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Romolo Augusto. L'ultimo Cesare
Romolo Augusto. L'ultimo Cesare
Romolo Augusto. L'ultimo Cesare
E-book382 pagine4 ore

Romolo Augusto. L'ultimo Cesare

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Info su questo ebook

476 d.C. - Nel disfacimento dell'Impero Romano d'Occidente l'ultimo imperatore di Roma,
il giovane Romolo Augusto, viene deposto da Odoacre e relegato in prigionia
in una villa in Campania. Mentre vede il suo mondo dissolversi, Romolo
promette a sé stesso di avere la sua vendetta.
Negli oscuri corridoi della sua prigione, Romolo troverà un inaspettato aiuto
che gli ridarà la libertà, dando l'inizio a un'incredibile avventura ai confini
del suo defunto regno, in cerca del modo di ritornare, un giorno, nel luogo
dove era stato signore di metà del mondo.

 
LinguaItaliano
Data di uscita25 dic 2018
ISBN9780244144920
Romolo Augusto. L'ultimo Cesare

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    Anteprima del libro

    Romolo Augusto. L'ultimo Cesare - Patrizio Corda

    RINGRAZIAMENTI

    ROMOLO

    AUGUSTO

    L’ULTIMO CESARE

    Patrizio Corda

    A mia madre

    I

    Acclamazione

    Roma, 31 Ottobre 475 d.C.

    Romolo si voltò ancora una volta e incrociò lo sguardo del padre, fiero e rassicurante alle sue spalle.

    Non avere paura.

    Non ne avrebbe dovuto avere, effettivamente.

    Che pericoli avrebbe mai corso?

    Si sforzò di assumere un portamento più regale, mentre allargava timidamente le braccia e accoglieva l’acclamazione del Senato nella Curia Iulia, a Roma, il centro dell’impero.

    Quello che ora era il suo impero .

    Chiunque altro, fatti alla mano, non si sarebbe minimamente preoccupato. Suo padre, Flavio Oreste, era il patrizio in carica, spadroneggiava con le sue truppe romano-barbariche su tutta l’Italia ed era di fatto l’uomo più potente e rispettato dell’intero Impero Romano d’Occidente.

    Il sovrano nominato dall’imperatore d’Oriente Leone, l’ex governatore della Dalmazia Giulio Nepote, non aveva potuto opporsi alla volontà di suo padre, che l’aveva incalzato con le sue milizie e costretto a fuggire frettolosamente da Ravenna fino alle coste da cui era venuto.

    Questo probabilmente avrebbe creato non pochi attriti con la più potente corte orientale, non c’era alcun dubbio in merito.

    Ma perché diavolo si faceva simili problemi a quattordici anni?

    Era un ragazzino!

    Avrebbe semplicemente dovuto godersi il momento, iniziare a prendere confidenza con la dirompente sensazione di potere che derivava da quella porpora che vestiva e che gli pareva invece sempre o troppo lunga o troppo corta sul suo fisico longilineo.

    Perché anziché fremere dalla gioia era assalito da tutte quelle ansie e quei dubbi?

    La risposta Romolo la sapeva.

    Era tanto preoccupato perché lui ci teneva.

    Non sapeva cosa credesse il padre, ma lui non sarebbe certamente stato il suo fantoccio. Lui voleva veramente governare, e farlo al meglio della sue possibilità.

    E quei senatori che vedeva rivolgergli le lodi più disparate, li avrebbe veramente voluti coinvolgere, strapparli al perseguire i propri interessi di impresari e latifondisti che stava gettando nella carestia l’impero e ricordare loro quale ruolo ricoprissero.

    Avrebbe voluto regnare in concordia con loro e risollevare con nuove soluzioni politiche una realtà che invece era allo sfacelo.

    Era un ragazzino, sì, ma aveva già un quadro ben chiaro della situazione.

    Il popolo era ridotto alla fame. Tutt’attorno all’Italia, eccezion fatta che per il Norico, la Dalmazia (in realtà fedele a Giulio Nepote) e parte della Gallia, erano barbari che si erano presi con la forza ciò che Roma non aveva più saputo difendere col passare del tempo.

    Il gettito fiscale non bastava più. La gente preferiva farsi schiava dei possidenti – e tanti di questi stavano lì davanti a lui – piuttosto che arruolarsi e invertire la tendenza che vedeva le armate imperiali quasi per la totalità composte di mercenari barbari.

    Anche le milizie del padre lo erano.

    Anche suo padre, in parte, era un barbaro. Aveva addirittura servito sotto Attila in gioventù, al cospetto di quel mostro che per poco non aveva dato l’impero alle fiamme.

    Proprio per ragioni di sangue, Oreste non aveva potuto assurgere al diadema. Per questo aveva deciso di far eleggere lui.

    Un nobile Romano dal sangue puro.

    Ma anche ragazzino facile da manovrare.

    Voleva bene al padre, ma non sarebbe stato così.

    Appena ne avesse avuto modo, gliel’avrebbe detto senza mezzi termini. Avrebbe, per quanto possibile, fatto del suo meglio per regnare con saggezza. Non avrebbe avuto paura di chiedere consiglio, a lui come a chiunque altro vista la sua età, ma avrebbe preso lui le decisioni alla fine.

    Quella porpora così scomoda e che sembrava stonare col verdore dei suoi anni gli parve averlo già catapultato in una realtà differente, dove i giochi e la spensieratezza facevano ora spazio al senso del dovere e alla responsabilità di risollevare un impero glorioso ormai ridotto all’ombra di ciò che era stato.

    I nomi che portava, d’altronde, avrebbero dovuto fargli capire tempo prima a cosa fosse destinato.

    Mentre le grida e le invocazioni dei senatori, per la verità non così cariche d’entusiasmo come aveva sperato scemavano, Romolo si mise a sedere con finta calma e li scrutò più attentamente.

    Sentì alle spalle lo sguardo gravoso del padre.

    Di fronte a lui, occhi di gente che aveva passato la vita a curare il proprio tornaconto, abili menti politiche, opportuniste e dedite a null’altro se non al proprio costante arricchimento.

    In quell’edificio dove era stata fatta la storia di Roma, sentì venire ineluttabile il momento che segnava la sua ascesa al potere.

    Eppure non riuscì a scacciare la sinistra sensazione di essere finito in una trappola.

    II

    L’ultimo rifugio

    Palazzo di Diocleziano, Dicembre 475 d.C.

    Giulio Nepote dette ordine a tutti di lasciarlo solo.

    Segretari e servi si allontanarono silenziosamente, lasciandosi dietro solo il fruscio impercettibile delle loro vesti.

    Giulio rimase a contemplare quella meravigliosa vista che dal palazzo di Spalato dava sulle isole vicine, bagnate dalle acque dell’Adriatico che gli parvero mescolarsi al cielo pomeridiano color miele. Il mare era piatto come una tavola.

    Chissà se un giorno avrebbe visto imbarcazioni con le effigi d’Oriente lambire quelle coste.

    Già, perché la sua sola speranza di vedere nuovamente il suo nome associato all’impero era che Costantinopoli gli venisse in aiuto.

    D’altronde era dal Bosforo che era giunta la sua nomina. Formalmente, era ancora l’augusto. Un augusto fuggiasco, tecnicamente in attesa di raccogliere le armi per spazzare via gli usurpatori, comandati da quell’uomo cui egli stesso aveva affidato le superstiti armate romane.

    Romane, come per la sua nomina, solo sul piano formale.

    Oreste era un barbaro al comando di altri barbari.

    Non c’era più neppure un’organizzazione militare degna di tale nome: tutt’al più, ogni squadrone era riconducibile a una tribù, il loro ufficiale nient’altro che un capo clan.

    Quelli che gli veniva difficile chiamare soldati di Roma, erano genti che non condividevano neppure una lingua comune.

    Eppure, nonostante questo, non era riuscito ad opporre anche un solo accenno di resistenza.

    Era certo che Oreste si fosse accordato in segreto con la Curia.

    Il Senato di Roma non amava essere estromesso dalle decisioni, sebbene quando ce ne fosse stata la necessità avesse sempre infilato la testa sotto la sabbia.

    Un augusto nominato dall’impero d’Oriente era stata per quel nobile consesso una sfida, un affronto imperdonabile alla sua storia e al suo potere.

    Un potere, ancora una volta, solo formale.

    Tant’è che era bastato un ammasso di mercenari per convincerli a nominare con voto unanime il figlio di Oreste, Romolo, che già chiamavano Augustolo per la sua tenera età.

    Povero ragazzo, non sapeva nella tana di quali bestie si fosse andato a cacciare.

    In sostanza, tutto l’impero d’Occidente era un insieme di inutili formalità. Il suo esercito, l’utilità del Senato, le terre perse contro i barbari che però si ostinavano a reputare come gentilmente loro concesse. La sua corona.

    Tutto finto, tutto solamente sulla carta.

    E come la carta stessa, facile a distruggersi, a ridursi in cenere e scomparire, condannata all’oblio.

    Bene aveva fatto Diocleziano, il cesare nel cui palazzo aveva preso residenza, ad abdicare per vivere in pace gli ultimi anni della sua esistenza!

    A lui, invece, sarebbe toccato passare il resto della sua vita, ammesso che Oreste non fosse venuto a cercarlo, a rimuginare, a riempirsi la testa di se e ma, a fantasticare su scenari a lui favorevoli che non si sarebbero mai realizzati.

    Avrebbe cinto un diadema di carta sino alla fine dei suoi giorni.

    L’impero si sarebbe dissolto di lì a poco.

    Lo sentiva.

    Aveva accettato la porpora con tutti i buoni propositi, ma una volta giunto in Italia aveva capito che i racconti giunti nella sua prospera Dalmazia non erano neanche minimamente vicini alla tremenda realtà dei fatti.

    L’economia era al collasso. Burocrazia e opere civiche sembravano essersi fermate ai tempi di Onorio, decenni prima. La corruzione dilagava, e le tasse erano insostenibili. Non di rado chi aveva un’attività si ritrovava costretto a vendere i propri figli per pagare i debiti contratti con potenti o anche veri e propri aguzzini.

    I cittadini parevano tutti mendicanti, i bambini ricoperti di sporcizia, pidocchiosi e sfregiati da bubboni ed eczemi.

    La sporcizia e i rifiuti erano ovunque.

    I grandiosi monumenti del passato erano diventati ritrovo di cani randagi o peggio ancora orinali. Sotto quei fantastici porticati torme di pezzenti e mendicanti si combattevano tozzi di pane raffermo, in attesa dell’ennesima elargizione gratuita di viveri.

    La Chiesa, forte di queste sue mansioni, era diventata potentissima, e preti e diaconi con le loro parole soggiogavano facilmente il popolo quasi del tutto analfabeta, instradandolo alla rassegnazione in attesa del giudizio di Dio e la fine dei tempi.

    La gente credeva più a un monaco che all’augusto.

    Andavano a farsi schiavi dei latifondisti, rinunciando a posare l’aratro per prendere le armi e conquistare nuove terre che magari sarebbero potute andare proprio a loro.

    E i ricchi intanto diventavano sempre più facoltosi, mentre la povertà si estendeva man mano a una porzione sempre più grande della popolazione.

    I Romani odiavano i barbari, ma non avevano il coraggio né la voglia di difendersi da loro, di riprendersi ciò che gli spettava.

    Aveva ereditato delle casse imperiali vuote, e i pochi fondi che aveva potuto gestire aveva dovuto dedicarli al foraggiamento delle truppe, le stesse truppe che poi Oreste gli aveva rivolto contro.

    E così, per quanto avesse cercato di negare l’evidenza sino all’ultimo e sperare nella buona fede del patrizio, se l’era trovato alle porte di Ravenna.

    Era dovuto scappare.

    Sperava di poter organizzare una riscossa, ma non sapeva onestamente da dove iniziare.

    Non si fidava in tutta sincerità neanche dei suoi ufficiali, ora che la sua posizione si era indebolita.

    La Dalmazia era una regione ricca e fedele, ben difesa da una flotta nutrita, la cui gente era felice e apparentemente disinteressata alle sventure di quell’Italia così vicina ma al contempo così lontana.

    I suoi sudditi non avrebbero mai neppure considerato l’idea di scendere in guerra e rinunciare ai propri piaceri per riscattare una landa desolata, improduttiva e popolata da gente ormai ridotta in miseria ma che non aveva perso la boria ereditata da un passato glorioso tanto lontano quanto irrecuperabile.

    Maledizione, aveva persino sposato pure una nipote di Leone!

    Eppure non era servito a garantirgli più appoggio.

    D’altronde, anche a Oriente c’erano stati degli avvicendamenti.

    Leone era morto, e così il nipote Leone II. Zenone era asceso al potere, ma poi il generale Basilisco ne aveva usurpato il trono.

    Non c’era che da attendere i prossimi risvolti, e confidare in una conferma della sua nomina e in una possibile mano d’aiuto.

    Da solo, per lui sarebbe stato impossibile.

    Quel ragionare incessante gli fece perdere la cognizione del tempo.

    Si rese conto improvvisamente che la sera, come accade spesso in inverno, era scesa improvvisamente.

    Un velo violaceo stava calando sulle isole e il mare.

    Non restavano che fiochi spruzzi arancioni all’orizzonte, lasciti del sole morente.

    Giulio continuò ad accarezzare il mare con lo sguardo, poi strinse i pugni con veemenza chinando il capo.

    Iniziava a fare freddo.

    Si disse che avrebbe dovuto iniziare a convivere con quella sensazione, che probabilmente l’avrebbe accompagnato sino alla fine della sua esistenza.

    La sensazione di essere completamente impotente.

    III

    La promessa

    Norico, Gennaio 476 d.C.

    Odoacre rimase chino, la testa quasi tra le ginocchia mentre si passava le mani sul viso. Sentì la barba, rossa e ispida di recente rasatura pungolargli i palmi. Poi si stropicciò gli occhi stanchi e arrossati e risollevò la schiena, seduto sul rozzo scranno in legno al centro della sua tenda drappeggiata di pelli.

    Fece cenno al segretario di far entrare chi aveva chiesto udienza.

    Si presentò al suo cospetto un gruppo di un paio di soldati

    Riconobbe tra i loro volti un miscuglio eterogeneo di razze, tra Eruli, Sciri e Rugi e altri di minore importanza.

    Si fece avanti un soldato anziano ma ancora robusto e ardimentoso, ben più vecchio di lui. Aveva il viso e il corpo ricoperti di tatuaggi e cicatrici. Indosso, non un indumento che potesse far supporre che si trattasse di un soldato romano.

    «Principe Odoacre» esordì quello.

    Iniziava male. Odiava sentirsi chiamare principe, sebbene effettivamente lo fosse, in quanto figlio del re degli Eruli, Edecon.

    Aveva sempre chiesto di essere chiamato generale, o al limite comes dai suoi soldati. Titoli romani, perché romana era quell’armata, almeno in teoria.

    Ma era da un po' di tempo che i soldati, spinti dalla smania di essere ricompensati per i loro servigi dopo le promesse di Oreste, cercavano di fare appello al fatto che, in quanto nati tutti aldilà dei confini imperiali, ci potesse essere una qualche solidarietà tra loro.

    «Principe» ripeté ostinato il soldato, «immagino che tu sappia perché siamo qui a rubare il tuo tempo prezioso ».

    Odoacre non mosse un ciglio. Cercò di tenere un portamento che aiutato dal suo fisico robusto e ancora atletico potesse essere il più autoritario possibile. Fece guizzare gli occhi verde smeraldo, fissando negli occhi tutti i presenti.

    Soldati di Roma, ma anche suoi . Ecco perché si sentiva così a disagio quando quella faccenda veniva portata a galla.

    «Immagino di sì» rispose seccamente.

    L’uomo non gli parve intimorito dalla sua durezza.

    «Circa gli accordi col patrizio Oreste, siamo a chiederti se hai delle buone notizie riguardo l’ hospitalitas ».

    Lo sapeva! Ecco che tornavano a tirarlo in mezzo.

    Ma in fondo avevano ragione. Pagati a stento con gli ultimi fondi imperiali, quei mercenari che facevano riferimento a lui e che di lui si fidavano si erano sentiti dire da Oreste che come compenso per la loro lealtà avrebbero ricevuto un terzo delle terre d’Italia.

    Il giusto premio per averlo aiutato a rovesciare Giulio Nepote.

    Sentì un fastidioso bruciore pervadergli lo stomaco.

    Sì, aveva notizie in tal senso.

    Ma non erano buone.

    Oreste aveva fatto coniare solidi a Roma, Milano, Ravenna e Arles con il volto del figlio giovinetto, Romolo, che aveva da poco insediato al potere.

    Era convinto di poter disporre dell’Italia e delle sue armate come voleva.

    Bè, non era proprio così. E se l’aveva realizzato un barbaro come lui, non capiva proprio come il patrizio dei Romani avesse potuto credere di farsi beffe delle sue truppe in modo tanto spudorato.

    Sì, aveva scritto a Oreste.

    Gli aveva chiesto, a nome dell’armata d’Italia, di corrispondere quanto era stato promesso quanto prima. Non che a lui interessasse avere ulteriori possedimenti. Suo padre era stato un grande re, che aveva combattuto con Attila, e aveva lasciato ai suoi figli una moltitudine di proprietà e ricchezze.

    Ma quei soldati che non sapevano fare altro nella loro vita che combattere per il miglior offerente meritavano un riconoscimento. Una prospettiva di vita e stabilità.

    E se non l’avessero avuto, ulteriori problemi sarebbero insorti.

    Come faceva a non capirlo, quell’idiota?

    Aveva portato quelle tribù in Italia per servirsene e poi pensava di poterle mandare nuovamente nelle foreste, senza un soldo o una parvenza di bottino e di restarsene bello tranquillo a Ravenna?

    Evidentemente, aveva sopravvalutato quell’uomo.

    Da quando aveva messo piede nelle terre imperiali aveva imparato l’arte tipicamente romana dell’essere melliflui e del non compromettersi eccessivamente schierandosi da una parte piuttosto che da un’altra. Di fatti, al rifiuto – freddo e sdegnoso – di Oreste aveva cercato di trattenersi per non inimicarselo.

    Ma moralmente, sentiva di non potersi esimere dallo stare dalla parte dei suoi uomini. Il sangue era il sangue.

    E loro su quello stavano cercando di fare leva per trarlo dalla loro.

    L’equilibrio era veramente precario, e lui si trovava nel mezzo, tra il patrizio e i suoi uomini, tra la carriera e la sua identità.

    Si schiarì leggermente la gola.

    Poi assunse un’espressione stizzita, dura come i tratti del suo viso, irrigidendo la mandibola possente.

    «Ebbene, soldati, credete che le missive possano giungere così, in un batter d’occhio fino a Ravenna? Sapete bene dove siamo. Ci vorrà ancora del tempo perché possa giungermi la risposta del patrizio Oreste».

    «Ma principe, noi…»

    « Io sono il vostro generale » scandì con voce profonda.

    Il soldato s’irrigidì istantaneamente.

    «Vi ho già detto che perorerò la vostra causa presso Oreste. Cos’altro volete? Non appena avrò notizie, sarete ovviamente i primi a saperlo. E ora andate».

    Gli uomini fecero un veloce saluto militare e uscirono dalla tenda.

    Rimasto da solo, Odoacre sospirò e si lasciò cadere sulla sedia.

    Era meglio che si preparasse all’irreparabile.

    IV

    Speranze

    Roma, Marzo 476 d.C.

    Aveva insistito nonostante le rimostranze di sua madre Flavia Serena, che continuava ad aggrapparsi al suo braccio nonostante fossero al sicuro in quel carro scortato da guardie in incognito.

    La gente avrebbe pensato che si trattasse del passaggio di qualche ricco possidente, tutt’al più qualche senatore.

    Romolo era stato irremovibile nella sua decisione.

    Voleva girare per Roma. Voleva vedere la sua città.

    Aveva un terribile bisogno di capire.

    I suoi primi mesi erano stati durissimi. I ministri sembravano compatirlo e non informarlo di nulla in virtù della sua età, credendo che il suo apporto e la sua opinione fossero acerbe e irrilevanti.

    Aveva battuto i pugni sui muri, soffocato a stento le grida.

    Girava per i suoi appartamenti come una furia, sentendosi deriso.

    Passava ore allo specchio a guardarsi.

    Esile, alto e di bell’aspetto con i tratti delicati e il naso fine dei nobili. I capelli tra il biondo e il castano, di lunghezza media e ondulati. Già iniziava a piacersi, con la porpora.

    Ma allora, se aveva tutti i requisiti, di rango e non, perché non lo rendevano partecipe? Perché lo trattavano come un bambino?

    Era assurdo. Sarebbe dovuto essere lui a decidere di chi circondarsi, e non quegli oscuri dignitari!

    Aveva già avuto un confronto abbastanza duro con il padre, quando questi aveva deciso di convocare una seduta in Senato e lui, con la spregiudicatezza dell’adolescenza, gli aveva fatto notare che spettava all’augusto, cioè lui , convocare il consesso.

    Il padre l’aveva squadrato gelido, ma aveva preferito sorvolare.

    Sua madre, lei invece capiva la sua frustrazione.

    Non poteva accettare di essere una marionetta in mano di gente abituata a cambiare bandiera pur di salvare la propria poltrona.

    Sapeva che il padre aveva qualche grana con l’esercito, ma non vi aveva badato più di tanto. A lui interessava risollevare l’economia.

    Ma tutto quello che gli avevano detto, tra inchini e formule retoriche piene di piaggeria, era che al momento le casse languivano, e che non rimaneva che appellarsi alla clemenza divina per le disgrazie dei loro tempi.

    Anche Papa Ilario gli era parso schivo durante il colloquio che avevano tenuto, quasi si sentisse sminuito a interloquire con un ragazzetto, per quanto educato e molto più colto della media.

    La madre lo accarezzò delicatamente, intuendo dalla tristezza del suo sguardo a cosa stesse pensando.

    «Grazie» le disse con affetto sincero Romolo, sorridendole e baciandola sulla guancia.

    No, lui voleva fare l’augusto. Non solo esserlo formalmente.

    Aveva preteso, arrivando a urlare e a lanciare quello che gli capitava a portata di mano, di uscire in città. E davanti alle suppliche della madre, preoccupata per la sua incolumità, aveva deciso di accettare il compromesso della carrozza.

    Quale triste spettacolo gli si era presentato!

    Con gli occhi del rampollo adolescente non vi aveva mai fatto caso, ma ora che il senso civico ardeva in lui, vedeva.

    E gli veniva da piangere.

    Il tanfo di Roma era insopportabile, una commistione di liquami che faticavano a essere smaltiti dalle cloache e qualcos’altro di indefinito, tra calderoni fumanti, carcasse di animali imputridite, urina e cibo avariato abbandonato per strada.

    Scostando le tende aveva visto bambini appestati, i capelli unti e pieni di pidocchi. La pancia gonfia e le costole sporgenti, gli arti scheletrici, i vestiti fradici e rattoppati.

    La maggior parte delle finestre delle botteghe erano sprangate o recava i vetri infranti. Era risaputo che le furie dei tifosi del circo non risparmiassero neppure i loro concittadini.

    Templi gloriosi come quello di Giove Capitolino, che aveva vegliato sull’ascesa di Roma, erano chiusi ma comunque accessibili ai miserabili che vi cercavano ricovero, o peggio ancora ai vandali che vi solevano fare i propri bisogni.

    Anche il pudore era ormai dimenticato.

    Le Terme di Nerone gli erano parse in pessimo stato.

    Ovunque erano buche, e più di una volta il carro aveva rischiato di rimetterci una ruota. Aveva visto torme di preti salmodianti esortare i passanti ad abbandonarsi al richiamo di Cristo, rinunciando a combattere le disgrazie terrene.

    E la gente si assiepava intorno a loro, per poi andare a cercare qualche Ebreo da malmenare in nome di Gesù.

    Incrociò lo sguardo con quello mesto della madre.

    Che non si preoccupasse, perché in quello sfacelo fatto di povertà totale, di carenza di risorse, di totale sfiducia verso il futuro aveva comunque trovato qualcosa da cui trarre ispirazione.

    In quella visita durata una giornata intera, con uno degli slanci tipici della gioventù si era abbandonato alla magnificenza dei monumenti eretti e dedicati ai grandi del passato.

    Il Colosseo, il Circo Massimo, la Colonna Aureliana.

    E poi ancora, il Pantheon, il Mausoleo di Adriano e gli archi di Costantino e Claudio.

    Ma su tutti quei magnifici tesori del passato, ciò che l’aveva fatto cadere in uno stato di totale ammirazione era stata la Colonna di Marco Aurelio.

    Colpita come per magia da un raggio di sole in quel giorno piovoso, la colonna nel pieno del Campo Marzio, con i suoi bassorilievi dettagliatissimi e la sua incredibile altezza, gli era sembrato potesse parlargli.

    L’augusto filosofo. L’aveva letto e riletto, studiato e custodito gelosamente nel suo cuore. Se avesse dovuto scegliere un imperatore cui ispirarsi, sarebbe sicuramente stato lui.

    Si rammaricò di non esser potuto uscire dal carro per stare ai piedi di quella meraviglia, rimirarla da vicino come aveva potuto fare liberamente sino a pochi mesi fa. E perché no, magari chiedere consiglio a quell’uomo illuminato su cosa fare per la sua gente, su come rendersi utile malgrado la sua verde età.

    Su come risollevare quella città che andava disfacendosi ma che amava alla follia, e con essa l’impero che era stato e che sembrava non potesse essere più.

    Prima di ripartire, aveva visto un gruppetto di mercenari barbari bighellonare col naso all’insù in quell’autentico museo a cielo aperto, quasi intimoriti.

    Pensò che Marco Aurelio aveva passato la sua vita a pianificare campagne per sconfiggere e tenere lontano quella gente dai confini imperiali.

    Invece ora i barbari erano tra loro, forse anche più numerosi, forti e bramosi di far loro tutta quella magnificenza cui non sembrava loro vero di poter ammirare.

    I Romani erano invece vecchi, flaccidi, avidi e pigri, dediti solo alla lussuria e agli svaghi gretti come le corse, i dadi, le donne di malaffare. Totalmente disinteressati alla cosa pubblica.

    Pareva impossibile. Ma lui ci avrebbe comunque provato.

    Quelle testimonianze della grandezza passata di Roma gli fecero credere che tutto potesse essere realizzabile. Se loro avevano esteso l’influenza dell’impero su tutto il mondo conosciuto partendo dal nulla, così avrebbe potuto fare lui, con un po' di fortuna e con la moderazione che Marco Aurelio gli aveva suggerito attraverso i suoi scritti sublimi.

    Roma si sarebbe risollevata e sarebbe iniziata una nuova era.

    Sarebbe stato faticoso, ma lui aveva dalla sua l’età e la voglia di crescere assieme alla capitale dell’impero che ora reggeva.

    Chiuse per un attimo gli occhi e strinse i pugni che teneva sulle ginocchia. Poi scostò nuovamente la tenda e si guardò indietro.

    La colonna di Marco Aurelio era ormai lontana.

    Ma lui si ripromise che quella sera sarebbe tornato a chiedergli consiglio, tuffandosi nuovamente nella lettura dei lasciti di quell’uomo immenso del quale sperò un giorno di essere all’altezza.

    V

    Rivalsa

    Isauria, Giugno 476 d.C.

    Zenone continuò a salire sul colle ricoperto di macchia, noncurante delle sue truppe abbarbicatesi poco più a valle.

    Voleva rimanere solo per un po'.

    Vagliare, senza le intromissioni costanti della moglie Ariadne, quante effettive possibilità avesse di fare nuovamente suo l’impero d’Oriente. Scrutò l’orizzonte corrucciato.

    A quel punto, ne aveva veramente tante.

    In primis aveva dalla sua il fatto che, pur braccato, era riuscito a fuggire con quasi tutto l’incalcolabile tesoro imperiale di Costantinopoli. Carri e carri ricolmi di solidi d’oro, gioielli, gemme e oggetti preziosi. Della ricchezza d’Oriente, i

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