101 perché sulla storia della Sardegna che non puoi non sapere
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Perché la preistoria dell’isola è intrecciata con la latitanza di un bandito?
Perché si dice che nella Sardegna nuragica la prostituzione fosse sacra?
Perché il vino sardo andò alla grande durante la guerra di Troia?
Perché le donne di Barbagia furono citate nella Divina Commedia?
Perché sotto Cartagine chi piantava alberi da frutto rischiava la morte?
Perché in Sardegna si festeggia la cacciata dei piemontesi?
Antonio Maccioni
è originario di Scano Montiferro (Oristano). Laureato in Filosofia, è dottore di ricerca in Letterature comparate. Si è interessato di filosofia della religione, estetica, storia della filosofia russa e contemporanea. Ha lavorato nella redazione di alcune case editrici e si è occupato di cronaca locale. Con la Newton Compton ha pubblicato I tesori nascosti della Sardegna, Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna, 101 perché sulla storia della Sardegna che non puoi non sapere e, scritto con Gianmichele Lisai, Il giro della Sardegna in 501 luoghi.
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Anteprima del libro
101 perché sulla storia della Sardegna che non puoi non sapere - Antonio Maccioni
INTRODUZIONE
Ci sono libri che possono essere considerati come una dichiarazione d’amore e questo libro è prima di tutto così che potrebbe essere inteso. L’amore è tra le righe: l’avere avuto a cuore la materia trattata ha certamente attribuito un particolare valore alla selezione dei fatti, al procedere della scrittura, alla scelta delle fonti.
Se ogni andare nell’isola dei sardi – come diceva uno scrittore del passato – è pur sempre anche un ritornare
, allora un percorso storico scritto da uno che è pure sardo, che in Sardegna ci è vissuto e cresciuto, che ha cercato di conquistare un punto di vista strettamente e a modo suo necessariamente sardo, pur con intento divulgativo e senza pretese scientifiche, non è soltanto il resoconto di una certa storia: è per forza di cose anche un ritornare alla propria storia.
In sintesi estrema: la questione, per tutti, rischia di diventare sempre un po’ personale. Nella scrittura si lasciano, infatti, a volte riemergere vecchie e nuove incazzature. In una terra come quella sarda, in cui la dialettica tra insularità e portualità, tra conservazione e innovazione, persino tra noi e loro, o tra continente e integrazione, più spesso tra mare e terra – polarizzazione attribuita all’arrivo dei Cartaginesi nella «costante resistenziale» dell’archeologo Giovanni Lilliu –, quasi come nel rapporto tra Barbària (terra impenetrabile) e Romània (terra di conquista) all’epoca dei Romani, è ancora oggi presente e viva. Adesso come ieri: non è un caso se i poeti improvvisatori – giravano e talvolta ancora girano, ai nostri giorni, i palchi delle feste nei paesi – hanno reso famoso l’incontro-scontro in salsa tutta locale tra l’antico e il moderno, come nella disputa divenuta celebre su aratro e penna, tenuta da Raimondo Piras e Salvatore Tucconi, a Scano di Montiferro, nel lontano 1947. Nella storia di tutti (o di tanti) c’è anche la nostra storia, e viceversa.
La ricostruzione che attribuisce la paternità di certi dati, notizie, o addirittura posizioni e interpretazioni agli storici di professione che si avvalgono di numerose discipline dall’archeologia alla linguistica – come in questo volume, in cui sono presenti alcune note a piè di pagina – non è dettata soltanto dalla necessità di mostrare in che modo l’assemblaggio dei materiali abbia proceduto, o quanto sia stato nutrito il testo, o fino a che punto ci si sia documentati prima e durante la stesura del libro. Il nostro è stato piuttosto un tentativo di richiamo di una parte della letteratura storica sulla Sardegna – di una sua piccola parte – oggi disponibile tra quella generalista
, ma non solo, con l’intento di mettere a confronto idee, letture e riletture spesso diverse e discordanti tra loro. Non disdegnando di individuare episodi solo in apparenza insignificanti, anche grazie all’apporto della stampa regionale, come in alcune recenti scoperte, tra l’altro davvero curiose. Consapevoli di come esista necessariamente una certa distanza – più o meno grande – tra ciò che si è verificato davvero in passato e ciò che gli storici, con il loro sforzo, oggi come ieri, di quel passato hanno potuto (o voluto) ricostruire.
Ma, allora, fino a che punto – al di là di ogni dichiarazione di intenti – lo storico e il divulgatore finiscono più o meno consapevolmente per piegarsi a interessi riferibili a ideologie o a consorterie proprie o addirittura altrui?
L’operazione del racconto non è mai un’operazione innocua: la storia, come la memoria, si fa determinante nelle scelte del futuro. Alcuni hanno persino rilevato come in Sardegna la storiografia ufficiale accademica – forse in combutta con la classe dirigente? – sia stata responsabile di alcuni travisamenti e di alcune omissioni sul comune passato. La domanda sorge spesso spontanea: cosa è accaduto davvero?
È oggi opinione non poco diffusa nell’isola che certi avvenimenti siano misconosciuti, o che siano stati occultati intenzionalmente, o quantomeno male interpretati. Allora un pericolo per tutti pur sempre rimane. Il pericolo è che quei travisamenti siano avvalorati nel presente, ma anche che si ripropongano in termini diversi e con diversi soggetti nel futuro. Come ha ripetuto bene la filosofia francese del Novecento: è forse illusorio credere che i nostri ricordi debbano e possano restare immutati nel tempo. La memoria – dicevano – è una forza viva, una forza persino attiva, motivo per cui le testimonianze, addirittura anche quelle degli storici, che della memoria fanno analisi critica, andrebbero per quanto possibile incrociate, valutate, mostrate, accostate, comparate.
Detto questo – ci andranno perdonate le pretenziose annotazioni, selezionate tra le più stringenti –, cosa si è fatto in questo libro? In questo libro si è raccontato un romanzo vero, così come si è maldestramente pensato possa essersi sviluppato nel correre del tempo. Nel rispondere ai perché sulla storia della Sardegna, si sono cercate le spiegazioni dei fatti dopo una presa d’atto, individuando forse soltanto cause apparenti, o magari in altre circostanze soltanto occasionali. Con lo spirito degli antichi, però, mettendosi in fuga dai moralismi: si è sperato di ritrovare in termini semplici un qualche rapporto di causa-effetto setacciando tra i cocci di quanto è andato distrutto, un motivo di fondo nelle svolte epocali, una logica nelle situazioni, una ragione intima nelle cose. Rarissime volte – ci si potrà imputare – si è soddisfatta l’idea da cui si sono prese le mosse.
PARTE PRIMA
La Sardegna nella preistoria e nella protostoria
Dal Paleolitico alla Civiltà nuragica
0_Pagina_011_Immagine_00010_Pagina_012_Immagine_0001Carta della Sardegna tratta da Sigismondo Arquer, Sardiniae brevis
historia et descriptio, in Sebastian Münster, Cosmographia universalis,
Henricus Petri, Basilea 1550.
1. Perché la Sardegna si chiama così?
La Sardegna era definita in antichità l’isola dalle vene d’argento
¹: il suo sottosuolo – ricco di minerali del preziosissimo metallo – era meta di intensi traffici lungo le rotte del Mediterraneo occidentale. L’ossidiana – il cosiddetto oro nero
estratto soprattutto nei giacimenti del Monte Arci – era stata già in passato oggetto di commercio o di scambio. I centri più antichi e più importanti sarebbero, infine, sorti presso i giacimenti metalliferi, proprio dove si trovavano le cosiddette vene d’argento
.
Antica denominazione della Sardegna era Ichnoussa, dal greco ichnos, cioè orma
, pianta del piede
, forma aggettivale nata per via della conformazione fisica e geografica del suo territorio; diffusa presso i Greci era anche la variante Sandaliotis, cioè forma di sandalo
. Riappropriandosi idealmente dell’isola, quel popolo le attribuiva una sua propria denominazione. Ma com’era conosciuta in precedenza l’isola al centro del Mediterraneo?
Nel ii secolo d.C. il geografo greco Pausania sosteneva fossero stati gli Elleni – uomini attivi in traffici commerciali e che potevano pertanto osservarne l’aspetto da una certa distanza, giungendo via mare – ad assegnare alla terra oggi conosciuta come Sardegna quel nome, benché non fosse noto il modo in cui gli abitanti stessi l’avessero chiamata prima di quel momento. La stessa fonte annotava, però, che i primi uomini giunti dalla Libye (cioè dall’Africa) avevano come capo Sardò, figlio di Eracle (avvicinato anche all’eroe Sardus Pater), noto come Maceride presso i Libi, il Melqart dei Fenici.
Così scrive Raimondo Zucca, ordinario di Storia romana all’Università di Sassari: «Un complesso di fonti greche e latine, non anteriori al i secolo a.C., attesta che Sardos/Sardus fu figlio di Herakles/Hercules e che partito dalla Libye/Libya giunse in Sardegna a capo di una colonia e dal suo nome denominò l’isola»².
Secondo il linguista Massimo Pittau, la denominazione sarda Sardigna – di fatto non distante da quella italiana Sardegna – sarebbe derivata passando per una forma toscana antica da quella latina Sardinia. L’appellativo Sardò sarebbe proprio di una donna leggendaria che a sua volta aveva avuto in sorte il proprio nome da Sárdeis, Sárdis, cioè sardi, capitale della Lidia. Da questa regione situata lungo la riva occidentale ed egea dell’Asia Minore, infatti, sarebbero migrati gli Etruschi verso l’Italia centrale come già prima i sardi verso la Sardegna. Perciò Sardianói erano per i Greci gli abitanti di Sárdeis, capitale della Lidia – il cui toponimo significava anno
o solstizio
in onore al dio Sole –, ma anche quelli della Sardegna. Il richiamo alla divinità cornuta del Sole probabilmente venerato dalla Civiltà nuragica (il Dio Toro dei Protosardi) sarebbe, secondo Pittau, una conferma di tale derivazione.
I Fenici – sostengono alcuni storici – erano consapevoli intorno al ix-viii sec. a.C. che la denominazione dell’isola fosse šrdn, come del resto è testimoniato dall’iscrizione della Stele di Nora (che si pensa realizzata in alfabeto fenicio su un blocco in arenaria, già rinvenuto nel Settecento): ciò lo avrebbero forse appreso direttamente dagli abitanti del luogo, prima di adattare quella definizione alla loro stessa lingua. L’assunzione di quel nome presso i Greci sarebbe in tal senso testimoniata dalle tradizioni legate a Sardò e persino dalla creazione di un eroe eponimo giunto dall’Africa per abitarne la terra.
Tutto qui? No di certo. Shardana era, infatti, il nome egiziano di uno dei Popoli del mare – imperversavano nel Mediterraneo intorno al ii millennio a.C., e provenivano in questo caso dal bel mezzo del Grande Verde, come testimoniato dalle fonti egizie, che così rievocavano appunto il Mediterraneo – che alcuni ricollegano proprio all’isola di Sardegna, altri alla città di Sardi della Lidia. Soldati mercenari, talvolta, compaiono nelle fonti al servizio dei Faraoni, talvolta contro di loro: avevano come patria la Sardegna o giunsero nell’isola da un’altra località? Gli Shardana erano, secondo alcuni, gli antichi popoli dei nuraghi, gli stessi che sconfissero i grandi regni dell’epoca lasciando dietro di sé misteriose tracce che ancora adesso sono oggetto di studio e dibattito.
1 Cfr. Piero Bartoloni, Miniere e metalli nella Sardegna fenicia e punica, in «Sardinia, Corsica et Baleares Antiquae», 7, 2008, pp. 11-18. Abbiamo più avanti fatto riferimento anche a Gian Franco Chiai, Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici e dei Greci in età arcaica. Analisi di una tradizione storico-letteraria, in «Rivista di studi fenici», xxx, 2, 2002, pp. 125-146. Il linguista Massimo Pittau dedica ai toponimi della Sardegna – incluso Sardigna, da noi qui ripreso – ampio spazio nel sito www.pittau.it.
2 Raimondo Zucca, Hercules sardus, in Paolo Bernardini - Raimondo Zucca (a cura di), Il Mediterraneo di Herakles, Carocci editore, Roma 2005, pp. 249-257.
2. Perché un rarissimo protodinosauro porta il nome della città di Alghero?
Prima di giungere al ritrovamento dei fossili che attestarono la presenza dell’uomo in Sardegna – riferiti dagli studiosi al Paleolitico, quando si sviluppò la prima rudimentale tecnologia basata sulla pietra – è importante fare un discreto passo indietro. Fece, infatti, il giro del mondo nell’estate del 2017 – rilanciata in termini divulgativi da «National Geographic» – la scoperta di un rarissimo sinapside basale (sottoclasse di rettili con cranio caratterizzato da un’unica fossa temporale), un caseide erbivoro (tra i più grandi vertebrati della loro epoca) risalente al Permiano medio (tempo collocato alla fine del Paleozoico) vissuto in un territorio oggi appartenente all’isola in un periodo compreso tra i 279 e i 272 milioni di anni fa.
L’identificazione era avvenuta a pochissimi chilometri da Alghero, poco lontano dalla costa nord-occidentale della Sardegna, presso Cala del Vino, sul promontorio di Torre del Porticciolo: i primi resti di quel curioso esemplare di protodinosauro erano già noti dal 2008, quando uno studente dell’Università di Pavia – durante un campo di scavo diretto da Ausonio Ronchi – faceva la sua fortunata scoperta. In seguito oltre 70 ossa – alcune di queste in ottimo stato di conservazione – furono recuperate nel corso delle attività di ricerca e di una decina di campagne di scavo, guidate da una équipe di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università La Sapienza di Roma, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pavia e il Museum für Naturkunde di Berlino. L’evento sensazionale verificatosi in terra sarda avrebbe pian piano portato gli studiosi a ipotizzare di avere recuperato i resti del più grande pelicosauro mai rinvenuti fino ai tempi nostri: lungo circa 7 metri, l’incredibile animale preistorico aveva con molte probabilità un collo piuttosto corto e testa piccola, cassa toracica a forma di botte, con arti anteriori lunghi e robusti per scavare più agilmente nel terreno alla ricerca di radici che ingeriva sicuramente in grandissime quantità. I denti aguzzi e i numerosi denticoli presenti nel palato – per ipotesi rilevanti nella prima triturazione del cibo – venivano usati per strappare i vegetali dal suolo ma non per masticare, segno evidente di uno sviluppo dell’apparato digerente abbastanza limitato.
L’Alierasaurus ronchii, il protodinosauro rinvenuto ad Alghero – in tutto simile ai caseidi ritornati alla luce dai segreti della terra in maggior numero in Nord America – è uno dei quattro esemplari documentati tra quelli rinvenuti in Europa, per la prima volta descritto in modo preciso nel 2014: deve il suo nome scientifico allo studioso Ausonio Ronchi, padre istituzionale della scoperta, e alla splendida città catalana che in qualche modo gli ha dato i natali, chiamata appunto Aliera in sassarese³.
3 Cfr. Marco Romano - Ausonio Ronchi - Simone Maganuco - Umberto Nicosia, New Material of Alierasaurus ronchii (Synapsida, Caseidae) from the Permian of Sardinia (Italy), and its phylogenetic affinities, in «Palaeontologia Elecronica», xx, 2, 2017, pp. 1-27.
3. Perché la preistoria dell’isola è intrecciata con la latitanza di un bandito?
Era il 1979 quando lungo le sponde del Riu Altana, nel territorio di Perfugas, nella Sardegna settentrionale, tornavano alla luce strumenti in selce realizzati secondo una tecnica in uso nel Paleolitico Inferiore (450.000-150.000 a.C.). Stando alle posizioni immediatamente assunte da storici e archeologi, quei reperti chiaramente attestavano la presenza dell’uomo nell’isola già 150.000 anni fa, termine a noi prossimo all’interno del più antico periodo dell’età della pietra. Una discreta quantità di strumenti risalenti a un tempo circoscritto tra i 14.000 e gli 8000 anni fa si nascondevano, invece, in una delle zone più segrete e sperdute del Nuorese, nell’ampia valle di Lanaitho, nella Grotta Corbeddu, poco lontano dalle grotte di Su Bentu, Sa Oche, Elihes Artas, dove la natura selvaggia dell’isola è ancora meravigliosa e potente.
L’antro collocato geograficamente nel territorio di Oliena – piccolo centro del Supramonte ai margini della Barbagia di Ollolai – si compone di tre sale e di un ulteriore piccolo ambiente: ha restituito anche resti fossili umani risalenti al Paleolitico Superiore (35.000-10.000 a.C.), pezzi di cranio di un Homo sapiens dai caratteri endemici che avrebbe abitato nella preistoria la Sardegna, un osso temporale e uno mascellare, una porzione prossimale alla falange di una mano. Si trattava dei più antichi tra i resti umani rinvenuti in un’isola del Mediterraneo, accompagnati peraltro da attestazioni collocate dagli studiosi nel Mesolitico e nel Neolitico Antico.
La Grotta Corbeddu si sviluppa verticalmente per circa 150 metri: Mary R. Dawson del Carnegie Museum di Pittsburgh, negli Stati Uniti, organizzava nel 1968 la spedizione scientifica che avrebbe permesso di scoprire i resti di un curiosissimo Prolagus sardus, cioè un mammifero roditore della taglia di un coniglio scomparso venti milioni di anni fa e classificato tra gli animali estinti. Cibo sicuro per i predatori – allora presente in Sardegna e in Corsica – il Prolagus sardus era ai tempi nell’isola ben più diffuso della lepre: la sua presenza avrebbe facilitato l’insediamento delle prime comunità umane nel territorio. Ma resti di altre specie venivano individuati all’interno della caverna, riferibili ad animali selvatici e di allevamento, testimonianza eloquente di un’economia mista praticata da quelle popolazioni: il maiale, il bove, la capra, la pecora, il muflone, il cinghiale, il cervo. Importanti campagne di scavo furono quindi condotte in loco tra il 1982 e il 1986 e intorno al 1999 dall’Università di Utrecht in collaborazione con la Soprintendenza alle Antichità di Sassari e Nuoro.
Circostanza curiosa: le vicine grotte della valle di Lanaitho, Su Bentu e Sa Oche, furono l’insolita sede dal 2011 di uno speciale programma di addestramento per astronauti predisposto dall’agenzia esa, per via delle loro caratteristiche considerate adeguate per la preparazione al volo in condizioni di isolamento estremo dal mondo.
Ma perché la preistoria dell’isola è insolitamente intrecciata con la latitanza di un bandito? Ecco: perché la Grotta Corbeddu deve il suo nome al celebre fuorilegge Giovanni Salis detto appunto Corbeddu, del quale sarebbe stata dimora segreta – stando a una ricostruzione di fatti che ha certo il sapore del mito e della leggenda – nei tempi della sua latitanza, nella seconda metà dell’Ottocento: si dice che in quegli ambienti il bandito conducesse processi grotteschi contro le sue vittime per poi condannarle immancabilmente a morte. Dopo una trentennale gloriosa
carriera criminale si sarebbe ritirato da quelle parti, tra Orgosolo e Oliena: si diceva che vecchi banditi ricorressero al celebre decano per ottenere consiglio, mentre i novellini ne ricevevano l’investitura come fosse un patriarca. Il sottoprefetto di Nuoro lo avrebbe in un’occasione persino coinvolto per concludere il riscatto di due francesi maldestramente rapiti dai briganti, lui che era considerato l’ultimo di un’antica cavalleresca razza di banditi: avrebbe guidato l’incontro tra lo stato maggiore dei fuorilegge e le autorità, ottenendo la liberazione dei malcapitati⁴.
4 Cfr. Giulio Bechi, Caccia grossa, Ilisso, Nuoro 1997, pp. 97-99; Elio Aste, In una grotta Corbeddu processava le sue vittime, in «La Nuova Sardegna», 15 aprile 1974. Il racconto delle imprese degli astronauti è fatto da Elvira Serra, Vita da astronauta (nel sottosuolo sardo) prima di andare nello spazio, in «Corriere della Sera», 24 giugno 2016. Notizie importanti sulla preistoria sono desunte da Barbara Wilkens, Archeozoologia. Il Mediterraneo, la storia, la Sardegna, edes, Sassari 2012. Cfr. Antonio Maccioni, Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna, Newton Compton editori, Roma 2016, pp. 105-110.
4. Perché la Cultura di Ozieri è il momento più elevato della preistoria sarda?
La Cultura di Ozieri, altrimenti detta Cultura di San Michele – collocata nel Neolitico recente a cavallo tra il iv e il iii millennio a.C. –, è considerata dagli storici il momento più elevato dell’intera epoca che precede la diffusione dei nuraghi nel territorio dell’isola, per via dei livelli di sviluppo raggiunti dalla sua società. La sua denominazione deriva dalla grotta di San Michele (o di Santa Caterina), nel territorio di Ozieri, nei pressi di Sassari, dove secondo la leggenda abitavano – tra cunicoli bui e sale evocative – le indovine che davano segretissimi responsi a chi le consultava. Nella prima metà del Novecento in quegli ambienti gli archeologi avevano ritrovato oggetti con particolari rifiniture fino a quel momento mai viste in Sardegna.
La Cultura di San Michele è una cultura popolare, urbana, sedentaria, per qualcuno si sarebbe poi precisata in una cultura rurale e contadina: le comunità di allora abitavano appunto in caverne naturali o in capanne di pietre e frasche o fatte di erbe palustri. I loro villaggi non erano mai fortificati – a dirlo furono da subito i rinvenimenti fatti sul terreno –, in questo totalmente dissimili da quelli che si sviluppavano nella penisola iberica in tempi più o meno coevi. I cercatori di metalli, che avevano – secondo taluni – raggiunto la Sardegna per unirsi agli autoctoni, vivevano evidentemente in uno stato di pace, senza avvertire il pericolo di popoli estranei ed esterni che potessero rappresentare minaccia.
L’isola si trovava comunque, nel Neolitico recente, al centro di traffici mediterranei spesso legati all’ossidiana: quei popoli forse giunti dall’Oriente per mescolarsi a quelli presenti avevano stabilito i loro villaggi in zone asciutte, pianeggianti, su piccoli declivi. Esisteva con molte probabilità una diversificazione sociale basata su nuclei parentali.
I reperti indicano che le attività principali praticate durante la Cultura di Ozieri erano profondamente legate all’agricoltura e all’allevamento, ma pure all’artigianato tessile, persino alla ricerca di minerali, allo scavo delle domus de janas – davano origine a vere e proprie città dei morti ma erano comunque diffuse anche le sepolture a circolo –, spesso decorate e realizzate con planimetrie piuttosto complesse.
La religiosità della Cultura di San Michele è espressa nel carattere femminile dalla Dea Madre e nel carattere maschile dal Dio Toro. Nella lavorazione della ceramica si assistette al diffondersi del vaso a cestello, della pisside, del tripode di probabile derivazione orientale. Tra l’altro: risale a quest’epoca l’altare a terrazze di Monte d’Accoddi, curiosissima e insolita scoperta fatta negli anni Cinquanta del Novecento nel territorio della Nurra tra Porto Torres e Sassari: una struttura simile alle ziqqurath della Mesopotamia venne alla luce dal tumulo di una collina, una realtà ancora considerata dagli studiosi totalmente unica nell’intero bacino del Mediterraneo occidentale.
0_Pagina_022_Immagine_0001Antica statuetta sarda in bronzo, da Voyage en Sardaigne di Alberto La Marmora, 1840.
5. Perché la produzione ceramica caratterizza le fasi del Neolitico
...
in Sardegna?
La produzione di manufatti in ceramica è per storici e archeologi uno dei più eloquenti testimoni e indicatori della successione delle diverse fasi del Neolitico – termine utilizzato per definire l’età della pietra nuova – nel territorio isolano, quando viene definitivamente accertata la presenza delle prime comunità stabili in varie aree della Sardegna.
Tra il vi e il iv millennio a.C. si sviluppa la cultura di Su Carroppu-Monte Sirai del Neolitico antico: individui di area culturale franco-iberica giungevano in Sardegna attraverso la Corsica, entrando in contatto con le comunità probabilmente già presenti e dalle provenienze diverse. Si produceva in quella fase una particolare ceramica decorata detta cardiale – da Cardium, mollusco di cui quei popoli andavano ghiotti, la cui conchiglia veniva utilizzata per realizzare le impressioni sulla superficie dei manufatti – tipica appunto della zona franco-iberica. Ceramiche con quelle caratteristiche sono state rinvenute dagli archeologi presso le grotte di Su Carroppu nel territorio di Carbonia e presso la grotta di Filiestru, nel territorio di Mara.
Le comunità erano a quel tempo composte da cacciatori e pastori di capre e pecore, ma si allevavano anche bovini e suini, si coltivavano in modo rudimentale i campi e si facevano crescere distese di grano per farne pane da cuocere su pietre riscaldate. La nerissima roccia vulcanica dalla consistenza vitrea proveniente dal Monte Arci, l’ossidiana, veniva già sfruttata in modo sistematico: pietre importate da quella zona sarebbero state rinvenute in più località d’oltremare (avrebbero più avanti raggiunto l’Italia centro-settentrionale, la Francia, la Corsica), indicando possibili piste nel movimento dei commerci e degli scambi.
Nel iv millennio a.C. si sviluppa la cultura di Bonu Ighinu del