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La gemella bugiarda
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E-book370 pagine5 ore

La gemella bugiarda

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Info su questo ebook

Un grande thriller

«Impossibile smettere di leggerlo.»

Ogni lunedì, da quindici anni, Tia riceve una lettera da sua sorella. Una busta bianca, sempre uguale, in cui sono meticolosamente annotate tutte le confessioni, i segreti e i pensieri di Ellie, la gemella che Tia non vede da quando erano piccole. E così, le ombre che si celano dietro la brillante vita di sua sorella prendono forma lettera dopo lettera: il terribile segreto che Ellie ha nascosto a suo marito, le bugie che racconta a sé stessa per riuscire a dormire, il sogno di poter avere finalmente un figlio… Le gemelle hanno un legame bizzarro e indissolubile, anche se dopo la morte dei genitori sono state separate e hanno preso strade diverse. E adesso che Tia ha bisogno di aiuto, Ellie è l’unica che può fare qualcosa. Come potrebbe voltarle le spalle, dopo che per anni le ha rivelato tutti i suoi segreti più inconfessabili? E perché alla fine dei messaggi di Ellie c’è sempre la stessa richiesta: «Non dimenticare di bruciare questa lettera»?

Inaspettato come La ragazza del treno
Inquietante come Una famiglia quasi perfetta

«Ho divorato le pagine fino alla conclusione strabiliante: avevo bisogno di sapere come andava a finire.»

«Senza alcun dubbio uno dei migliori libri dell’anno.» 

«Una storia incredibile, in grado di catturare completamente il lettore e tenerlo incollato alla sedia.»
Valerie Keogh
È cresciuta leggendo i romanzi di Agatha Christie e così, quando ha iniziato a scrivere, ha deciso di privilegiare i thriller. Prima di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno, ha conseguito un’abilitazione come infermiera. Ha un master in Letteratura americana. La gemella bugiarda è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2020
ISBN9788822745088
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    Anteprima del libro

    La gemella bugiarda - Valerie Keogh

    EN.jpg

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Una lettera di Valerie

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    2600

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: Secrets Between Us

    © Valerie Keogh, 2018

    Valerie Keogh has asserted her right to be identified

    as the author of this work.

    All rights reserved.

    Traduzione dalla lingua inglese di Cristina Contini

    Prima edizione ebook: aprile 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4508-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Valerie Keogh

    La gemella bugiarda

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    In memoria di mia madre Kathleen Foley

    13 novembre 1920 – 11 novembre 2015

    Capitolo 1

    La lettera arrivava tutti i lunedì. Veniva consegnata durante la mattinata alla reception dell’istituto per diversamente abili Saint Germaine. Che ci fosse pioggia, sole o neve, il postino la portava sempre in bicicletta da Peebles, la cittadina al confine con la Scozia. Non si lamentava mai, effettuava la consegna con il consueto sorriso e un cenno della mano.

    Nella cucina al piano seminterrato, che serviva non solo l’istituto, ma anche gli alloggi annessi, Tia Bradshaw trascorreva la mattina come di consueto: preparando il pane secondo una ricetta che aveva imparato a memoria molti anni prima. Di tanto in tanto uno chef nuovo – e ce n’erano stati molti nel corso degli anni – suggeriva di cambiare la ricetta, ma finiva sempre in un disastro: Tia iniziava con le indicazioni del cuoco di turno ma ogni volta, mentre mischiava gli ingredienti, dimenticava un passaggio e finiva per tornare al vecchio metodo, che sapeva a memoria. Il risultato era immancabilmente un pane immangiabile.

    L’attuale chef la lasciava fare di testa sua: preparava lo stesso pane, una mattina dopo l’altra, senza mai prendersi un giorno libero. Era un concetto troppo difficile per lei. In passato, una direttrice aveva insistito affinché saltasse almeno un turno a settimana. «Non puoi lavorare tutte le mattine, Tia», le aveva detto con gentilezza. «Devi riposare. Potresti fare una passeggiata, magari andare in città a fare un po’ di shopping in compagnia di qualcuno del personale».

    Tia l’aveva guardata con espressione assente e, con grande sgomento della direttrice, aveva iniziato a piangere. Era una di quelle rare persone che riescono a essere eleganti anche quando piangono: agli angoli degli occhi marroni si formavano delle grosse lacrime che diventavano sempre più grandi finché non traboccavano e scendevano lentamente lungo le guance. Non le asciugava mai, le lasciava scorrere finché non si convinceva a smettere.

    «Non voglio un giorno libero», aveva detto con la voce roca. «Non mi piace uscire».

    La direttrice avrebbe potuto insistere, ma come tutti, davanti a quelle lacrime aveva ammesso la sconfitta. «Se è quello che vuoi…».

    Il cambiamento era stato tanto repentino quanto sorprendente. Le lacrime si erano fermate all’istante per lasciare posto al solito sguardo inespressivo. Non le fu mai più chiesto di prendere un giorno di riposo, fu lasciata libera di decidere come trascorrere le sue giornate.

    Finiva di preparare il pane alle due e lasciava le ultime pagnotte a raffreddare sulle griglie di metallo in modo che il personale della cucina potesse metterle via quando erano pronte. Se la prendeva sempre con comodo – non aveva mai niente di urgente da fare – e a volte si fermava a bere un tè con lo staff che aveva appena terminato il frenetico turno del pranzo.

    Ma ogni lunedì, alle due in punto, si toglieva velocemente il grembiule e usciva di corsa dalla cucina, la farina sul viso, l’impasto sulle mani, lasciando una scia dietro di sé mentre correva lungo i corridoi e su per le scale fino al piano dove viveva. Subito dopo si sentivano gli addetti alle pulizie mormorare sottovoce Tia! mentre toglievano le impronte di farina dalle pareti e dalla ringhiera e staccavano i pezzi di impasto secco dal pavimento.

    A volte vedeva la lettera ancora prima di raggiungere la soglia, un angolino della busta che sporgeva da sotto. Se non apriva la porta con attenzione, rimaneva impigliata e rischiava di piegarsi e strapparsi. Quando succedeva, Tia scoppiava a piangere. Le lacrime cadevano sulla busta bagnandola, e allora diventava ancora più difficile da aprire.

    Era meglio quando l’amministratore faceva scivolare la busta sul pavimento lucido e la faceva arrivare al centro della camera, a volte persino fino alla parete opposta. Tia apriva la porta, gli occhi brillavano carichi di aspettative, e si guardava in giro finché non la trovava. Non aveva mai considerato l’eventualità che la lettera potesse non essere là, infilata da qualche parte. In tutti quegli anni, sua sorella non l’aveva mai delusa.

    Mentre tirava fuori i preziosi fogli, si rannicchiava sulla sedia di fronte alla finestra e leggeva ogni parola. Sua sorella le scriveva di quello che faceva tutti i giorni, delle persone che incontrava, dei fidanzati, degli amanti, dei nemici e degli amici. Condivideva con lei segreti e dettagli intimi della sua vita, una vita totalmente diversa dalla sua. Alla fine, dopo la firma Con affetto, tua sorella Ellie, c’era sempre una frase. Brucia questa lettera dopo averla letta.

    Tia finiva ogni lettera velocemente e la rileggeva subito dopo. A volte c’era una parola che non capiva, allora la scriveva con attenzione su un foglio di carta e andava alla reception. «Mi puoi dire cosa significa?», chiedeva alla receptionist di turno dandole l’appunto. Non era sempre facile perché senza contesto una parola può avere diversi significati, ma il personale faceva il possibile.

    «Grazie», diceva Tia prima di tornare a finire la lettera, più lentamente, per assorbire ogni parola. A volte, se era lunga, la rileggeva ancora e ancora prima di dirsi soddisfatta. A quel punto, un po’ restia, la piegava e andava nell’ufficio dell’amministrazione.

    All’inizio aveva cercato di fare esattamente quello che le chiedeva Ellie, ossia di bruciare le lettere quando aveva finito di leggerle, ma si era disperata quando le avevano detto che non era possibile. «Ma io devo», si era giustificata.

    C’erano voluti tanto tempo e tanta pazienza per convincerla che un distruggi documenti aveva lo stesso effetto. «Tua sorella vuole solo assicurarsi che le lettere vengano distrutte. È lo stesso se le triti. Vedi», le aveva detto la direttrice infilando una pagina nel trita documenti, premendo il pulsante e aprendo il contenitore per mostrarle le striscioline di carta. «Praticamente è come bruciarle».

    Solo dopo alcune settimane Tia aveva accettato quella pratica e ormai non ci pensava su due volte. «Posso usare il distruggi documenti?», chiedeva educatamente. Ogni volta il personale sorrideva, annuiva e le indicava il dispositivo sotto la scrivania. Quando era più piccola, glielo accendevano gli altri, ma ora lasciavano che facesse da sola. A volte, se c’era qualcuno nuovo alla reception, le diceva che non doveva neanche chiedere, ma lei lo faceva sempre.

    Poi attendeva, con pazienza ed entusiasmo, la lettera successiva.

    Ogni lunedì, per quindici anni, le lettere arrivarono puntuali.

    Se Tia avesse conosciuto quella parola, avrebbe detto che per sua sorella le lettere erano catartiche, che scrivendole Ellie si liberava delle frustrazioni represse di una donna determinata ad avere successo in un mondo difficile. E, se per Ellie erano catartiche, per Tia erano storie fantastiche di un mondo completamente diverso dal suo: le leggeva come un romanzo in più parti, scoprendo un capitolo alla volta.

    Ogni tanto, un nuovo ospite o un membro del personale le chiedeva dove corresse ogni lunedì. Allora spiegava la storia della lettera e tutti le facevano l’inevitabile domanda: Chi è che te la manda?

    Per un attimo Tia corrugava la fronte e sbatteva rapidamente le palpebre, poi il viso si rasserenava, le tornava il solito sorriso e rispondeva: «Ellie».

    Di rado le facevano altre domande. Se qualcuno le chiedeva Chi è Ellie?, un’espressione perplessa le velava il viso, le palpebre iniziavano a sbattere più velocemente e correva via senza rispondere. Poi si girava e aggiungeva: «È la mia sorella gemella».

    Capitolo 2

    Ellie Armstrong era esausta. Aspettò che tutti lasciassero la sala riunioni del consiglio di amministrazione per sgranchirsi un po’. Aveva i muscoli tesi e un dolore acuto alla spalla destra: troppo tempo ferma davanti al computer. La riunione era durata un’ora in più del previsto. Santo cielo, non ne poteva più di Jeff Harper. Se l’avessero costretta a sorbirsi ancora una volta le fesserie di quell’arrivista, avrebbe finito con il dare seguito una volta per tutte alla promessa che ripeteva a suo marito ormai da due anni e avrebbe dato le dimissioni, sul serio.

    Si alzò lentamente osservando il tavolo della sala riunioni: sapeva che non si sarebbe mai dimessa, indipendentemente da quello che voleva Will. Prima del matrimonio aveva messo in chiaro che era una donna in carriera e che se lui avesse voluto al suo fianco una casalinga, avrebbe dovuto dirlo subito. All’epoca Will le aveva giurato che le cose andavano bene così com’erano.

    «Ma avremo dei bambini», aveva aggiunto. E non era una domanda. Era disposto ad accettare dei compromessi, ma non su quell’argomento.

    «Prima o poi sì», aveva risposto Ellie.

    «Quando?», l’aveva incalzata Will. Voleva saperlo, aveva bisogno di una finestra temporale.

    Ellie si era sentita con le spalle al muro ed era rimasta in silenzio.

    «Non è per tua madre, vero?», le aveva chiesto. «Non hai paura?».

    Ne aveva? Non sarebbe stata sincera se avesse risposto che non ci aveva mai pensato. Dopotutto, sua madre era morta durante il parto. Ma non era solo quello. C’erano altre cose che la preoccupavano, cose a cui cercava di non pensare. Aveva guardato il viso onesto e sincero dell’uomo che amava sapendo che non avrebbe potuto mentirgli. Non su una cosa del genere.

    «No, non è per quello», aveva risposto dolcemente Ellie dandogli dei buffetti sulle guance. «Mia madre è stata sfortunata, tutto qui». Poi aveva fatto scivolare le mani intorno al collo di Will e l’aveva avvolto in un abbraccio. «L’azienda sta attraversando una fase di grandi cambiamenti, Will. Se gioco bene le mie carte, potrei ottenere la promozione che desidero. Dammi ancora un paio d’anni», gli aveva promesso.

    Prima del termine dei due anni, Ellie aveva passato molto tempo a pianificare il momento migliore per concepire, studiando con attenzione il calendario e scartando i periodi in cui sarebbe stata sicuramente troppo impegnata. Alla fine aveva stabilito un mese.

    «Che ne dici di aprile?», aveva detto a Will una sera mentre cenavano.

    «Per cosa?». L’aveva guardata perplesso.

    «Per fare un bambino!», aveva esclamato lei con un sorriso.

    Will aveva lasciato cadere la forchetta sul piatto e aveva guardato Ellie per un momento prima di alzarsi e stringerla tra le braccia. «Sei sicura?», le aveva chiesto.

    Ellie aveva nascosto il viso nel collo del marito. Sì, era sicura. Lo amava e voleva un figlio da lui, eppure c’era un pensiero che le occupava la mente senza darle pace. L’aveva baciato per nascondere le sue preoccupazioni. Aveva guardato gli occhi inteneriti di Will e si era chiesta se fosse possibile amare qualcuno più di così.

    Quella sera stessa aveva chiuso con la pillola anticoncezionale che aveva preso ininterrottamente dai tempi dell’università ed era entrata nella fase di concepimento con la determinazione e la concentrazione con cui faceva qualsiasi altra cosa.

    Si era concessa una certa elasticità sulle date, quindi anche se non fosse successo subito non sarebbe stata una tragedia. Però si aspettava di rimanere incinta nell’arco di un paio di mesi, non di più. Aveva previsto di lavorare fino a una settimana prima del termine, prendere una quindicina di giorni per il parto e per rimettersi in sesto, trovare una brava tata e tornare al lavoro prima che si dimenticassero di lei e, soprattutto, prima che i colleghi iniziassero a mettere in dubbio il suo impegno.

    Ma i mesi passavano e non succedeva niente. Cercava di convincersi che non voleva veramente dei bambini, che non era importante perché tanto aveva la sua carriera. Se lo avesse ripetuto abbastanza spesso, forse avrebbe iniziato a crederci. Ma sapeva che non sarebbe mai riuscita a convincere Will. Quando erano a casa di amici guardava in silenzio Joe e Steve, e persino quel rompiballe di Carlos, che giocavano con i loro figli, e le si spezzava il cuore per lui.

    Era lui che aveva insistito a fare test, ecografie, esami invasivi e colloqui con insopportabili medici che li avevano sempre trattati con sufficienza. E, il giorno prima, un altro consulto.

    «Questo era l’ultimo», aveva detto Ellie mentre lasciavano la clinica, la voce velata per le lacrime trattenute. «Basta, non ne voglio più sapere».

    Avevano aspettato in una sala d’attesa arredata con gusto: Will aveva letto una rivista cercando di mostrarsi rilassato ed Ellie si era sforzata di non picchiettare sul bracciolo di legno della sedia mentre osservava la lancetta dei minuti sul suo orologio.

    Alla fine la porta dello studio si era aperta e il primario di ginecologia aveva fatto loro cenno di entrare scusandosi frettolosamente. Aveva sorriso e gli aveva offerto un caffè. Ellie aveva sentito la calda mano di Will che le cingeva i fianchi, il suo modo per avvertirla gentilmente di non lamentarsi per l’attesa, così si era limitata a scuotere la testa. «No», si era sforzata di rispondere, «vorremmo solo sapere i risultati dei test».

    Il primario, Jeremiah Gardiner, si era messo a sedere dietro la grande scrivania lucida e aveva aperto un file sul portatile. Gli occhi vi si erano soffermati per un momento e poi aveva alzato la testa.

    «Come entrambi sapete, abbiamo eseguito degli esami molto approfonditi», aveva esordito dando alla coppia uno sguardo quasi mortificato.

    L’intuito diceva a Ellie che non le sarebbe piaciuto quello che stava per sentire.

    «Signora Armstrong», aveva ripreso il medico, «lei dice che i dottori attribuiscono la sua amenorrea primaria allo stress per la perdita di suo padre e poi a un successivo disturbo alimentare».

    Aveva annuito.

    «Il disturbo alimentare in questione deduco sia la bulimia. Quanto è durato?».

    Ellie si era morsa l’interno del labbro soppesando la domanda. Non avrebbero imputato la difficoltà del concepimento a una bulimia che era durata solo pochi mesi, vero? «Sei mesi al massimo», aveva risposto in maniera quasi sprezzante stringendosi nelle spalle. «Non era grave. Era una cosa che facevano tutte le ragazze. Non mi sarei mai definita affetta da un disturbo alimentare».

    Il dottor Gardiner, che nella sua carriera aveva visto tutte le possibili forme di diniego, aveva annuito come per darle ragione, ma aveva continuato per la sua strada. «E quanti anni aveva all’epoca?».

    Ellie aveva sospirato. Sonoramente. «Diciassette».

    «Ma non aveva ancora iniziato a mestruare». Non era una domanda. «Come mai il suo medico non le consigliò di fare degli esami?».

    Ellie si era stretta di nuovo nelle spalle. Probabilmente sarebbe dovuta andare all’infermeria della scuola, ma dopo la bulimia non aveva avuto più voglia di vedere facce preoccupate e di sentirsi fare prediche, quindi aveva preferito far finta di nulla. «Non l’ho mai detto a nessuno», aveva risposto senza aggiungere particolari.

    Il primario aveva posato lo sguardo sullo schermo del computer. Quando lo aveva rialzato verso Ellie, la sua erspressione si era fatta più mite.

    Ellie aveva le mani appoggiate sul grembo, le tremavano. Avrebbe voluto dirgli di andare dritto al punto, qualunque fosse. Ed era sicura ormai che si trattasse di brutte notizie. Ma d’altra parte lo sapeva già, non è vero? Aveva sempre avuto il timore che ci fosse qualcosa che non andava. Si era rifiutata di affrontare il problema, aveva iniziato a prendere la pillola fin dalla prima settimana di università, come tutte le altre, e non aveva mai smesso.

    Avrebbe potuto condividere con Will i suoi dubbi all’inizio della loro relazione, quando ancora non avevano cominciato a pensare seriamente a un futuro insieme, ma non l’aveva mai fatto e poi non era stato più possibile perché sapeva quanto lui desiderasse un figlio – e quanto lei non volesse perdere il marito.

    Si era aggrappata alla speranza che, una volta smessa la pillola, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Le sarebbe arrivato il ciclo. Sarebbe rimasta incinta. Ci sarebbe stato il lieto fine. Ma quella preoccupazione non se n’era mai andata. E vedendo che sul fronte gravidanza non succedeva nulla, per un po’ aveva sperato che lui accettasse il verdetto negativo. Sarebbero diventati una delle tante coppie che non avevano avuto la fortuna di avere dei bambini.

    Si amavano, erano felici, non era sufficiente?

    Invece no, lui aveva insistito per andare avanti con quei maledetti test e lei non aveva potuto far altro che adeguarsi. Per un po’ aveva provato rancore nei suoi confronti. Vivere negando la realtà non era poi così male.

    «Mi sono consultato con alcuni colleghi», aveva proseguito il dottor Gardiner, la voce bassa, sempre più morbida e profonda. «Le conclusioni a cui siamo giunti non lasciano spazio a dubbi, signora Armstrong. All’inizio avevamo pensato che soffrisse di una versione della sindrome di Mayer-Rokitansky-Kuster-Hauser». Aveva sollevato una mano davanti all’improvviso sguardo di panico di Will. «Non si preoccupi, non è il caso della signora Armstrong. È conosciuta con l’acronimo MRKH e, come ho detto, è una cosa che abbiamo preso in considerazione ma», aveva fatto una pausa posando lo sguardo su Ellie, «lei non ha gli altri sintomi, e le analisi del sangue hanno dato esito negativo».

    «Quindi perché credeva che potessi averla?», aveva chiesto Ellie, sollevata di parlare di qualcosa che non fosse la sua assenza di ciclo.

    Aveva incrociato lo sguardo freddo del dottor Gardiner, prima di posare gli occhi sulle mani: il medico teneva le lunghe dita appoggiate sulla scrivania. Premeva i polpastrelli così forte che le unghie erano quasi bianche. Come incantata, Ellie si era chiesta quanta forza stesse mettendo in quel gesto e se fosse pari alla gravità della notizia che doveva dare. Aveva riportato lo sguardo sul viso del medico. La notizia era grave, lo vedeva dall’espressione compassionevole che aveva negli occhi. Il dottor Gardiner aveva fatto un lungo respiro e aveva risposto alla domanda.

    «Perché lei non ha l’utero, signora Armstrong».

    Capitolo 3

    Lasciarono la clinica e si diressero verso la macchina in silenzio, nel vuoto di parole non dette e lacrime non versate. Come sempre non c’era parcheggio vicino casa loro, a Gibson Square. Prima che si sposassero era stata la casa della famiglia di Will. Spesso Ellie si fermava un attimo prima di uscire dall’auto per contemplare quella palazzina a schiera di epoca edoardiana che aveva imparato ad amare. Le piaceva la simmetria dell’edificio, la finestra ad arco del pianterreno che riprendeva la lunetta a ventaglio sopra la porta d’ingresso, le due finestre suddivise in dodici riquadri del primo piano, e quelle suddivise in nove del secondo. Quando si era trasferita, si era riproposta di mettere dei gerani rossi sui balconcini in ferro battuto di entrambe le finestre, ma poi non l’aveva mai fatto.

    Intorno alla casa c’era una ringhiera decorata in ferro che la divideva dalle proprietà confinanti. Due stretti gradini di pietra ne precedevano uno più ampio davanti alla porta d’ingresso di colore nero lucido. A destra della porta c’era una scala che scendeva verso un seminterrato ristrutturato. Il padre di Will si era trasferito lì sotto quando suo figlio si era fidanzato. Aveva insistito perché tenessero loro l’appartamento più grande. «È una casa per una famiglia», aveva detto più di una volta. Ellie distoglieva sempre lo sguardo per non vedere la strizzatina d’occhio che le rivolgeva.

    Quando il padre era morto all’improvviso, un anno dopo, Will era così afflitto dal dolore che il seminterrato era rimasto vuoto per alcuni mesi. Poi era stato affittato e con quell’entrata potevano permettersi uno stile di vita molto agiato.

    «Quando avremo dei bambini, potrai lasciare il lavoro se ti va», le aveva detto una volta Will.

    «Se avremo dei bambini, il mio lavoro ci consentirà di pagare un’ottima baby-sitter», gli aveva risposto, gli occhi castani scintillanti mentre si allungava per dargli un dolce bacio sulla guancia.

    Si ricordava quella conversazione come se avesse avuto luogo il giorno prima e si ricordava l’enfasi che aveva messo su quel se. Aveva forse sperato di instillare un dubbio nella mente del marito? Quella avrebbe potuto essere l’occasione perfetta per parlargli delle sue preoccupazioni. Quanto era profonda la fossa del diniego in cui si stava nascondendo? Forse più di quanto riuscisse a immaginare.

    Will si fermò in divieto di sosta per farla scendere e poi ripartì per cercare parcheggio. Ellie aprì, mise appena un piede nell’ingresso e dovette appoggiarsi per richiudersi la porta alle spalle. Si sentiva debole. Si fece coraggio per non piangere: se avesse iniziato, non avrebbe saputo come smettere.

    Si allontanò, presa dal panico. Will sarebbe tornato da un momento all’altro e non aveva voglia di parlargli. Non in quel momento. Doveva prima riprendere il controllo di sé, elaborare quello che le avevano detto. C’era un mucchio di lettere ai suoi piedi sul pavimento. Si chinò e le raccolse dividendo la posta indirizzata a lei da quella per suo marito. Lasciò la corrispondenza di Will sul tavolino in corridoio e portò la sua di sopra. La normalità di quell’azione le diede un senso di calma.

    Di sopra rimase incerta sul da farsi, poi optò per un bagno. Era una regola non scritta della loro relazione: in bagno lei era come in isolamento. Lui l’avrebbe lasciata in pace per un po’. Appoggiò la posta sul tavolino di fianco alla vasca e aprì entrambi i rubinetti.

    Chiuse la porta a chiave, si spogliò lasciando cadere i vestiti sul pavimento, aggiunse una generosa quantità del suo olio da bagno più costoso e rimase in piedi, nuda, ad aspettare che la vasca fosse abbastanza piena d’acqua. Dopo qualche minuto entrò nell’acqua bollente, si distese con gli occhi chiusi e cercò di rilassarsi.

    Era impossibile. Le riecheggiavano in testa le parole del ginecologo: Perché lei non ha l’utero, signora Armstrong. Aveva passato la vita a lottare contro il fatto di essere una gemella, cercando di dimostrare con tutte le sue forze che era speciale, unica, senza mai rendersi conto fino a che punto già lo fosse.

    «Ha le ovaie, quindi da un punto di vista ormonale lei è del tutto normale. Ovula», aveva aggiunto il medico, come se ci fosse qualcosa da festeggiare. «Ma gli ovuli vengono riassorbiti».

    «Vengono riassorbiti», aveva ripetuto Ellie sentendo un forte peso sul petto mentre si immaginava i suoi ovuli che ogni mese intraprendevano quell’inutile impresa.

    «È quindi possibile prelevarli», aveva detto il medico. «È una pratica…».

    Ellie aveva fatto un cenno con la mano per interromperlo, si era alzata e aveva lasciato lo studio, fermandosi fuori ad aspettare Will.

    Cosa voleva dirle il dottore? Che era una possibilità su cui poteva riflettere? Farsi prelevare gli ovuli per impiantarli in una madre surrogata? «Santo cielo», sospirò sentendo gli occhi gonfiarsi di lacrime. Un’altra donna avrebbe portato in grembo suo figlio? Non credeva di poter sostenere una situazione del genere. Si sentiva già così inadeguata ed era una cosa che non sopportava.

    Cercò di rinchiudere tutti quei pensieri in un angolo buio della sua mente, si asciugò le mani e prese la prima lettera. Erano tutte comunicazioni inutili e le lasciò cadere una dopo l’altra sul pavimento. Poi vide il logo sull’ultima busta e strizzò gli occhi. Era strano ricevere una lettera dall’istituto. La retta veniva addebitata direttamente sul suo conto corrente ogni trimestre e gli extra venivano fatturati alla fine dell’anno.

    La scorse rapidamente tirandosi su a sedere nell’acqua e rilesse ogni singola parola. Corrugò la fronte e strinse le labbra. «Non posso crederci», mormorò mentre girava la lettera per vedere se c’era scritto qualcos’altro sul retro. Invece no: il messaggio era tanto breve quanto sconvolgente.

    Gentile signora Armstrong,

    siamo spiacenti di informarla che l’istituto per diversamente abili Saint Germaine chiuderà fra tre mesi. Verranno chiusi anche gli alloggi annessi dove vive Tia. Abbiamo ritenuto opportuno informarla con ampio anticipo per consentirle di trovare una sistemazione alternativa per sua sorella.

    «Una sistemazione alternativa? Cosa diavolo si aspettano che faccia?». Era troppo. Tutto insieme era davvero troppo. Appoggiò la testa contro la vasca e iniziò a singhiozzare.

    Will passò davanti alla porta, il rumore dei passi sul parquet del corridoio. Ellie sentì che si era fermato. Era un brav’uomo, ma lei non aveva mai creduto di meritarselo. Era un retaggio della sua infanzia e lo sapeva bene. All’epoca, qualsiasi cosa facesse, non era mai abbastanza brava. E ora lo scenario si era ripresentato. Di nuovo, non era abbastanza brava. Non era abbastanza donna. «Merda», sussurrò singhiozzando, «praticamente non sono neanche una donna». Proprio ciò che Will desiderava più di ogni altra cosa, lei non era in grado di darglielo.

    Sapeva che suo marito si sarebbe seduto a piangere da solo in camera da letto. Poi avrebbe iniziato a pensare al futuro per cercare delle soluzioni alternative al loro problema, come sicuramente l’avrebbe definito. Non l’avrebbe mai incolpata, nemmeno per un attimo. Ma non faceva alcuna differenza: lei si sentiva già abbastanza in colpa per tutti e due.

    Guardò di nuovo la lettera che aveva in mano e poi la lasciò cadere sul pavimento. Come se non avesse già abbastanza preoccupazioni. Cos’avrebbe potuto fare con Tia?

    Capitolo 4

    Avevano quindici anni quando il padre era morto in un incidente assurdo: un’auto era salita sul marciapiede e l’aveva ucciso sul colpo. Un evento sismico che aveva cambiato irrevocabilmente le loro vite. La perdita della moglie in giovane età, tuttavia, aveva trasformato John Bradshaw in un uomo accorto e previdente che si era premurato di nominare un vecchio amico tutore delle sue figlie, nel caso gli fosse successo qualcosa.

    Sconvolto per la morte dell’amico, Adam Dawson si era assunto le sue responsabilità; ma non aveva mai avuto una famiglia e prendersi cura di due adolescenti si era rivelata un’impresa ardua.

    In poco tempo aveva trovato un collegio per Ellie a Londra e una struttura adatta

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