Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'infermiera di Hitler
L'infermiera di Hitler
L'infermiera di Hitler
E-book352 pagine5 ore

L'infermiera di Hitler

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un'autrice bestseller di USA Today

Germania, 1944. Prelevata dal campo di concentramento in cui era prigioniera, Anke Hoff non ha idea del destino che la attende. Quando le viene ordinato di assistere, come ostetrica, qualcuno molto vicino a Hitler è costretta ad accettare: in caso contrario tutta la sua famiglia verrebbe uccisa. Nonostante l’odio per il regime che ha perseguitato lei e i suoi cari, Anke dovrà fare del suo meglio per prendersi cura della misteriosa donna e del bambino che porta in grembo, la cui vita è legata a doppio filo alla sua. Ma nel rifugio di Berghof, la residenza segreta del Führer tra le Alpi bavaresi, niente è come sembra. Molte delle persone lì presenti, infatti, sono sottoposte allo stesso ricatto di Anke. E affezionarsi a uno di loro potrebbe complicare ancora di più le cose, mettendola davanti a una scelta impossibile da compiere. L’amore può sopravvivere agli orrori di una guerra?

Quando Anke Hoff è condotta sotto ricatto nella residenza segreta di Adolf Hitler non immagina quale destino la attenda… 

«Un esordio potente che emoziona.»
Kate Quinn, autrice bestseller del «New York Times»

«Incredibilmente toccante, straziante ma necessario. Non riuscivo a smettere di leggerlo.»
Katie Fforde

«Una storia affascinante che mi ha fatto dimenticare la finzione letteraria!»
Kitty Neale

Mandy Robotham
Ha due passioni: la scrittura e i bambini. Per questo è diventata un’ostetrica e ha completato un master in scrittura creativa alla Oxford Brookes University. Con questo romanzo ha ottenuto un grande successo di pubblico e di critica.
LinguaItaliano
Data di uscita4 dic 2019
ISBN9788822740373
L'infermiera di Hitler

Correlato a L'infermiera di Hitler

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'infermiera di Hitler

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'infermiera di Hitler - Mandy Robotham

    1. Irena

    Germania, gennaio 1944

    Per qualche momento la baracca fu immersa nel silenzio, come poteva esserlo esclusivamente nelle primissime ore del giorno, un silenzio interrotto solo dal russare di qualche donna. La guardia notturna camminava con passo felpato lungo le file di letti a castello, facendo avanti e indietro alla ricerca di ratti che prendevano di mira gli arti immobili delle donne, pronta a colpire i voraci predatori con il suo bastone. Piccole nuvolette di respiro si levavano dalle brande superiori al contatto con l’aria immobile e gelida; strano non sentire le donne che tossivano a turno, una sinfonia di costole scosse dalla violenza dell’infezione nei loro poveri polmoni, come se l’ennesimo accesso di tosse potesse squarciare i loro petti. Ogni trenta secondi il buio veniva trafitto da fasci di luce bianca perché i fari da perlustrazione si insinuavano ininterrottamente tra le fenditure delle assi sottili, nell’unico posto che potevamo chiamare casa.

    Stavo sonnecchiando all’entrata della baracca sapendo che Irena stava per entrare in travaglio. Quando una violenta contrazione l’attanagliò e la destò dal suo sonno agitato, un grido improvviso, sfuggendole dai denti rotti, si levò dal suo letto accanto alla stufa e squarciò il silenzio.

    «Anke, Anke!», gridò. «No, no, no... Fallo smettere!».

    La sua angoscia non era data dalla debolezza – Irena aveva già partorito due volte in tempo di pace – ma dall’inevitabile risultato di quel processo, del travaglio. Una nascita. Sarebbe nato suo figlio, e questo era il suo peggior incubo. Fintantoché il bambino restava nella sua pancia, e ogni tanto scalciava e dimostrava di non aver succhiato tutta la linfa vitale della madre, dando segno di averne ancora bisogno, c’era speranza. Una volta uscito la speranza si sarebbe assottigliata in fretta.

    Mi precipitai subito al suo fianco, raccogliendo gli stracci e la carta che avevamo nascosto, un secchio con l’acqua scrupolosamente presa dal pozzo prima del coprifuoco. Era agitata, in quello stato delirante che di solito si vedeva nei casi di tifo. Mentre si dimenava sul sottile materasso imbottito di fieno, facendo scricchiolare le assi di legno sottostanti, spesso farfugliava attraverso le labbra secche il nome del marito, probabilmente morto da tempo in un altro campo.

    «Irena, Irena», sussurravo ripetutamente, facendo su e giù con la testa per incrociare il suo sguardo mentre lei apriva e chiudeva gli occhi. A differenza delle donne negli ospedali berlinesi, spesso in travaglio le madri nei campi di concentramento diventavano esseri ultraterreni, si rintanavano altrove, nelle stanze della mente. Immaginavo fosse un modo per sfuggire alla dura realtà, creando nei loro sogni il rifugio perfetto che la vita, quel mondo pieno d’orrore, non poteva offrire ai loro bambini.

    Come capitava spesso al terzo parto, anche quel travaglio progredì in fretta. Dopo frementi ore di attesa, le contrazioni si susseguirono una dopo l’altra, intensificandosi rapidamente. Ben presto mi ritrovai Rosa accanto, destata a sua volta dal dormiveglia. Alimentò il misero fuoco e mise un po’ d’acqua a bollire, mentre un’altra donna portava una lampada a olio, il combustibile serbato per simili occasioni. Era tutto ciò che avevamo, a parte la fede in Madre Natura.

    Le contrazioni erano forti e le acque si ruppero durante uno spasmo particolarmente acuto – una patetica, misera quantità di liquido – ma Irena stava opponendo resistenza. In qualunque altra circostanza il corpo sarebbe stato obbligato a spingere, sopraffatto dalla naturale e inesorabile espulsione. Le donne alla prima gravidanza spesso temevano di non capire quando sarebbe arrivato il momento di spingere, e noi levatrici non potevamo far altro che rassicurarle: lo capirete, è una sensazione diversa da ogni altra, verrà da dentro, un’ondata da cavalcare, non da combattere. Ma Irena si stava aggrappando con tutte le sue forze al bambino, un sottile filo di sangue viscoso appena visibile quando guardai sotto al lenzuolo. Indicava che il corpo era pronto, più che disposto a lasciarlo uscire. Solo la ferrea volontà di una madre stava mantenendo chiusi i cancelli.

    Alla fine, dopo una serie di violente contrazioni, l’utero di Irena ebbe la meglio; un primitivo grugnito rivelatore, e con l’aiuto della lampada vidi che il bambino stava per uscire, la testa non ancora visibile, ma una forma distinguibile dietro alla pelle sottile, quasi traslucida, delle natiche di Irena, che ne arrotondava le forme. Scosse la testa, sofferente e ansimante, mentre sussurrava: «No, non ancora, piccolo, rimani al sicuro», portando le mani verso la vagina nel disperato tentativo di far tornare indietro il bambino. Rosa si era fermata accanto alla testa di Irena, le sussurrava parole rassicuranti, le faceva bere sorsi dell’acqua più pulita che eravamo riuscite a trovare, mentre io rimanevo china con la lampada.

    Ignaro del futuro che lo aspettava, quel bambino era determinato a nascere. Alla contrazione successiva, dei capelli neri spuntarono tra le grandi labbra tese di Irena, e io la incitai: «Soffia, soffia, soffia», sperando di farla rallentare ed evitare lacerazioni che non avevamo né gli strumenti né i mezzi per suturare, un’altra ferita aperta che i ratti e i pidocchi avrebbero preso di mira.

    Irena percepì l’inevitabile e si arrese, permettendo alla testa del bambino di scivolare oltre i confini del corpo materno, facendosi strada verso il mondo. Per un attimo o poco più, come in occasione di tutte le altre nascite a cui avevo assistito, il tempo parve fermarsi. La testa del bambino giaceva sullo straccio più pulito che avevamo, mentre le spalle e il corpo erano ancora all’interno di Irena, che reclinò il capo madido di sudore verso Rosa, il corpo scosso da singulti di sollievo, tristezza e appena un barlume di gioia. Sulla baracca regnava il silenzio; la maggior parte delle donne si era svegliata, due o tre teste visibili per letto, perché la curiosità aveva avuto la meglio sul desiderio di dormire. Eppure si limitavano a guardare, rispettando la poca privacy di cui disponeva Irena.

    Il bambino era uscito di schiena, mi guardava, e io vedevo i suoi occhi aprirsi e chiudersi come quelli di una bambola di porcellana, le labbra imbronciate mentre boccheggiava come un pesce per prendere aria. Il tempo passava, ma non c’era di che preoccuparsi, attraverso Irena il cordone ombelicale lo riforniva di ossigeno filtrato, molto più puro dell’aria stagnante attorno a noi.

    «Va tutto bene, presto il tuo piccolo sarà qui», sussurrai. Ma sapevo che niente avrebbe impedito a Irena di provare una paura o una tristezza incalzanti.

    Si preparò all’arrivo della contrazione e sollevò il bacino mentre la testa del bambino si voltava parzialmente di lato, consentendo alle spalle di fuoriuscire, e il figlio di Irena venne alla luce insieme a un poco di liquido in più, misto a sangue. Era un fagottino minuto, la testa troppo grande per le gambette e le braccia minuscole e i testicoli rotondi. Irena l’aveva nutrito come meglio aveva potuto data la povera dieta quasi del tutto priva di proteine o di grassi, ed ecco il risultato. Presi un altro straccio e asciugai il liquido, stimolando quel corpicino molle che non proferiva alcun suono, e una piccola parte di me pensò: Scivola via adesso, piccolo, risparmiati questo dolore. Ma continuai a sfregare la sua pelle delicata per infondergli un po’ di vigore; faceva parte dell’istinto umano di preservare la vita.

    Irena tornò subito al presente, in preda al panico. «Va tutto bene? Perché non piange?»

    «È solo un po’ traumatizzato, Irena, dagli tempo», dissi, e a quel punto avvertii anch’io una scarica d’adrenalina e cantilenai tra me e me: Andiamo, piccolo, respira. Fallo per lei, andiamo, mentre parlavo e soffiavo piano sul suo viso sbigottito: «Ehi, piccolino, su, piangi, dai».

    Dopo un’altra energica frizione, il bambino tossì, sussultò e sembrò osservare l’ambiente con occhi ancora più sgranati. Lo passai subito a Irena, adagiandolo sulla sua pelle. Lo sforzo del parto l’aveva resa la superficie più calda della stanza, e suo figlio cominciò a mugugnare anziché strillare a pieni polmoni. Ciononostante, qualsiasi rumore significava che stava respirando, era un segno di vita.

    Per la prima volta dopo mesi, sul volto di Irena comparve un’espressione soddisfatta. «Ehi, amore mio», gli disse con dolcezza, «sei proprio un bel bambino. Quanto sei intelligente». Dopo due femmine quello era il suo primo maschio, il desiderio di suo marito. Ciò che stavamo pensando tutte ma nessuno diceva ad alta voce era che probabilmente non li avrebbe visti crescere, diventare adulti. Nessuno osava infrangere quel momentaneo istante di gioia.

    Senza dire una parola, io e Rosa ci calammo nei rispettivi ruoli. Lei rimase con Irena e il bambino, avvolgendolo con tutte le coperte che avevamo, mentre io controllai la vagina di Irena e il sangue che imbeveva lo straccio. Era normale, per adesso. Da quando avevo cominciato il mio apprendistato, le placente mi avevano sempre dato più filo da torcere dei bambini. L’estrema fatica poteva spingere il corpo a chiudersi, a fargli rifiutare di espellere la placenta. Avevo la fronte e il collo imperlati di sudore. Se arrivate a quel punto perdevamo una donna e suo figlio, allora Madre Natura davvero non aveva un’anima.

    Ma ci venne in aiuto, come sempre, una costante in quell’umanità terribile e mutevole. Il viso di Irena, ancora inondato dagli ormoni dell’amore più puro, si contorse per il dolore quando venne scossa da un’altra contrazione. Dopo altre due spinte la placenta cadde sugli stracci, minuscola e pallida. Il bambino aveva assorbito ogni briciolo di grasso dal motore di ogni gravidanza, trasformandola in uno straccio logoro al quale era ancora attaccato il cordone filamentoso. Le donne tedesche ben nutrite producevano cordoni ombelicali grassi e succosi che si avvolgevano a spirale in un tessuto rosso sangue, pasciuto da nove mesi di gestazione. Non ne avevo visti che di miseri da quando ero arrivata al campo.

    Dopo essermi assicurata che la placenta fosse completamente uscita – qualsiasi residuo all’interno del corpo avrebbe potuto causare un’infezione letale – aprimmo la porta della baracca e la gettammo fuori, lontano dall’entrata. Si sentì un raspare concitato mentre diversi topi, alcuni grandi quanto gatti, si azzuffavano per essere i primi a intrufolarsi nel buco sul lato della baracca e accaparrarsi la razione migliore di carne fresca. Mesi prima tra le donne erano volate parole dure circa l’abitudine di nutrire i ratti a quel modo, perché così sarebbero diventati sempre più grandi, ma quelle creature erano instancabili quando si trattava di cercare del cibo. Se non ne trovavano, rivolgevano la loro attenzione su di noi, mordicchiando la pelle delle donne troppo malate per muoversi, troppo inermi per rendersene conto. Se i topi erano distratti o sazi, almeno avevamo un po’ di respiro. Odiavo quegli animali infestanti, ma allo stesso tempo ne ammiravo l’istinto di sopravvivenza. Parassiti o umani, ciascuno di noi stava semplicemente cercando di sopravvivere.

    Io e Rosa pulimmo il letto con quello che ci capitava sottomano mentre Irena si godeva il contatto con il suo bambino, pelle contro pelle, tanto non avevamo niente con cui vestirlo. Si attaccò con avidità al seno incartapecorito della madre, le piccole guance che succhiavano la pelle ormai rinsecchita per tentare di sopravvivere. Il rilascio ormonale le provocava altri crampi all’addome, ma si capiva che quasi le piaceva vederlo cibarsi del suo corpo. Rosa mise a bollire del tè con le foglie d’ortica che avevamo messo da parte, e per quasi un’ora Irena sembrò il ritratto della gioia. Ma quando il buio diminuì e la luce del giorno cominciò a filtrare tra le crepe delle pareti, l’atmosfera nella baracca divenne tesa. Il tempo per Irena e il bambino era limitato.

    Alcune donne le si avvicinarono, e mentre circondavano il letto si levò un mormorio sommesso, un canto di benvenuto per il bambino. Nel mondo reale avrebbero portato regali, cibo o fiori. Lì non avevano nulla da offrire, a parte l’amore accantonato in un angolo ben protetto dei loro cuori, un briciolo di speranza a cui di tanto in tanto lasciavano spiccare il volo; in molte avevano già perso i loro piccoli, ne erano state private, desideravano da morire il profumo delle nuche umide di figli, fratelli, sorelle, nipoti. Provavano tutte lo stesso desiderio. Una donna, in mancanza di un rabbino, pronunciò una benedizione, e accettarono il bambino come uno di loro. La madre lo chiamò Jonas, come suo marito, e sorrise mentre veniva accolto ed entrava a far parte della storia.

    Io e Rosa eravamo sedute in un angolo, io l’unica non ebrea nella baracca, e facemmo tesoro di quel suono bellissimo. Avevo un orecchio teso verso l’esterno e il campo che si svegliava, le guardie che gridavano ordini, il costante tramestio dei loro stivali sul terreno duro e ghiacciato. Era solo questione di tempo prima che entrassero nel nostro regno. Nascondere il bambino sarebbe stato inutile. Ci avevamo già provato una volta, ma era impossibile soffocare i costanti lamenti di un neonato affamato. Quella volta avevamo perso madre e figlio nel modo più freddo e crudele possibile. Se fossimo riuscite a salvarne almeno uno sarebbe stato meglio che niente. Irena aveva dei figli che forse avrebbe potuto ritrovare. Era improbabile, ma pur sempre possibile.

    Alla fine Irena riuscì a godersi il prezioso contatto con il neonato per quasi tre ore. Alle sette le guardie spalancarono la porta per fare l’appello, accompagnate da una sferzata di vento gelido. Quella baracca era stata esclusa dalla conta all’esterno solo perché molte donne erano costrette a letto, e le guardie si indispettivano pericolosamente se le vedevano cadere durante la lunga attesa. Mi ero appellata al comandante del campo per richiedere una conta all’interno e l’avevo convinto: una rara e sorprendente concessione da parte loro.

    Fu la prima guardia a percepire la presenza del nuovo arrivato. Ero quasi certa che avesse lavorato in qualche ospedale prima della guerra, forse come levatrice; mi lanciò la stessa occhiata sospettosa, rughe sporche sulla fronte ampia, che mi rivolgeva soprattutto quando ero con le ebree, quasi non riuscisse nemmeno a contemplare l’idea di toccarle. Non si faceva scrupoli, invece, a usare l’impugnatura del manganello, arte che aveva perfezionato su quegli scheletri rinsecchiti per procurare loro il massimo dolore possibile. Aveva anche un secondo talento, più sinistro.

    Fu il suo olfatto, non quello della seconda guardia, più ombrosa, a cogliere il sentore ramato del sangue versato durante il parto.

    «Allora ne è nato un altro?».

    Mi feci avanti, come sempre. Quello scambio di battute era diventato un gioco che ero quasi certa di perdere, ma ciò non mi impediva mai di tentare.

    «È nato solo da un’ora», mentii. «Non è molto. Dateci solo un altro po’ di tempo. Non darà fastidio durante la conta».

    La donna scrutò la baracca, una sessantina di occhi fissi su di lei, lo sguardo solitamente spento di Irena sgranato come non mai. Per un attimo la guardia sembrò prendere in considerazione una minima dilazione. Poi annusò l’aria e grugnì. «Conoscete le regole. Non decido io. È ora». La giustificazione per il novanta percento delle umiliazioni nel campo era sempre la stessa: non è colpa nostra, noi stiamo soltanto eseguendo gli ordini. Il restante dieci percento era puro divertimento.

    Fu allora che Irena riemerse di colpo dal suo mondo ovattato da partoriente, strinse il bambino al seno nudo, balzò fuori dal letto e indietreggiò nell’angolo accanto alla stufa, lasciandosi dietro una scia di sangue.

    «No, no, vi prego!», gridò. «Posso fare qualsiasi cosa. Farò qualsiasi cosa, qualunque cosa vogliate».

    L’espressione granitica della guardia le fece capire che il suo potere contrattuale non valeva nulla, perciò mise sul piatto sé stessa: «Prendete me al posto suo. Prendete me, anche adesso, ma lasciate stare il bambino». Si rivolse a me con voce delirante. «Anke? Puoi prenderti cura del bambino, vero? Se non ci sarò io?».

    Annuii, ma in realtà non potevo; le poche non ebree alle quali era concesso tenere i loro bambini avevano latte a malapena per i loro neonati, figuriamoci per uno in più. I piccoli soccombevano alla malnutrizione nel giro di qualche settimana, e vederne uno resistere più di un mese era un evento eccezionale. Non avevo neanche bisogno di chiedere: nessuna di quelle disperate preghiere aveva mai sortito effetti. Trattenemmo tutte il fiato per Irena, una scena alla quale avevamo assistito fin troppe volte, ma che sembrava sempre e comunque surreale. Una madre costretta a supplicare per la vita del figlio.

    La guardia sospirò, palesemente scocciata. Il passo successivo era inevitabile, ma tutte le madri, se non versavano in uno stato di immobilità o di semi incoscienza, rivolgevano la stessa improbabile supplica. Era un riflesso dell’istinto materno: dare la propria vita per salvarne una appena nata.

    «Adesso basta», disse la guardia dirigendosi verso Irena, «non rendere le cose più difficili. Non vorrai mica che ti faccia male».

    Cercò di afferrare lo straccio, e Irena arretrò ancora di più nell’angolo. Il pianto improvviso del neonato coprì quasi del tutto il colpo assestato sul corpo di Irena, e la guardia riemerse dalla colluttazione con lo straccio tra le mani, dal quale fuoriuscivano quegli arti minuscoli. Si voltò e socchiuse gli occhi proprio come aveva teso le labbra. Si avviò con passo pesante verso la porta, mentre noi ci radunammo subito attorno a Irena, come uno scudo protettivo; se fosse corsa fuori per inseguire la guardia i cecchini di vedetta le avrebbero quasi sicuramente sparato. Balzò fuori dall’ombra come un orso inferocito, sfoderando i denti scheggiati, un tornado di disperazione, e noi la trattenemmo nella nostra rete umana. Le sue urla penetranti avrebbero squarciato l’aria all’esterno, e immaginai il campo intero fermarsi per un attimo, conscio che il micidiale protocollo stava per essere messo in atto.

    Le donne cominciarono subito a intonare un canto, un lamento, il volume che aumentava rapidamente mentre il gruppo, unito, cominciava a oscillare con Irena al centro, schermando la sua sofferenza. Doveva esserle di conforto, ma sottendeva anche un altro scopo: mascherare il tonfo del bambino che veniva gettato nel barile dell’acqua, scioccante come un colpo di pistola, se ne avete mai sentito uno. Rosa incrociò il mio sguardo, annuì, e un attimo dopo si fiondò fuori nella speranza di raccogliere il povero corpicino gettato a terra, prima che lo rivendicassero i topi e i cani delle guardie. Una placenta era una cosa, ma un corpo umano… era una persona. Era impensabile.

    Dopo alcuni momenti le urla di Irena si affievolirono, sostituite da un gemito sommesso che le sgorgava dal cuore, un raglio incessante difficile da descrivere. Le uniche volte che avevo sentito un verso simile era stato durante le estati che trascorrevo alla fattoria di mio zio in Baviera, quando i vitellini venivano portati al mercato. Le madri, private dei piccoli, continuavano senza sosta a lanciare un richiamo disperato, dal mattino fino a notte inoltrata, cercando d’istinto la prole. Io rimanevo stesa a letto con le mani premute sulle orecchie per tentare di coprire quello straziante lamento. Da grande, chiedevo sempre allo zio Dieter quand’era il periodo in cui si portavano i vitelli al mercato, e andavo a trovarlo facendo in modo di evitarli.

    Feci del mio meglio per pulire la baracca, poi mi tenni occupata assistendo le altre donne malate, cambiando qualche fasciatura insufficiente, dando loro dell’acqua e sorreggendole mentre tossivano in modo incontrollato. In quei momenti ero grata di aver seguito un corso da infermiera, perché svolgere compiti tanto umili non richiedeva troppe riflessioni. Non volevo pensare o analizzare ciò che era successo quella mattina, e non solo.

    Uscii due volte, una per prendere una boccata d’aria – il freddo mi rinvigorì un po’ – e l’altra per andare alla baracca delle non ebree, dove due donne avevano partorito da poco. Non potevo fare molto per loro dopo il parto visto che non avevo né attrezzature né medicinali, ma potevo quantomeno rassicurarle sul fatto che le perdite di sangue erano normali e che i loro corpi si stavano riprendendo. Le donne più in forze in ogni baracca si davano da fare mentre cercavano invano di incoraggiare il seno a produrre più latte.

    Al campo, la stella rossa e non gialla cucita sulla fascia che portavo al braccio mi identificava come prigioniera politica tedesca, e mi consentiva di aggirarmi tra le baracche in qualità di infermiera e levatrice, visto che ero felice, come in tempo di pace, di occuparmi di ogni donna, senza distinzione di cultura o credo di appartenenza. La maggior parte delle donne di cui mi prendevo cura arrivava già incinta, o manifestava i segni di una gravidanza dopo essere stata imprigionata. Succedeva soprattutto alle donne ebree, anche se nessuna delle guardie era mai stata chiamata a rapporto per un chiarimento. La parola stupro non rientrava del vocabolario del campo. Sembrava ironico che una gran parte dei neonati fosse per metà ariana, eppure venisse sacrificata nel nome della razza superiore.

    Nella baracca 23, ufficiosamente soprannominata la baracca delle gestanti sia dalle guardie che dalle stesse donne, Irena rimase distesa sulla sua branda accanto al fuoco morente per diverse ore, costantemente stretta tra le braccia di una delle donne che cantavano in cerchio. Controllai che non sanguinasse troppo e lei aprì gli occhi per un attimo. C’erano sacche nere e rigonfie sotto alle pupille dilatate, gli occhi incrostati ed esausti. Mi afferrò la mano mentre la scostavo dal suo ventre.

    «Anke, che senso ha avuto?», chiese con tono supplichevole, le pupille nere che penetravano le mie, poi crollò all’indietro, singhiozzando disperata e senza più lacrime da versare.

    Non sapevo cosa rispondere, perché non capivo cosa volesse dire. Il senso di cosa? Della gravidanza, dei bambini, di quella vita… o della vita in generale? Non esisteva una risposta.

    2. Uscita

    Bastarono quelle parole a farmi tremare come una foglia: «Il comandante vuole vederti». Nella penombra della baracca tutte sgranarono gli occhi, ogni movimento rimase in sospeso. Non si udiva alcun rumore, solo un putrido fiato impregnato di paura che si sollevava al di sopra della puzza di uomini e animali: urine ed escrementi, umori femminili e l’odore del parto che aleggiava nell’aria. Avevo le mani bagnate di pus, e il soldato le guardò con evidente disgusto. Cercai uno straccio che non fosse già zuppo, e data l’oscurità ci misi qualche secondo.

    «Sbrigati!», disse. «Non farlo aspettare».

    A quel punto avevo le idee chiare: Tanto morirò lo stesso, non vale la pena affrettarsi. Non si veniva chiamati dal comandante per un’amichevole chiacchierata pomeridiana.

    Ironia della sorte, fu il vento gelido che mi sferzava filtrando dai buchi del vestito a farmi smettere di tremare, gli ultimi muscoli rimasti nel mio corpo che si tendevano per trattenere quanto più calore possibile. Attraversai il cortile spoglio e altri occhi mi fissarono, sguardi che prefiguravano il mio destino mentre mi affannavo per tenere il passo di marcia del soldato. «Oh, ci ricordiamo di Anke», avrebbero detto nelle loro baracche malsane. «Mi ricordo il giorno che è stata mandata a chiamare dal comandante. Non l’abbiamo più rivista». Con un po’ di fortuna sarei diventata un altro di quei ricordi, una storia da raccontare.

    La guardia mi condusse tra le baracche fino al cancello che portava alla residenza principale, poi mi spinse all’interno con un burbero: «Va’, va’!». Non avevo mai visto il portone di quella casa e rallentai per contemplare gli elaborati intagli esterni, che raffiguravano angeli e ninfe, senza dubbio opera di Ira, incisore e scalpellino morto di polmonite l’inverno precedente. Si vedeva che andava orgoglioso dei suoi lavori, trasudava perfino sulle porte del nemico, anche se intravidi un minuscolo gargoyle stretto tra due rose, chiara rappresentazione della malvagità nazista. Quel piccolo slancio di ribellione mi diede un po’ di coraggio mentre salivo i gradini verso la porta.

    Una volta entrata, sentii le guance bruciare per l’improvviso calore e leccai le goccioline di sudore che mi si formarono sul labbro superiore, gustandomi il sapore del sale. Nello spazioso atrio rivestito da pannelli in legno un fuoco scoppiettava nel camino, e la legna accatastata accanto avrebbe salvato una decina di bambini che avevo visto morire negli ultimi mesi. Non ero sorpresa né scioccata, e mi odiai per quell’apatia. Ci eravamo abituate a centellinare le emozioni e a provare solo quelle che potevano servire a qualcosa: la rabbia era una perdita di tempo, mentre l’irritazione affinava l’astuzia e il compromesso, e salvava vite.

    Il soldato osservò i miei arti scheletrici, ordinandomi in modo brusco di aspettare accanto al fuoco, cosa che interpretai come un piccolo segno d’umanità. Mi avvicinai, lasciando che mi bruciasse il sedere ossuto attraverso il vestito logoro, sentendo scottare subito la pelle, quasi crogiolandomi in quell’accenno di dolore. Il soldato bussò con forza a una porta di legno scuro, si sentì una voce dall’interno e mi fecero cenno di allontanarmi dal fuoco per entrare.

    Mi dava le spalle, i capelli biondissimi: un ragazzo ariano da copertina. Il soldato batté i tacchi come un ballerino spagnolo, e la testa dell’uomo seduto in poltrona si voltò, rivelando il modello nazista; zigomi pronunciati, in salute, la dieta variegata che gli donava un colorito roseo, come quello dei fenicotteri che ricordavo dalla visita allo zoo di Berlino con mio padre. L’incarnato nel resto del corpo presentava solo variazioni di grigio.

    Spostò alcuni documenti e posò lo sguardo sui miei piedi. Provai un’improvvisa, violenta vergogna per i buchi nei miei scarponi, poi rabbia verso me stessa per aver anche solo osato provare quell’imbarazzo: erano stati lui e quelli come lui a rendere possibili quei buchi e le dolorose vesciche sulle ruvide piante dei piedi. Sollevò lo sguardo, ignorando il mio corpo derelitto.

    «Fräulein Hoff», cominciò. «Come sta?».

    Avremmo potuto benissimo trovarci davanti a un tè fumante visto il modo in cui l’aveva detto, un commento buttato lì a una zia nubile o a una ragazza carina. L’irritazione mi assalì di nuovo, e non riuscii a rispondere. Lui era già tornato distrattamente alle sue carte, e fu solo il silenzio a fargli sollevare di nuovo lo sguardo.

    Pensai: Non ho niente da perdere. «Può vederlo anche da solo come sto», dissi in tono piatto.

    Stranamente, la mia dissidenza non scatenò alcuno scoppio d’ira, e mi resi conto che aveva un compito da svolgere, un’incombenza sgradevole ma necessaria.

    «Mmm», disse. «Lei fa da levatrice qui al campo? Aiuta le donne, tutte le donne?».

    Guardò con sdegno me e i miei boccoli

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1