On Sunday

La storia personale di Logan Mcrae non è certo specchiata, ma ora che ha ricevuto una promozione deve rigare dritto e tenere d’occhio, a sua volta, i suoi colleghi. Quando uno degli agenti viene trovato morto sul sedile di guida di un’auto distrutta, è uno shock per tutto il dipartimento di polizia. L’ispettore Bell, infatti, era deceduto due anni prima. O almeno così credevano. Immediatamente viene aperto un caso e Logan comincia a indagare nel passato del collega. Dove è stato per tutto quel tempo? Perché è scomparso? E, soprattutto, che cosa c’era di così importante da costringerlo a tornare nel regno dei vivi? Più scava a fondo e più si rende conto che ci sono scomode verità sepolte, pronte a tornare a galla. Ma c’è anche qualcuno disposto a uccidere perché rimangano nascoste. Logan sa che se non riuscirà a risolvere in fretta il caso, l’ispettore Bell non sarà l’unico a dover essere seppellito.

N°1 del Sunday Times
Un autore tradotto in tutto il mondo

Alcuni segreti farebbero meglio a rimanere sepolti…

«Ha disseminato la Scozia di cadaveri e serial killer. Ha evocato le paure più profonde della società. Ha firmato romanzi grondanti sangue e misteri, eppure la sua scrittura è rimasta lieve. Stuart MacBride ha la rara capacità di far rabbrividire e sorridere nella stessa pagina.»
la Repubblica

«Stuart MacBride è l’autore di una serie infallibile di storie criminali intrise di umorismo.» 
Il Corriere della Sera

«Stuart MacBride ha preso il posto di Ian Rankin nel cuore degli scozzesi (e nostro). Dall’ispettore Rebus al sergente Logan McRae. Dalla stupenda Edimburgo all’orrida Aberdeen. Ma la peculiare bizzarria dei personaggi e dei panorami non solo è rispettata, semmai ne risulta rinvigorita.» 
La Stampa

Stuart MacBride
È lo scrittore scozzese numero 1 nel Regno Unito ed è tradotto in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato i thriller Il collezionista di bambini (Premio Barry come miglior romanzo d’esordio), Il cacciatore di ossa, La porta dell’inferno, La casa delle anime morte, Il collezionista di occhi, Sangue nero, La stanza delle torture, Vicino al cadavere, Scomparso e Il cadavere nel bosco, con protagonista Logan McRae; Cartoline dall’inferno e Omicidi quasi perfetti, che seguono le indagini del detective Ash Henderson; Apparenti suicidi; Il ponte dei cadaveri. MacBride ha ricevuto il prestigioso premio CWA Dagger in the Library e l’ITV Crime Thriller come rivelazione dell’anno.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2019
ISBN9788822732408
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    Anteprima del libro

    Strade insanguinate - Stuart MacBride

    EN2255-cover.jpglogo_ebook_Newton.png

    2255

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    La citazione «In Cielo non v’è ira…» nel capitolo 52 è tratta

    da La sposa in lutto di William Congreve (1697).

    Titolo originale: The Blood Road

    Copyright © Stuart MacBride 2018

    Published in the English language by

    HarperCollinsPublishers Ltd. 2018.

    Stuart MacBride asserts the moral right

    to be identified as the author of this work.

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Francesca Noto

    Prima edizione ebook: maggio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3240-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Manuela Carrara per Corpotre, Roma

    Stuart MacBride

    Strade insanguinate

    marchio_front.tif

    Newton Compton editori

    In memoria di Peggy Reid, amica dei gatti,

    bravissima a disporre i fiori e produttrice dei migliori grissini

    al formaggio mai assaggiati dall’umanità.

    1937-2017

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o esistite, avvenimenti, società, organizzazioni e luoghi reali ha l’unico scopo di dare alla narrazione un senso di realtà e autenticità. Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi e i fatti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia, e qualunque eventuale somiglianza con fatti o persone reali è del tutto casuale. Uniche eccezioni i personaggi di Allan Doig, Danielle Smith e Kim Fraser che l’autore è stato autorizzato a romanzare e inserire nel volume. Tutti i tratti comportamentali e caratteriali a loro assegnati sono stati ideati per le esigenze del testo e non comportano necessariamente una somiglianza con le persone vere.

    Indice

    Capitolo 0

    topi (e altri parassiti)

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    le canzoni dell’obitorio

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    vespe in gelatina

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    urla nel bosco buio

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    bambini di seconda mano

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Senza i quali

    CAPITOLO 0

    Gli occhi di Duncan si riaprirono di scatto e lui afferrò il volante, spostando l’auto dal bordo della strada. I fari facevano scintillare l’asfalto bagnato di pioggia, illuminando muretti a secco e alberi secchi.

    Non ti addormentare.

    Non perdere i sensi.

    vivi!

    Madre de Dios, fa male… Fuoco e ghiaccio che gli si espandevano nello stomaco, bruciando e gelando fino alla spina dorsale, schiacciandogli il petto, trasformando ogni respiro in uno strappo lacerante di filo spinato sulla carne viva.

    I tergicristalli stridevano avanti e indietro sul parabrezza, segnando il tempo con il sangue che gli pulsava nelle orecchie, mentre le ventole gli soffiavano aria fredda in faccia.

    Accese la radio, alzando il volume per cancellare quei rumori.

    Una voce melliflua uscì dagli altoparlanti: «…le ricerche di Ellie Morton, la bambina di tre anni scomparsa. State ascoltando Late Night Smoothness su Radio Garioch, che vi tiene compagnia nelle ore piccole di un umido venerdì notte…».

    Duncan sbatté le palpebre. Digrignò i denti. Sibilò un respiro, mentre la macchina sbandava di nuovo. Lottò per tenerla lontana dal ciglio della strada. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore.

    «Alle quattro, seguirà il programma di Sally o.m.g. è presto!, ma prima, rallentiamo un po’ con Stones, di David Thaw».

    La sua mano sinistra era bagnata, scura e appiccicosa.

    La premette contro il dolore bruciante all’addome. Contro il tessuto umido. Il sangue gli gocciolò tra le dita, mentre continuava a sbattere le palpebre…

    Teresa attraversa la piazza, con i capelli castani mossi dal vento tiepido. Il piccolo Marco alza lo sguardo, in braccio a lei, adorandola come la dea che è. Il cielo è azzurro come la bandiera della Scozia, la chiesa dorata nel sole estivo.

    Duncan le avvolge un braccio intorno alle spalle e la attira a sé per un bacio, caldo e affumicato per via dell’estofado de pollo di sua madre.

    Lei gli accarezza una guancia e gli sorride. «Te quiero mucho, Carlos».

    Lui sorride di rimando, raggiante. «Te quiero mucho, Teresa!». Ed è proprio così. La ama con ogni fibra pulsante del suo cuore.

    L’auto ondeggiò a destra, puntando verso il muretto a secco.

    Duncan la fece tornare dritta. Serrò la mano destra sul volante. Emise un respiro bruciante come filo spinato. Scosse la testa. Sbatté di nuovo le palpebre…

    topi (e altri parassiti)

    CAPITOLO 1

    Una pioggia leggera cadeva da un cielo color argilla, che se ne stava basso come un coperchio umido su un campo di un grigio uniforme alla base di una collina dello stesso colore. Il sole del mattino scivolava tra i due elementi, investendo di fuoco e sangue una quercia quasi nuda.

    Era una visuale molto appropriata.

    Una Ford Focus marrone si era schiantata contro il tronco dell’albero, con il cofano accartocciato e il parabrezza coperto di crepe. Un corpo era afflosciato in avanti, dietro al volante. Immobile e pallido.

    Il nastro della polizia danzava e crepitava nel vento, giallo e nero come una vespa arrabbiata, mentre un gruppetto di tecnici della Scientifica in tuta completa si aggirava intorno alla carcassa dell’auto. Flash di macchine fotografiche e sbuffi di polvere per le impronte digitali. L’odore del gasolio e delle foglie morte.

    Logan si tirò su il cappuccio della tuta; il tessuto crepitò come carta schiacciata mentre tirava su la chiusura lampo con le mani inguainate nei guanti di nitrile. Si grattò il mento, già che c’era, tenendo il collo lontano dai denti della lampo. «Non capisco ancora cosa ci faccio qui, Doreen».

    La detective Taylor si infilò la tuta con la grazia di una zia grassa a un matrimonio di famiglia. Il cappuccio le nascose il caschetto ingrigito dal tempo, il resto coprì uno stile che si sarebbe potuto definire cardigan-chic. A voler essere generosi. Indicò la Ford accartocciata. «Lo scoprirai».

    Tipico: sfruttare ogni minuto utile.

    Si infilarono le mascherine e lei scese lungo il pendio fino a raggiungere il cordone, tenendolo sollevato perché Logan ci passasse sotto.

    «Dico solo che gli incidenti d’auto di solito non interessano gli Affari Interni».

    Lei si girò e con una mano indicò la collina. «Un postino locale stava andando al lavoro, ha visto i segni di una sbandata sull’asfalto lassù, ha guardato giù per la collina e ha visto l’auto schiantata. E ha chiamato l’uno-zero-uno».

    Due tracce di pneumatici scendevano ondeggiando giù per l’erba ingiallita, fino ai resti della Ford Focus. Come fosse riuscito il guidatore a evitare che la macchina si ribaltasse era un mistero.

    «Vedi, in realtà noi ci occupiamo più di investigare sulle lamentele fatte contro i poliziotti che non si comportano bene, o cose del genere».

    «Gli agenti del traffico arrivano qui alle sei e un quarto, scendono giù per la collina e scoprono il nostro guidatore».

    Logan lanciò uno sguardo attraverso il finestrino dal lato del passeggero.

    L’uomo al volante era grosso come un orso, appeso alla cintura di sicurezza, mentre i primi raggi del sole si riflettevano opachi sul suo cranio rasato. Aveva una faccia larga, pallida nonostante l’abbronzatura. Gli occhi aperti. La bocca come una ferita di proiettile in mezzo al folto cespuglio della barba. Era morto, senza dubbio.

    «Non riesco ancora a capire, Doreen».

    Lei gli fece cenno di andare dal lato del guidatore. «Sembra un incidente, finché non aprono lo sportello del guidatore e cosa trovano?».

    Logan aggirò l’auto, fino a raggiungere lo sportello aperto… E si fermò.

    Il sangue si era raccolto nello spazio sotto al sedile, scendendo in rivoli di un rosso scuro sulla tappezzeria. Seguendolo a ritroso, si arrivava a un buco nella camicia del guidatore. Così scuro da sembrare quasi nero.

    «Oooh…», espirò Logan. «Ferita da arma da taglio?»

    «Probabile. Quindi ci hanno chiamato, e noi siamo venuti qui da bravi soldatini. Abbiamo controllato il corpo: niente documenti».

    «Fate una telefonata alla compagnia di noleggio. Non gli avrebbero consegnato l’auto senza un documento d’identità».

    Lei si girò a fissarlo. «Sì, grazie, genio, infatti ci abbiamo pensato. La macchina è stata noleggiata da un certo Carlos Guerrero y Prieto».

    «Ecco qui: mistero risolto». Logan si piantò le mani sui fianchi. «E ora fammi questa grande rivelazione, Doreen: perché… sono… qui?».

    Delle piccole rughe le comparvero ai lati degli occhi. Stava sorridendo dietro la maschera. Si stava divertendo a tenerlo sulle spine.

    «Sul serio, ora mi giro e me ne vado, se…».

    «Mentre aspettavamo che la Trans-Buchan Automotive Rentals la piantasse di piagnucolare sulla protezione dei dati sensibili e ci dicesse quel nome, qualcuno ha avuto la geniale idea di prendere le impronte digitali del cadavere con uno di quegli scanner portatili. E c’è stato un riscontro nel database. Pausa drammatica…».

    Gli unici rumori furono quelli delle macchine fotografiche dei tecnici, mentre lei lo guardava muovendo le sopracciglia.

    «Sei sempre stata così fastidiosa? Perché non mi ricordavo che lo fossi».

    Doreen alzò gli occhi al cielo. «Mi sorprende che tu non lo abbia riconosciuto. Okay, ha perso un po’ di peso e si è rasato la testa, e la barba da Grizzly Adams e l’abbronzatura prima non c’erano, ma è comunque lui».

    «Doreen…».

    «Il vero nome di Carlos Guerrero y Prieto è Duncan Bell, ovvero Ding-Dong, l’ex ispettore di questa parrocchia».

    Logan lo fissò.

    Le mani pelose che pendevano in fondo a quelle braccia da orso. Le spalle arrotondate. Le sopracciglia cespugliose. Togliendo quella barba e aggiungendo i capelli… e infilandolo in un completo troppo stretto…

    «Ma… è morto. E non sto dicendo che è morto ora… l’abbiamo sepolto due anni fa».

    Doreen annuì, con un’aria che emanava autocompiacimento. «Ed è per questo che ti abbiamo chiamato».

    Gli impiegati delle pompe funebri di turno sollevarono la bara di un grigio lucido, scivolando tra l’erba umida. Due tecnici della Scientifica smisero di raccogliere campioni e afferrarono ciascuno una maniglia della bara, aiutandoli ad allontanarsi dalla Ford distrutta.

    Logan si aprì un po’ la tuta, facendo uscire il calore intrappolato all’interno, e spostò il cellulare contro l’orecchio. «Avremo bisogno di una corrispondenza del cento per cento del dna, ma hanno già controllato le impronte digitali cinque volte, e viene sempre identificato come il detective Bell».

    «Capisco…». Il sovrintendente Doig sembrò pensarci su, mentre produceva rumori di risucchio. Quando tornò a parlare, lo fece in tono gentile, quasi indulgente. «Ma Logan, lo capisci, non può essere lui. L’abbiamo sepolto. Sono stato al suo funerale. Ho perfino fatto un discorso, e la gente si è commossa».

    «Veramente, ha inciampato sulla pedana e fatto cadere una delle corone di fiori».

    «Sì, be’… non credo che dobbiamo metterci a ricordare ogni dettaglio del funerale, ora».

    «Se è davvero il detective Bell, è scappato in un luogo molto soleggiato e ha tenuto un basso profilo. A giudicare dall’abbronzatura e dal nome che si era scelto, forse era nascosto in Spagna?»

    «Ma perché mai Ding-Dong avrebbe dovuto fingersi morto?»

    «E perché tornare dopo due anni dalla messa in scena? Perché proprio adesso?».

    Uno dei tecnici gli si avvicinò e si tolse la mascherina, rivelando un viso femminile e una pletora di denti storti incorniciati da un rossetto rosa. «Ispettore McRae? Forse vuole vedere una cosa».

    «Un momento, capo, hanno trovato qualcosa». Logan premette il cellulare contro il petto e seguì la figura coperta dalla tuta scricchiolante fino al bagagliaio della Ford incidentata.

    All’interno, una pala e un piccone sporgevano in parte da sacchi di plastica nera, con le lame di metallo pulite e scintillanti alla pallida luce del sole.

    La donna accennò agli strumenti. «Un po’ sospetto, non trova? Perché aveva con sé una pala e un piccone?».

    Logan si fece avanti, annusando l’aria. C’era uno strano odore, come di pastiglie verdi per urinali, insieme a qualcosa di più intenso. «Lo sente?»

    «Sentire cosa?»

    «L’odore di deodorante per ambienti».

    Anche lei si piegò in avanti, annusando l’aria. «Oh… sì, ora lo sento. Pino e lavanda? Mi piacciono tanto quei piccoli deodoranti che…».

    «Fate controllare il piccone e la pala. Se ha tirato fuori qualcosa da un nascondiglio o ha sepolto qualcosa, voglio sapere cosa e dove».

    L’altro tecnico si avvicinò, con le mani nelle tasche della tuta. Lanciò uno sguardo verso la sommità della collina. «Salve. Abbiamo visite».

    Una vecchia utilitaria Fiat si fermò sul ciglio della strada, non molto lontano dal punto in cui le gomme della Ford distrutta avevano inciso le loro tracce nel fango e nell’erba del pendio. Qualcuno era uscito dall’auto e se ne stava lì accanto, a guardare la scena con un binocolo. Era una donna, e i suoi ricci ramati le formavano un’aureola intorno alla testa, sistemati dietro le orecchie per starle lontani dal viso. Portava un completo in lino in cui sembrava aver dormito. Ma non stava guardando verso di loro, bensì seguiva i movimenti della bara e dei suoi portatori.

    «Maledetti giornalisti», bofonchiò la tecnica con il rossetto rosa, prima di sputare per terra. «Vedrete che tra un attimo sbucherà fuori il teleobiettivo».

    Logan tornò al telefono. «Capo? L’indagine è nelle mani dell’ispettore capo Hardy. Pensa di poterci fare due chiacchiere? Credo che dovremmo entrare nel merito».

    «Urgh… Altre scartoffie, proprio quello che ci serve. D’accordo, vedrò cosa posso fare».

    Logan attaccò prima che Doig si lanciasse nella sua solita routine di saluti e restò lì a fissare la figura in cima alla collina. Aggrottò la fronte, poi si girò e toccò lo schermo del telefono, controllando la lista dei contatti. Fece partire una chiamata.

    La donna dai capelli ricci tirò fuori il cellulare, passando il binocolo nell’altra mano, e poi una voce cauta, dal forte accento di Inverness, risuonò all’orecchio di Logan. «Pronto?»

    «Detective Chalmers? Sono l’ispettore McRae. Salve. Controllavo soltanto che si ricordasse del nostro appuntamento per pranzo, oggi a mezzogiorno».

    «Cosa? Sì, certo che me lo ricordo. Non vedo l’ora».

    Certo, come no.

    «È solo che non si è presentata ai precedenti tre appuntamenti, e inizio a pensare che voglia evitarmi».

    «Nooo. Certo che no. Be’, sarà meglio che torni al lavoro, ho molte dichiarazioni da registrare. Quindi…».

    «Sta lavorando al caso Ellie Morton, vero?».

    La donna stava ancora seguendo la bara con il binocolo. I portatori stavano risalendo a fatica la collina, lottando contro la salita e l’erba umida. Se uno avesse inciampato, si sarebbero ritrovati ad assistere all’imbarazzante quanto poco professionale discesa di un improbabile slittino.

    «Sì. Come dicevo, siamo…».

    «Avete trovato qualche pista? Una bambina di tre anni scomparsa, immagino che i genitori siano disperati».

    «Stiamo passando al pettine Tillydrone proprio adesso. Finora, niente di nuovo».

    «Tillydrone?»

    «Sì, sarò lì per tutta la mattinata… Oh, dannazione. In effetti, ora che ci penso, temo che dovrò restare lì anche il pomeriggio. Mi spiace. Non potremmo spostare il nostro appuntamento verso la fine della settimana?

    «Quindi, lei è a Tillydrone, adesso?»

    «Esatto».

    «Che strano… Vede, al momento mi trovo in un campo a un paio di miglia a ovest di Inverurie, e potrei giurare di vederla proprio davanti a me». Poi agitò una mano verso la collina. «Mi vede? La sto salutando».

    «Merda…». La Chalmers si nascose dietro la macchina. «No, guardi, sono proprio a Tillydrone. Deve avermi scambiato per qualcun altro. Ehm… ora devo andare. L’ispettore ha bisogno di me. Arrivederci».

    La linea tacque. Gli aveva attaccato in faccia.

    I ricci ramati ricomparvero per un attimo, mentre la donna entrava in macchina, poi il motore si accese e l’utilitaria si allontanò rombando, per poi sparire dietro l’angolo.

    Astuta. Proprio astuta.

    Logan scosse la testa. «Incredibile».

    Un pezzo rock usciva dalle casse della Audi, mentre affrontava le curve che scendevano verso Aberdeen, superando campi di terreno grigiastro e campi di erba floscia e campi di pecore dall’aria triste e campi pieni di scintillanti lochan. In una giornata di sole sarebbe stato uno splendido paesaggio, ma sotto quel cielo grigio e una pioggia inarrestabile?

    Era per questo che la gente emigrava.

    La musica si zittì, soffocata dallo squillo del cellulare proveniente dagli altoparlanti della macchina.

    Logan premette il pulsante e rispose alla chiamata. «Pronto?»

    «Capo? Sono io». Ovvero, il detective Simon Talvolta Utile Quando non Troppo Rompiscatole Rennie. E sembrava intento a masticare una caramella mou, o qualcosa del genere. «Sono andato giù in archivio a recuperare tutti i vecchi casi dell’ispettore Bell. Da dove vuole che cominci?»

    «Che ne dici di cominciare dall’indagine sul suo suicidio?»

    «Ah. No. Uno degli scagnozzi dell’ispettore capo Hardie l’ha già preso dall’archivio».

    Merda.

    «Okay. Allora, comincia dal dossier più recente che hai, e procedi a ritroso nel tempo».

    «Due anni sulla soleggiata Costa del Chissadove, e l’ispettore Bell se ne torna a casa nel brutto, vecchio Aberdeenshire? Se fossi stato in lui, non l’avrei mai fatto».

    «Aveva un piccone e una pala nel bagagliaio della macchina».

    «Per seppellire un tesoro?».

    Incrociò un trattore che procedeva nella direzione opposta, con le enormi ruote posteriori che sollevavano una montagna di spruzzi sporchi.

    Logan azionò i tergicristalli. «Io direi piuttosto per recuperare qualcosa di sepolto. Non si torna indietro dal mondo dei morti per seppellire qualcosa nel bel mezzo del nulla. Si torna, semmai, per tirarlo fuori».

    «Ah, ho capito. Seppellisce quel qualcosa, inscena la sua morte e scappa sul Mediterraneo. Due anni dopo, pensa che sia ormai sicuro tornare e riprenderselo».

    «Oppure quello che aveva sepolto non era più al sicuro e doveva recuperarlo prima di qualcun altro».

    «Hmm…». La voce di Rennie divenne lontana, per poi tornare. «Okay: darò un’occhiata a rapine in banca o a gioiellerie, nei vari casi. Qualcosa di costoso e rimasto irrisolto. Qualcosa per cui valesse la pena inscenare il proprio funerale».

    «E scopri con chi lavorava. Vedi se riesci a smuovere qualcosa».

    Un ammasso di giornalisti si era radunato fuori dal quartier generale della Divisione, con tutte le telecamere puntate sul piccolo gruppo di manifestanti che marciava lì intorno sotto la pioggia. Erano appena una dozzina, ma sopperivano alla scarsità numerica con l’entusiasmo, agitando cartelli con scritte come giustizia per ellie!, vergogna, polizia! o trovate subito ellie!. Quasi tutti i cartelli mostravano una foto di Ellie Morton: il suo sorridente visetto tondo incorniciato di riccioli biondi e i grandi occhi verdi che fissavano allegri chiunque la stesse facendo ridere.

    Logan fece rallentare la Audi, passando oltre. Una donna in giacca di tweed stava parlando a una telecamera, seria in volto mentre, con tutta probabilità, raccontava al mondo di che massa di inutili idioti fosse composta la polizia scozzese. Oh, perché non avevano ancora ritrovato Ellie Morton? Nessuno pensava ai suoi poveri genitori? Perché non importava a nessuno?

    Come se poi fosse così.

    La Audi percorse l’asfalto pieno di buche e raggiunse il parcheggio sul retro. Si fermò nello spazio con la scritta riservato agli affari interni. Qualche idiota aveva disegnato la figura del Tristo Mietitore sul muro sotto alla scritta. E, a essere onesti, non era neanche un brutto ritratto del sovrintendente Doig. Era sempre piacevole essere apprezzati dai colleghi…

    Logan si calcò il berretto in testa, uscì dall’auto e si affrettò a raggiungere le doppie porte, zigzagando per evitare le pozzanghere. Superò un corridoio di mattoni grigi e salì le scale due gradini alla volta.

    Una coppia di agenti in uniforme stava scendendo. Chiacchieravano e sorridevano.

    Si schiacciarono contro il muro, all’avvicinamento di Logan, zittendosi e trasformando il sorriso in una sorta di rictus dolente.

    Quello con i brufoli accennò un saluto con la testa. «Ispettore».

    Logan era arrivato al pianerottolo del terzo piano quando sentì vibrare il telefono. Un messaggio.

    Lo tirò fuori e lanciò un’occhiata accigliata allo schermo.

    L’identificativo del mittente era l’orribile steel! e Logan afflosciò le spalle. «Che diavolo vuoi, mostro rugoso?».

    Aprì il messaggio.

    Avanti, sai che lo vuoi.

    No. Logan digitò la risposta mentre superava gli ascensori:

    Te l’ho già detto, sono occupato. Chiedilo a qualcun altro.

    Spinse le porte ed entrò in un corridoio grigio in cui aleggiava un vago odore di vernice e spaghetti cinesi in scatola.

    Un gruppetto di agenti di supporto se ne stava lì a scambiarsi una battuta e a riderci sopra.

    Poi uno di loro notò Logan, causando una serie di occhiate, cenni e un improvviso silenzio terrorizzato.

    Logan li salutò con un cenno, prima di bussare alla porta con la targhetta di plastica su cui si leggeva: ispettore capo stephen hardie.

    Una voce stanca si fece sentire dall’interno. «Avanti».

    Logan aprì la porta.

    L’ufficio di Hardie era un concentrato di efficienza, organizzazione e risultati: sei lavagne magnetiche coperte di annotazioni riguardo a diversi casi in corso, lo stesso numero di schedari, un computer che non sembrava fatto per andare a carbone o a criceti. Un ritratto della Regina era appeso al muro, insieme a una serie di citazioni incorniciate e a qualche foto dell’uomo che stringeva la mano a diversi pezzi grossi locali. Tutto il necessario per il successo investigativo.

    Purtroppo, non sembrava funzionare.

    Hardie era appollaiato sul bordo della scrivania, con i piedi che quasi non toccavano il pavimento. Era un uomo basso, di mezza età, con un paio di occhialetti tondi sul naso. I capelli neri erano pettinati all’indietro, scoprendo la fronte alta. Al momento aggrottata, mentre scorreva un fascio di documenti.

    Non era l’unico nella stanza. Un uomo magrissimo dai capelli radi se ne stava chino accanto a una delle lavagne magnetiche, intento a scriverci sopra qualcosa con un pennarello verde.

    La terza persona mordicchiava una penna mentre controllava il contenuto di una cartellina. La donna scosse la testa, facendo ondeggiare la pappagorgia. «Pfff… Già sono arrivate richieste da Radio Scotland e Channel 4 News. Come diavolo hanno fatto a saperlo così in fretta?».

    Hardie alzò lo sguardo dai documenti e fece una smorfia verso Logan. «Ah, ispettore McRae. Mi verrebbe da chiederle a cosa dobbiamo il piacere della sua visita?. Ma è raro che lo sia».

    La Numero Tre tirò su col naso. «L’unica nota positiva è che non sanno chi sia la vittima».

    Il Numero Due sollevò il pennarello. «Non ancora, George. Non lo sanno ancora».

    George sospirò. «Già».

    Logan si appoggiò allo stipite della porta. «Immagino che il sovrintendente Doig si sia fatto sentire».

    «Urgh». Hardie lasciò ricadere i documenti sulla scrivania. «Sapete che questa storia si trasformerà in un tornado di merda, vero? Non appena scopriranno che abbiamo trovato un poliziotto assassinato che aveva finto la sua morte, non ci saranno solo due troupe televisive, là fuori. Ci saranno tutte».

    «Ha mai sentito voci riguardanti l’ispettore Bell? Bustarelle, prove mancanti, corruzione?».

    «Ding-Dong? Non diciamo sciocchezze». Hardie incrociò le braccia sul petto. «Piuttosto: dobbiamo coordinare le indagini. Gli Affari Interni e il team di investigazione».

    «I poliziotti onesti non scappano in Spagna per far perdere le loro tracce mentre tutti pensano che siano morti».

    «Può farsi aiutare da un paio di agenti per le sue indagini». Hardie indicò la sua assistente con il doppio mento. «George glieli fornirà».

    La donna sorrise a Logan. «Non si preoccupi, non le darò degli idioti».

    «Spero proprio di no. E mi servirebbe anche una copia dell’indagine sul presunto suicidio dell’ispettore Bell».

    «Credo che possa aiutarla Charlie, per quello».

    Il Numero Due annuì. «Ci penso io».

    Logan si avvicinò alle lavagne magnetiche e restò lì, con la testa piegata di lato, a osservare tutti i casi ancora aperti.

    Hardie tentò la sua voce autoritaria: «Il mio team di investigazione si concentrerà sull’arresto di chi ha accoltellato Ding-Dong. Lei può indagare sulla sua… scomparsa».

    Logan restò dov’era. «È lei che si sta occupando delle ricerche di Ellie Morton?».

    «Mi aspetto che condivida tutto ciò che scoprirà con il mio team. Dovrà fare rapporto direttamente a me».

    Sì, certo. «E il sovrintendente Doig è d’accordo? Non mi sembra molto da lui. Sarà meglio che controlli. Sa, in caso ci sia stato un malinteso».

    Hardie si schiarì la gola. Fregato.

    Logan gli concesse un sorriso. «Da quanto tempo è scomparsa Ellie? Quattro giorni?».

    Il detective Scott picchiettò con il pennarello sulla lavagna. «È l’ispettore Fraser che sta lavorando a quel caso. Io scommetto che è stato il padre adottivo. Era stato denunciato per atti osceni in luogo pubblico, da ragazzo. Pervertito una volta…».

    Logan annuì. «Andrò a parlare con la Fraser».

    Hardie si schiarì di nuovo la gola. «Se potessi riportarla per un attimo all’argomento principale, ispettore: i fascicoli dell’ispettore Bell. Dove sono?»

    «Li sta controllando il detective Rennie». Logan si girò e gli rivolse un sorriso. «Voleva che ci occupassimo della situazione passata, giusto? Della scomparsa di Bell».

    L’uomo lo fissò con uno sguardo perplesso. «Ma gliel’ho detto solo ora».

    Logan sorrise ancora di più. «Vede? Già stiamo collaborando alla grande».

    CAPITOLO 2

    La mensa era deserta. Be’, a parte Ted Tartina, nel suo tabarro verde e marrone, intento a utilizzare la friggitrice, mentre Logan tirava fuori una lattina di Irn-Bru dal frigorifero.

    Logan incastrò il cellulare tra l’orecchio e la spalla mentre cercava qualche spicciolo in tasca. «Trovato niente?».

    Il suono di carte smosse e cartone crepitante si fece sentire dal ricevitore, seguito dalla voce distratta di Rennie. «Nada, zilch, zip, niente di niente. Niente che dica a gran voce sono spariti tanti soldi!, comunque».

    Due monete da cinquanta centesimi e un paio di penny. Tintinnarono nel palmo di Logan mentre andava al bancone. «Magari la faccenda non era collegata a un vecchio caso. Magari è stato un evento della sua vita personale a convincerlo a sparire».

    Un mugugno. «Non mi dica che sto controllando tutte queste scartoffie per nulla, la prego!».

    La porta della mensa si aprì con un tonfo ed entrò una donna truccata come qualcosa che usciva fuori da un banco dei cosmetici di Debenhams. Jane McGrath: completo elegante giacca e pantaloni, acconciatura perfetta, fascicolo sotto un braccio, cellulare all’orecchio e un sorriso stampato in faccia. «Sì, certo… sì. Concordo assolutamente».

    Lo salutò e si servì di un sandwich formaggio e sottaceti e di una lattina di Coca Cola. Poi si mise sotto un braccio un pacchetto di patatine. «Sì, d’accordo… Uh-huh… Sì. Lo so, è terribile. Davvero terribile». Si premette il cellulare contro il petto e il sorriso si trasformò in un ghigno satanico, mentre diceva a Logan, solo in labiale: «Non è fantastico?». Poi tornò al telefono. «È un miracolo che non abbiano riportato ferite più gravi. Non ho bisogno di dirti quanti poliziotti si fanno male sul lavoro ogni anno… Sì… Sì, esatto».

    Rennie gemette, all’orecchio di Logan. «Capo? È ancora lì? Ho detto, la prego non mi dica che sto…».

    «Non dire sciocchezze, Simon: non sarà inutile, se troverai qualcosa. E vedi di mandarmi per messaggio una lista degli aiutanti dell’ispettore Bell».

    «Un momento…». Ancora il suono di carta smossa. «Okay. Vediamo… Ecco. Il più recente è stato il detective Rose Savage. Dio, che nome da poliziotta, eh? Sembra uscito da un thriller poliziesco. Il detective Rose Savage!».

    Jane posò il sandwich, la Coca Cola e le patatine sul bancone. «Parlerò con l’ospedale, ma sono certa che riusciremo a farti avere un’intervista di dieci minuti: Poliziotto coraggioso subisce fratture nell’inseguire un criminale vigliacco!… Sì, come pensavo. Okay… okay. Grazie. Ciao». Chiuse la telefonata e si rilassò, rovesciando indietro la testa e sorridendo raggiante alle piastrelle sul soffitto. «Ah!».

    «Scopri dove lavora adesso questa detective Savage e fammelo sapere».

    «Sì, capo».

    Logan mise via il cellulare, mentre Jane si produceva in una piccola danza della felicità.

    «Indovina un po’ chi ha appena spazzato via tutte quelle stronzate che ci trattano male in prima pagina? Avanti, scommetto che non ci riuscirai».

    Logan aggrottò la fronte. «L’ospedale?».

    «Due agenti stavano inseguendo un ladro, ieri notte, e lui si è infilato in qualche giardino e poi si è arrampicato su un capanno. I due l’hanno seguito e crash! Hanno sfondato il tetto del capanno, cadendo di sotto».

    «Ooh… che male».

    «Uno si è rotto un braccio, l’altro una gamba. Ed è stata una fortuna».

    Aveva ragione. «Soprattutto se si considera quanta roba affilata la gente di solito tiene in quel genere di capanno. Cesoie, accette, forconi, rastrelli, roncole…».

    «Cosa?». Jane si raddrizzò, arricciando il labbro superiore. «No, intendevo dire che abbiamo avuto fortuna che si siano infortunati sul lavoro. I giornali adorano le storie di poliziotti feriti». A quel punto, ricominciò la sua danza della felicità.

    Logan pagò la sua birra. «Il fatto di lavorare per l’ufficio stampa ti ha proprio cambiato, eh?»

    «E, con un po’ di fortuna in più, avranno anche qualche bel livido in faccia. Questo fa sempre effetto, in prima pagina». Poi si girò e si allontanò a passo di danza.

    Logan scosse la testa. «Perché continuiamo ad assumere gente strana? Che c’è di male in qualche semplice, normalissimo…».

    Fu interrotto dalla vibrazione del telefono. Lo prese dalla tasca.

    Un messaggio da rennie l’idiota:

    Det.

    rose savage!!! (

    thriller poliziesco!) lavora alla stazione di Mastrick. In servizio ora. Vuole x caso ke la fcc venire da noi??

    A proposito di gente strana… Logan digitò una risposta.

    No, ci vado io. Sarà meno propensa a scappare, se la colgo di sorpresa. E smettila di scrivere messaggi come una ragazzina degli anni ’90: hai uno smartphone, idiota!

    North Anderson Drive scivolava via fuori dai finestrini, con alti edifici dalle facciate bagnate di pioggia che incombevano più avanti sulla destra. Una coppia china in avanti correva sotto l’acquazzone, trascinandosi dietro un povero spaniel in fondo a un guinzaglio allungabile.

    «…presenza della polizia a Edimburgo, nel corso del fine settimana, per una manifestazione di protesta contro la World Trade Organization Ministerial Conference…».

    Svoltò a sinistra, superando file di piccole case arancioni e villette a schiera di un beige punteggiato di pietre.

    «…evitare la zona, in quanto il traffico intenso sarà molto probabile fino a martedì. E ora passiamo alla cronaca locale: l’Aberdeen Examiner è pronto a puntare lo sguardo su un Guinness World Record, la prossima settimana: la città ospiterà la più grande gara al mondo di mangiatori di stovies…».

    Tre ragazzine se ne stavano su un minuscolo spiazzo erboso, al riparo degli alberi, e condividevano quello che sembrava uno spinello. Continuavano a passarselo, trattenendo il fumo nei polmoni e facendo smorfie.

    Logan fece rallentare la Audi e abbassò il finestrino dal lato del passeggero. Fece un cenno alle ragazze. «Ehi, e allora? Che state combinando?».

    «Via!».

    Scattarono in tre direzioni diverse, mentre la sigaretta fatta a mano finiva nell’erba bagnata.

    Logan sogghignò e richiuse il finestrino.

    E poi la gente osava anche dire che i poliziotti di quartiere erano uno spreco di tempo e risorse.

    «…purtroppo, la pioggia continuerà a tenerci compagnia per i prossimi giorni, con un’area di bassa pressione proveniente dall’Atlantico…».

    Logan svoltò sulla strada successiva, superando altre piccole villette a schiera e raggiungendo Arnage Drive in tempo per vedere una delle ragazzine sbucare in mezzo a due edifici. Si bloccò al centro della strada e restò lì a bocca aperta, prima di voltarsi e tornare indietro di corsa, con braccia e gambe che pompavano come quelle di un’atleta olimpionica.

    Ah, i ragazzi… erano loro che ti davano la forza di continuare.

    Si fermò nel parcheggio dietro al piccolo centro commerciale, quello che serviva più per i furgoni delle consegne che per il pubblico. La facciata dell’edificio era accettabile, ma il retro era un triste lastrone di mattoni e finestre sbarrate in basso, e unità esterne dell’aria condizionata e tettoie di plastica grigia in alto. Tutto il fascino di un cerotto per calli usato.

    Nello spazio tra i cassonetti dell’immondizia era parcheggiata qualche utilitaria, ma Logan si fermò accanto all’unica autopattuglia. Uscì sotto la pioggia.

    La sentì picchiettare sulla visiera del berretto dell’uniforme, mentre si affrettava a raggiungere la porta sul retro della stazione, aprendola ed entrando.

    Le pareti del corridoio erano piene di segni e macchie, e un mucchio di kit da irruzione se ne stava sotto la lavagna magnetica dove gli agenti segnalavano di aver preso un’autopattuglia, insieme a un avviso che segnalava di non far entrare un tizio di nome Grimy Gordon perché l’ultima volta aveva vomitato negli stivali del sergente Norton.

    «Ehilà?».

    Non ci fu risposta, soltanto un telefono che squillava da qualche parte nelle viscere dell’edificio.

    La reception era vuota, con un cartello con sopra scritto chiuso appeso alla porta. Non c’era nessuno neanche negli spogliatoi, o nell’ufficio sul retro.

    Tanto valeva mettersi comodi.

    La sala ricreativa della stazione era grigia e istituzionale, e l’atmosfera depressa non veniva attenuata dalla serie di cartoline di auguri di pronta guarigione attaccate alla bacheca, quasi a coprire del tutto la distesa di note ufficiali e poster motivazionali. Una finestra avrebbe aiutato a rendere il luogo meno buio, ma l’unica fonte di luce era una di quelle lampadine economiche che sembravano pretzel radioattivi. Un mini-frigo ammaccato, un forno a microonde sporco e un vecchio bollitore facevano bella mostra di sé nell’angolo adibito a cucina.

    Logan gettò nell’immondizia la sua bustina di tè e versò nella tazza un po’ di latte parzialmente scremato da un contenitore su cui era attaccato un post-it con la scritta: piantatela di fregarmi il latte, ladri bastardi!!!.

    Si sedette al tavolo traballante e digitò un messaggio sul cellulare:

    È venerdì, ti va cinese a cena? Una bottiglia di vino. Un po’ di sesso…?

    invio.

    La risposta arrivò subito.

    tara:

    Se facciamo pizza, ci sto.

    Fantastico. Ora doveva soltanto…

    Un urlo strozzato riecheggiò nel corridoio, arrivando fino alla sala ricreativa dalla porta aperta.

    Logan posò il tè e fece capolino fuori.

    «Piantala di agitarti!». La detective rischiava di perdere il berretto, e i denti serrati erano macchiati di rosa: sangue proveniente dal labbro inferiore spaccato, con tutta probabilità. Aveva i capelli tirati su in uno chignon e le braccia avvolte intorno alla gola di un ometto secco, con addosso un paio di scarpe da ginnastica luride e una tuta che mostrava più sporcizia che tessuto. L’uomo aveva le mani ammanettate dietro la schiena e si dibatteva nello stretto corridoio.

    Un agente barcollava dall’altra parte del passaggio, davanti alla porta d’entrata, con una mano premuta sul naso e gocce di sangue che trapelavano tra le dita, macchiandogli la giacca catarifrangente. «Unnnngghh…».

    Tutti e tre erano fradici e gocciolanti.

    Capitan Tuta mosse di scatto la testa di lato, serrando i denti spezzati e marci a qualche centimetro dalla faccia del sergente.

    Lei si tirò indietro. «Calmati, stronzo!».

    Lui non si calmò «aaaaaaaaaaargh!», ruggì, in un’esalazione mefitica di fiato che sapeva di pesce. E si accordava alla perfezione alla puzza di cipolla del suo sudore.

    Logan le fece un cenno. «Serve una mano?».

    La detective gli rivolse una smorfia. «Grazie, signore, ma credo che sia tutto sotto controllo. Quindi, se non le spiace?».

    Capitan Tuta Puzzolente la sbatté contro il muro, abbastanza forte da far tintinnare la lavagna magnetica e far piombare qualche pennarello sul pavimento. «lasciami, lasciami, lasciami!».

    «Sicura di non aver bisogno di una mano?»

    «, sicurissima».

    L’uomo si girò e lei lo afferrò per la tuta sporca. Si strappò lungo la chiusura lampo, mostrando una fila di costole coperte di lividi e rilevate come i tasti di uno xilofono. A quel punto, Capitan Tuta si lanciò avanti con la fronte come se fosse un ariete.

    La donna riuscì a stento a girare il viso, prendendosi la testata su una guancia invece che sul naso. Barcollò indietro.

    «Non è un problema, davvero».

    Capitan Tuta Puzzolente continuò a roteare su se stesso, con le mani bloccate dietro la schiena. «Non l’ho toccato! Sono stati loro! sono stati loro!». Saltellando indietro di un paio di passi, tornò alla carica e la colpì alle costole con una di quelle luride scarpe da ginnastica. E poi ancora.

    «Aaaaargh! Okay! Okay!».

    Logan uscì dalla sala ricreativa e afferrò il pezzo di plastica che univa le manette del tizio, sollevandolo con uno strattone come se stesse aprendo il bagagliaio di una macchina.

    Capitan Tuta Puzzolente urlò, mentre entrambe le braccia minacciavano di disarticolarsi. Piombò a terra, scalciando e buttando fuori altre urla mefitiche, mentre Logan continuava a bloccarlo in quel modo, piegandosi appena di più in avanti. Da vicino, il suo sudore sapeva anche di gorgonzola e di salsicce marce.

    La donna arretrò fino a sedersi contro la parete del corridoio. Sputò una boccata di sangue.

    Capitan Tuta urlò: «non lasciate che mi mangino!».

    L’agente con il naso sanguinante avanzò ondeggiando e si gettò sulle gambe dell’uomo, lottando per bloccargliele con delle fascette. «Sta’ fermo!».

    Logan tese la mano alla detective. «Mi lasci indovinare. Detective Savage? Sono Logan McRae. Devo parlarle a proposito dell’ispettore Bell».

    Logan si appoggiò alla parete del corridoio, con la tazza di tè tiepida contro il petto. La porta sul retro della stazione era spalancata, offrendogli una deliziosa vista dell’agente Naso Rotto e della detective Savage che aiutavano Capitan Tuta Puzzolente a salire sul sedile posteriore dell’autopattuglia parcheggiata accanto alla sua Audi.

    La pioggia picchiava sui tetti delle macchine, rimbalzava sull’asfalto bagnato e sibilava contro il mondo come un milione di gatti infuriati.

    Ding.

    Prese il cellulare e sbuffò.

    l’orribile steel:

    Avanti, solo una serata. Una piccola, minuscola serata.

    La sua rapida risposta fu:

    Sono occupato.

    La detective Savage chiuse con un tonfo lo sportello dell’autopattuglia e tornò nella stazione. Si asciugò il viso dalla pioggia e aggrottò la fronte. «Dio, adoro i venerdì».

    Logan accennò alla macchina. «È simpatico».

    L’ometto continuava a dibattersi contro la cintura di sicurezza e a strillare, sebbene le sue urla fossero soffocate dallo sportello chiuso, mentre l’agente Naso Rotto gli mostrava il medio attraverso il finestrino.

    La Savage si tolse il giubbotto catarifrangente. «Voleva parlare dell’ispettore Bell?»

    «Non vuole prima portare il suo amico in cella?»

    «Chi, Dave il nervosetto? Nah, è fuori di sé. Non ci permetteranno di farlo entrare finché non saranno sicuri che non andrà in overdose o non soffocherà nel suo stesso vomito. E non lo vuole neanche l’ospedale, finché è nella fase violenta. Quindi può starsene lì a sbollire per un po’. Smithy gli darà un’occhiata». Si sfiorò il labbro rotto e fece una smorfia. C’era del sangue sulla punta del dito. «Come mai questo improvviso interesse per Ding-Dong?».

    «Ha sentito quello che è successo stamattina?»

    «Ho inseguito Dave dall’inizio del turno. Ho corso già una dannata maratona, oggi… altro che Mo Farah, dovremmo mandare un paio di tossici alle prossime Olimpiadi».

    «Okay». Logan rientrò nella sala ricreativa. «Lei era l’aiutante di Bell».

    La donna sembrò risentirsi. «Lavoravo con lui, sì».

    «Com’era, come capo?»

    «Bravo. Sì. Giusto. Non si prendeva tutto il merito. E mi ascoltava».

    Logan mise su il bollitore e prese una tazza pulita dall’armadietto. «E come stava, secondo lei, a livello mentale?»

    «Si è fatto saltare il cervello in una roulotte. Lei che ne pensa?».

    Logan prese una bustina di tè. «Penso che nessuno lo farebbe senza un buon motivo. Qual era il suo?».

    La donna distolse lo sguardo. Si strinse nelle spalle. «L’ultimo caso su cui abbiamo lavorato. È stata… dura, per lui».

    «Dura in che senso?».

    «Ding-Dong… Senta: Aiden MacAuley aveva tre anni, quando è stato rapito. Era fuori con suo padre nei boschi vicino alla loro casa. Fred Marshall li ha aggrediti. Ha ucciso il padre e rapito Aiden».

    «Fred Marshall?»

    «E non abbiamo potuto fare niente. Sapevamo che era stato lui: si è vantato di quell’aggressione con un amico al pub. Gli ha raccontato tutti i raccapriccianti dettagli di come aveva spaccato la testa di Kenneth MacAuley con una pietra. Ma non ha mai detto cos’era accaduto al bambino. Così, l’abbiamo arrestato e torchiato. Ancora, ancora e poi ancora. Ma alla fine, non avevamo prove per inchiodarlo».

    Il bollitore cominciò a tintinnare e Logan versò l’acqua calda nella tazza.

    La Savage si sfiorò di nuovo il labbro spaccato. «Certo, non abbiamo potuto dire niente di tutto questo alla madre di Aiden. Stiamo sbattendo la testa contro l’ufficio della Procura di Sua Maestà, ma finora, a lei potrà sembrare soltanto che non abbiamo fatto e non stiamo facendo nulla per ritrovare suo figlio e arrestare l’uomo che ha ucciso suo marito».

    «Cos’è accaduto con Fred Marshall?».

    «Ding-Dong ci è stato molto male. Eravamo un’ottima squadra, sa? E lui non riusciva a togliersi il caso dalla testa: non dormiva più, era sempre stressato…». La donna si strinse nelle spalle. «E poi ha cominciato a cambiare del tutto: è diventato nervoso, teso, irritabile. Si infuriava senza motivo».

    La Savage fissò il pianale del tavolo. Scosse la testa.

    Da qualche parte, all’interno della stazione, il telefono di prima ricominciò a squillare.

    «È… è venuto a casa mia… alle due del mattino. Mi ha detto di badare a sua moglie. Che dovevo proteggerla dalla stampa e dagli altri parassiti. Ed è stata l’ultima volta in cui l’ho visto». La donna si schiarì la gola. «Finché non ho dovuto riconoscere il suo corpo all’obitorio».

    Scosse di nuovo la testa. Sbatté le palpebre. Si asciugò gli occhi. E infine sbuffò. «Comunque… non c’è più niente che possiamo farci, ormai, giusto?».

    «Quindi, lei ha identificato il suo corpo?»

    «Quel che ne restava. Secondo i rapporti, ha dato fuoco alla roulotte prima di ficcarsi in bocca il fucile. E quell’affare ha divampato come un pezzo di legno secco». Prese un respiro profondo. «L’odore era… già».

    Logan lasciò che il silenzio si prolungasse.

    Il telefono della stazione si zittì per un paio di secondi, poi si lanciò ancora una volta nella sua monotona richiesta di attenzioni.

    La Savage scosse la testa. «Non sono riusciti a ottenere alcuna traccia di dna utilizzabile, dai resti. Lo sa com’è, quando si cuoce tutto». Rabbrividì. «Hanno dovuto riconoscerlo dagli effetti personali: anelli, orologio, portafoglio. Ma c’era la sua auto sulla scena, e il biglietto d’addio, e ciò che restava del fucile da caccia di suo padre; hanno trovato anche qualche sua impronta fuori dalla roulotte…». La Savage strinse gli occhi. «Comunque, non mi ha ancora spiegato il motivo di questo improvviso interesse».

    Logan tolse la bustina di tè dalla tazza e vi aggiunse un po’ di latte e due zollette di zucchero, prima di mescolare. «Ha mai pensato che potesse essere coinvolto in qualcosa di losco? E che magari gli si sia rivoltato contro?»

    «Ding-Dong? No. Era un poliziotto onesto. Il più onesto con cui mi sia mai capitato di lavorare».

    «Hmmm…». Lui le tese la tazza

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