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Poesie. Soledades e Campos de Castilla
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E-book646 pagine4 ore

Poesie. Soledades e Campos de Castilla

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Info su questo ebook

Saggio introduttivo di Francisco José Martín
Traduzione di Claudio Rendina
Edizione integrale con testo spagnolo a fronte

In Soledades e Campos de Castilla, le due opere più importanti del grande poeta che esercitò una rilevante influenza sulla poesia spagnola del Novecento, arde tutta l’intensa passionalità della «terra di Spagna»: poesia d’amore, quella di Machado, ma anche tenace impegno sociale, il cui appello profetico per una Spagna rinnovata risulta sempre attuale. È alla coscienza politica attiva dei giovani che Machado si rivolge: «A voi studenti è riservato un ruolo importante nella rivoluzione… voi studenti dovete fare politica, altrimenti la politica sarà fatta contro di voi».

«Ho percorso molte strade,
e aperto molti sentieri;
cento mari ho traversato
e attraccato in cento rive.»

Antonio Machado

nacque a Siviglia nel 1875. Partecipò fin da giovanissimo alla vita artistica di Madrid. Nel 1903 pubblicò Soledades. Fu insegnante di francese in diverse città spagnole. Risale al 1912 la prima edizione di Campos de Castilla e al 1917 di Poesías completas. Con il fratello Manuel scrisse diverse opere teatrali. Scoppiata la guerra civile nel 1936, seguì il destino dei repubblicani. Nel gennaio del 1939 fuggì in Francia, dove morì il mese seguente.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854138674
Poesie. Soledades e Campos de Castilla
Autore

Antonio Machado

Antonio Cipriano José María Machado Ruiz. (Sevilla, 26 de julio de 1875 - Coillure, Francia, 22 de febrero de 1939). Poeta, dramaturgo y narrador español, poeta emblemático de la Generación del 98.Realiza sus estudios en la Institución Libre de Enseñanza y posteriormente completa sus estudios en los institutos San Isidro y Cardenal Cisneros. Realiza varios viajes a París, donde conoce a Rubén Darío y trabaja unos meses para la editorial Garnier.En Madrid participa del mundo literario y teatral, formando parte de la compañía teatral de María Guerrero y Fernando Díaz de Mendoza. En 1907 obtiene la cátedra de Francés en Soria. Tras un viaje a París con una beca de la Junta de Ampliación de Estudios para estudiar filosofía con Bergson y Bédier, fallece su mujer - con la lleva casado tres años - y este hecho le afecta profundamente. Pide el traslado a Baeza, donde continúa impartiendo francés entre 1912 y 1919, y posteriormente se traslada a Segovia buscando la cercanía de Madrid, destino al que llega en 1932. Durante los años que pasa en Segovia colabora en la universidad popular fundada en dicha ciudad.En 1927 ingresa en la Real Academia y un año después conoce a la poetisa Pilar de Valderrama, la "Guiomar" de sus poemas, con la que mantiene relaciones secretas durante años.Durante los años veinte y treinta escribe teatro en colaboración con su hermano Manuel. En la Guerra Civil Machado no permanece en Madrid ya que es evacuado a Valencia en noviembre de 1936. Participa en las publicaciones republicanas y hace campaña literaria. Colabora en Hora de España y asiste al Congreso Internacional de Escritores para la Defensa de la Cultura. En 1939 marcha a Barcelona, desde donde cruza los Pirineos hasta Coillure. Allí fallece al poco tiempo de su llegada.En la evolución poética de Antonio Machado destacan tres aspectos: el entorno intelectual de sus primeros años, marcado primero por la figura de su padre, estudioso del folclore andaluz, y después por el espíritu de la Institución Libre de Enseñanza; la influencia de sus lecturas filosóficas, entre las que son destacables las de Bergson y Unamuno; y, en tercer lugar, su reflexión sobre la España de su tiempo. La poética de Ruben Darío, aunque más acusada en los primeros años, es una influencia constante.El teatro escrito por los hermanos Machado está marcado por su poética y no permanece en los límites del teatro comercial del momento. Sus obras teatrales se escriben y estrenan entre 1926 (Desdichas de la fortuna o Julianillo Valcárcel) y 1932 (La duquesa de Benamejí) y consta de otras cinco obras, además de las dos citadas. Son Juan de Mañara (1927), Las adelfas (1928), La Lola se va a los puertos (1929), La prima Fernanda (1931) - escritas todas en verso - y El hombre que murió en la guerra, escrita en prosa y no estrenada hasta 1941. Además, los hermanos Machado adaptan para la escena comedias de Lope de Vega como El perro del hortelano o La niña de Plata, así como Hernani de Víctor Hugo.

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    Anteprima del libro

    Poesie. Soledades e Campos de Castilla - Antonio Machado

    320

    Titolo originale: Soledades; Campos de Castilla

    Prima edizione ebook: febbraio 2012

    © 1971, 2007 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3867-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Antonio Machado

    Poesie

    Soledades – Campos de Castilla

    Introduzione di Francisco José Martín

    Traduzione di Claudio Rendina

    Edizioni integrali con testo spagnolo a fronte

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Machado è un simbolo, ed è anche, in un certo senso, un mito. Simbolo dei valori civili e democratici, della loro testimonianza e della loro difesa in un tempo convulso e atroce, della lotta e dell’impegno antifascisti anche quando tutto crollava e gli orizzonti sembravano definitivamente chiusi. Simbolo di una Spagna vinta e sconfitta in quel preludio di guerra mondiale che fu la guerra civile spagnola. Di civile, in realtà, quella guerra ebbe ben poco, e di spagnola, poi, meno di quanto si sia soliti pensare. La Spagna fu, infatti, lo scenario sperimentale di ciò che con celerità – in maniera quasi incontrastata e con indubbie connivenze – si avvicinava in Europa in quei terribili anni ’30 del secolo scorso, come fosse il destino tragico e irrinunciabile di una modernità in conflitto con se stessa. Forse per questo in quella guerra ebbero così tanto peso sia gli appoggi militari che le ipocrisie diplomatiche. In Spagna inoltre la guerra fu persa dagli stessi che poco dopo l’avrebbero vinta in Europa, quindi venne a crearsi una sorta di disarmonia spagnola rispetto all’Europa e di cattiva coscienza europea rispetto alla Spagna. Il resto è storia ormai conosciuta: una lunga dittatura e un rapido processo di democratizzazione che sembra aver cicatrizzato le ferite del passato e aver favorito il raggiungimento di una piena integrazione della Spagna nell’attuale cornice dell’Unione Europea. Ma tra la disarmonia spagnola e la cattiva coscienza europea dell’immediato dopoguerra, in quella piega della storia, si sono sviluppati gran parte dei miti della Spagna contemporanea. Miti che forse in passato sono serviti a spiegare – ora meglio, ora peggio – una certa singolarità del caso spagnolo, ma che oggi, in un mondo assai cambiato, incontrano serie difficoltà a rappresentare l’effettiva realtà della Spagna attuale.

    La voce di Machado si è ascoltata, e in un certo senso continua ancora ad ascoltarsi prevalentemente da lì, da quel conflitto senza uguali a cui egli, il poeta dell’impegno etico e civile, non volle sottrarsi. Al contrario di molti nomi tra i più rappresentativi della cultura spagnola di allora, Machado non solo non fuggì dalla guerra, ma volle anzi prendervi attivamente parte. Volle essere parte ed essere di parte. Era contrario a quel fascismo sovversivo che minacciava una democrazia legittimamente eletta, ma era soprattutto favorevole a quella repubblica nata, da poco, all’insegna dell’illusione e della speranza. Ne era stato uno dei promotori: a Segovia, stando al clamore della leggenda, era stato lui a far sventolare la bandiera repubblicana dal balcone del municipio il 14 aprile 1931. Conoscendone il carattere schivo, è assai poco probabile che l’abbia realmente fatto, ma ciò non rende meno profonde e radicate le sue convinzioni repubblicane di allora, e ancor meno sminuisce la portata di quella sua azione, in quanto poeta e in quanto intellettuale, lenta ma efficace, in favore della modernizzazione della Spagna. Machado prese parte alla guerra, è vero, con convinzione e con consapevolezza, sì, ma questo, per quanto possa suscitare consensi e simpatie umane, così come è avvenuto e avviene tuttora, non lo rende un poeta né migliore né peggiore. L’opera è sempre autonoma. L’eroismo di una vita non aggiunge mai valore estetico all’opera d’arte. E non può neanche sottrarglielo. Ciò è valido sia nel caso di chi appoggiò la causa giusta sia in quello di chi si trovò dalla parte sbagliata (sebbene siano queste delle categorie che ormai dicono ben poco, e quel poco che sono ancora in grado di dire abbia a che vedere, soprattutto, con la sopravvivenza di un passato che non si rassegna a passare e a sgombrare il passo). In questo senso il simbolo e il mito di Machado hanno configurato una sorta di schermo che è andato sovrapponendosi alla sua opera e ne ha condizionato fortemente la lettura. L’intero Machado si leggeva a partire da lì, da quel punto finale, da quella decisione etica – umanamente ammirevole – che gli valse l’etichetta di poeta del popolo. E non è che non lo sia stato, perché di fatto fu anche quello, ma la traiettoria di una vita è sempre piena di strade aperte che non si esauriscono mai. Giudicare l’insieme di una vita considerando solo alcuni dei suoi punti significa arrendersi a una forma di privilegio che tradisce l’intima verità di quella vita. Con le opere avviene lo stesso: in ogni punto della loro traiettoria albergano orizzonti di futuro differenti e differenti modi d’intendere il proprio passato artistico. Il corpus deve rendere conto e fare giustizia dell’intera produzione, senza privilegi. Pertanto, chi voglia oggi avvicinarsi alla poesia di Machado deve incominciare col decostruire l’ordine mitico-simbolico che ne ha accompagnato in passato la ricezione dell’opera. Non vi è in questo nessuna forma di sottile e di ingannevole revisionismo, bensì l’invito – serio e sincero – a scoprire la grandezza letteraria di un poeta che vale molto di più del suo effettivo antifascismo.

    Profilo di una vita e genesi di un’opera

    Antonio Machado nacque a Siviglia nel 1875. L’anno precedente era nato suo fratello Manuel, anch’egli poi poeta, un buon poeta. Manuel, di carattere allegro ed estroverso, diverrà sua guida e suo mentore e influenzerà la poesia del fratello molto di più di quanto la critica sia solita segnalare. Nella Madrid del fervore modernista in cui vissero i fratelli Machado, Antonio fu quasi sempre «il fratello di Manuel» (oggi, invece, Machado è soltanto Antonio, e Manuel è stato ingiustamente relegato dagli oscuri disegni del canone a semplice «fratello di Antonio» e poco più). Il padre fu pioniere in Spagna degli studi sul folklore, aspetto di cui resteranno tracce importanti nella poesia machadiana, prevalentemente in quel magnifico intento di recupero e di rielaborazione delle forme popolari che, come linea di continuità, si mantiene nel corso di quasi tutta la sua opera (si veda, per esempio, Proverbi e cantari di Campos de Castilla). La sua era una famiglia colta e liberale, con slanci progressisti e anticlericali, e con un sottofondo massonico che avrebbe impresso carattere al poeta. All’età di otto anni la famiglia si trasferisce a Madrid, a seguito della prestigiosa nomina di suo nonno a preside della facoltà di Scienze di quell’università. Nella capitale, i fratelli Machado frequentano le aule dell’Institución Libre de Enseñanza, il cui spirito laico e liberale avrebbe lasciato un’impronta indelebile nelle loro vite e nelle loro opere. Del rispetto e della devozione che Machado nutrì sempre per i suoi maestri dà conto il primo degli elogi contenuti in Campos de Castilla, dedicato appunto a Francisco Giner de los Ríos, fondatore e alma mater di quell’istituzione senza la quale non è possibile comprendere sino in fondo il clima di rinnovamento e di modernizzazione – culturale e politica – della Spagna degli inizi del Novecento.

    Machado non fu uno studente brillante e in gioventù non arrivò nemmeno a compiere studi universitari. La morte del padre nel 1893, e soprattutto quella del nonno nel 1895 lasciano la famiglia in precarie condizioni economiche. Di questo periodo sono le sue prime collaborazioni giornalistiche, articoli di carattere satirico e di costume sul teatro e sul mondo taurino, sulla società del suo tempo e su un’alquanto confusa attualità politica. Antonio cerca e ottiene lavori saltuari, ma la vita da bohémien che conduce insieme col fratello negli ambienti del modernismo madrileno non fa che peggiorare la situazione. Nel 1899 viaggia a Parigi e lavora come traduttore presso la casa editrice Garnier. Era la Parigi dell’affaire Dreyfus, come ricorderà più tardi, e lì conobbe Oscar Wilde e Jean Moréas, e strinse amicizia con Pío Baroja e Rubén Darío. A Parigi tornerà nel 1902, sempre in compagnia del fratello. Nel 1903 pubblica il suo primo libro, Soledades (Solitudini), esordio tardivo per un poeta, come è solita indicare la critica. Tardivo ma importante: esordio di merito, perché il libro fu accolto con grande entusiasmo negli ambienti modernisti che a Madrid spingevano per il rinnovamento dell’arte e della letteratura. Improvvisamente, quella figura grigia, sempre in disparte, sempre all’ombra del fratello Manuel, quel riservato, come lo chiamava Juan Ramón Jiménez, attirò l’attenzione di tutti.

    La morte della nonna nel 1904 fa precipitare la situazione economica della famiglia Machado. Antonio pensa persino di cercare lavoro presso una banca, ma incoraggiato dal suo maestro Giner de los Ríos decide di presentarsi al concorso per una cattedra di francese nelle scuole superiori. Vinto il concorso, il destino lo porta nel 1907 a Soria, una piccola città castigliana, capoluogo di una delle province più povere della Spagna di allora. Nello stesso anno esce a Madrid Soledades. Galerías. Otros poemas (Solitudini. Gallerie. Altre poesie), il suo secondo libro, anche se la critica, ispirata – e confusa – dallo stesso Machado e da una certa corrispondenza dei titoli, l’abbia sempre considerato – e spesso continui a farlo – come una nuova edizione ampliata e corretta del suo primo libro. Soria significa un cambio di vita: il poeta si lascia alle spalle l’avventura della vita bohémienne, quel modo di vivere incerto e alla giornata, e accoglie – ma con sofferente afflizione – il nuovo orizzonte di sicurezze offertogli dalla cattedra soriana. In quel cambio c’è sapore di speranza e di rinuncia. Tuttavia il cambiamento non risponde esclusivamente a fattori materiali, sebbene questi siano presenti sulla superficie della sua biografia in maniera quasi angosciante, ma vi sono anche importanti motivazioni estetiche. Alcune lettere indirizzate a Miguel de Unamuno in proposito sono altamente significative, poiché in esse Machado mette in discussione una concezione dell’arte che si affermava allora come linea dominante del modernismo spagnolo. Soria, dunque, significa un cambio di orientamento estetico, ma indubitabilmente anche un cambio di orientamento esistenziale, perché lo stile – si sa – è l’uomo.

    A Soria conoscerà Leonor Izquierdo, una ragazza molto più giovane di lui che sposerà nel 1909. Il viaggio di nozze, inizialmente previsto per Barcellona, dovrà essere spostato verso le città del nord in seguito alle rivolte della settimana tragica. È il suo periodo di felicità, secondo il parere di tutti i suoi biografi, anche se è questo un momento in cui in Machado pesa forse maggiormente la tragedia e la frustrazione del futuro piuttosto che la felicità da lui realmente vissuta. Nel 1910 insieme alla moglie si reca a Parigi con una borsa di studio concessagli per approfondire gli studi di filologia e di letteratura francese. Frequenta i corsi di Bédier e di Meillet, e assiste alle conferenze di Bergson presso il Collège de France. Il Bergson del Saggio sui dati immediati della coscienza sarà da allora una fonte chiara del suo pensiero. A Parigi la giovane sposa si ammala di emottisi e sono costretti a un rapido rientro in Spagna. Qui morirà nell’agosto del 1912. Due mesi prima aveva visto la luce Campos de Castilla (Campi di Castiglia), una nuova raccolta poetica la cui calda ricezione della critica fa presto raggiungere al poeta le più alte vette del riconoscimento letterario. Fu salutata con autentico giubilo da Azorín e da Ortega y Gasset, leader indiscussi del rinnovamento culturale di quegli anni. Ma in corrispondenza privata Machado avrebbe confessato che il successo del libro gli era servito per fugare il pensiero del suicidio.

    La vita a Soria gli diviene amara e fa quindi richiesta di trasferimento presso il liceo di Baeza, ove insegnerà fino al 1919. Nella piccola città andalusa Machado cercherà di ricomporre l’ordine della propria vita. Sono anni di solitudine e di afflizione, nei quali pubblica poco, sebbene cominci a scrivere l’importante quaderno che sarebbe apparso postumo con il titolo de Los complementarios (I complementari). Se la radice meditativa era sempre stata presente nella sua poesia, ora il poeta dà briglia sciolta – alternando verso e prosa – alle sue preoccupazioni filosofiche. Non era un volume preparato per la stampa, ma un quadernetto di appunti e di testi dispersi, il cui insieme risulta di capitale importanza per comprendere l’evoluzione della poetica machadiana. Qui c’è, in verità, l’inizio e la chiave di una riformulazione totale della poesia: la riduzione dell’uso del verso in favore della prosa non deve essere interpretata come un abbandono della poesia, o come un suo rifiuto, ma piuttosto come un ampliamento del sentire e del pensare poetici che cercano nella prosa nuove strade da percorrere. I testi raccolti ne Los complementarios costituiscono il fondamento del poeta futuro. Gli anni di Baeza sono anni di solitudine e di aridità (vedasi Un altro viaggio di Campos de Castilla), ma quella sua siccità non era esaurimento della fonte poetica, bensì un ripensamento generale della poesia che ha nell’immagine dell’aridità un suo centro metaforico. Non vi era affatto siccità, ma sì un orizzonte di aridità e di asprezza che alla fine si sarebbe configurato per il poeta come una sua personale via purificativa. In quelle solitudini andaluse, in quei deserti sconfinati, in quel margine del mondo e della vita che era Baeza, Machado avrebbe dato alle sue preoccupazioni filosofiche la forma degli studi universitari, e in qualità di libero studente, con Ortega y Gasset in commissione, si sarebbe laureato nel 1917.

    Dal punto di vista editoriale, il 1917 è un anno importante per Machado. Escono l’antologia Páginas escogidas (Pagine scelte) e il volume Poesías completas. L’antologia era stata preparata da lui stesso e alla sua personale selezione aveva anteposto un interessante prologo in cui traccia un bilancio retrospettivo del suo itinerario poetico. L’altro libro indicava già nel titolo le date che comprendeva (1899-1917), date che andarono modificandosi e dilatandosi in avanti nel corso delle successive edizioni. Poesías completas era indubbiamente un volume ambizioso e, in un certo modo, veniva a colmare una sorta d’insoddisfazione del poeta rispetto all’eterogeneità dei suoi libri precedenti. Qui conferiva una nuova struttura all’insieme della sua opera, struttura che sentiva più consona e adeguata, e che gli permetteva soprattutto di accogliere l’intera sua produzione poetica come un tutto organico aperto persino ai suoi futuri sviluppi.

    Nel 1919 ottiene un trasferimento a Segovia, città castigliana che lo riconsegna – cambiato – a un paesaggio affettivo. La vicinanza a Madrid gli consente di riallacciare un contatto con il mondo letterario la cui assenza era pesata tanto nella sua vita quanto altre assenze su cui si è innalzato il monumento della sua leggenda. Inizialmente Segovia significava soltanto vicinanza a Madrid. Anche se, poi, nei circoli liberali e progressisti della piccola città castigliana, il poeta trovò un gruppo di amici a cui si unirà per dar vita al grande progetto dell’università popolare. Tra questi c’era Blas Zambrano, padre di colei che sarebbe divenuta una delle voci filosofiche più interessanti del Novecento. Per quegli uomini dal temperamento severo e austero, come ebbe a ricordare poi la stessa María Zambrano, la cultura non poteva continuare a essere un segno di distinzione, né di classe né di casta, con il conseguente fattore di esclusione, ma doveva essere il segno della libertà. Questo volle essere quell’università popolare segoviana, nella cui vita si fecero sentire l’impulso e lo spirito machadiani.

    Segovia significò, in effetti, una nuova epoca per il poeta. Significò soprattutto una chiara apertura di possibilità. Le sue collaborazioni coi principali giornali e riviste di allora aumentarono considerevolmente dal suo arrivo nella città castigliana, e ciò garantì al suo nome una sorta di nuova presenza nei circoli artistici e intellettuali della nazione, una presenza più viva, più diretta, più immediata, o, in altri termini, strappò il poeta da quella specie di lontananza in cui era consistito il suo modo di essere presente da quando era partito per Soria e, soprattutto, per Baeza. Nel 1924 pubblica un nuovo libro, Nuevas canciones (Nuove canzoni). Il libro sconcerta il pubblico e la critica, e – salvo contate eccezioni – non è stato di solito giudicato favorevolmente. L’insieme, in verità, aveva un’aria nuova e strana, e, soprattutto, era molto distante da quell’immagine pubblica che era stata forgiata del poeta a seguito del successo di Campos de Castilla. Era una stranezza evidente allora, ma oggi, soprattutto dopo la pubblicazione postuma di Los complementarios, vi si coglie perfettamente sia il lavoro interiore del poeta durante i suoi anni di aridità e di silenzio, sia il percorso che unisce le diverse raccolte.

    Nel 1926, sempre grazie alla vicinanza madrilena offertagli dalla residenza segoviana – vicinanza che è, sì, fisica e geografica, ma anche, forse soprattutto, emotiva e intellettuale –, prende avvio un’interessante collaborazione teatrale col fratello Manuel. A quattro mani daranno vita a un teatro che affonda le radici nel simbolismo modernista d’inizio secolo e che contribuirà a promuovere il rinnovamento teatrale degli anni ’20 e ’30. Tra le loro opere più famose sono da ricordare: Desdichadas de la fortuna, Don Juan de Mañara, La Lola se va a los puertos e El hombre que murió en la guerra. Il teatro, visto soprattutto nella sua dimensione pubblica e sociale, aggiungeva ulteriore presenza a quella nuova presenza culturale conquistata a Segovia.

    Sempre nel 1926, e su riviste (prevalentemente sull’orteghiana «Revista de Occidente»), incomincia a pubblicare i testi – prose perlopiù – del suo nuovo libro, De un cancionero apócrifo (Di un canzoniere apocrifo), che, in qualità di libro, apparirà all’interno dell’edizione di Poesías completas del 1928, e sarà oggetto di aggiunte e modifiche nelle edizioni successive, per quel costante e infaticabile lavoro di revisione e di crescita a cui il poeta sottoponeva la sua opera. La strada intrapresa con Los complementarios e con Nuevas canciones porta direttamente alla teoria e alla pratica dell’apocrifo. Dalla poesia filosofica dell’ultimo libro si passa ora a una filosofia poetica che è stata solitamente sottovalutata dalla critica o, per lo meno, non adeguatamente considerata. Si tratta di filosofia e si tratta di poesia, dell’una e dell’altra senza distinguo ed entrambe con carattere sostantivo. Il libro, come indica il partitivo iniziale del titolo, non si costituisce come un qualcosa di chiuso e di organicamente definito, ma come parte di un qualcosa che è ancora in processo di creazione, come parte di un tutto indefinito che ribolle in un fondo oscuro e che emerge alla luce come lava di un vulcano sconosciuto. L’«essenziale eterogeneità dell’essere», per usare una celebre espressione dello stesso Machado, sta alla base di quella teoria e pratica dell’apocrifo in cui la critica, con gli anni, ha saputo riconoscere i segni e il carattere distintivo di tutta un’epoca. Si è soliti citare in proposito il caso estremo a cui dette vita il poeta portoghese Fernando Pessoa, ma quali precedenti machadiani forse sarebbe più opportuno e adeguato indicare i casi di José Martínez Ruiz e Azorín, di Miguel de Unamuno e Augusto Pérez, di Eugenio d’Ors e Octavio de Romeu, di Gabriel Miró e Sigüenza ecc. Era un progetto ambizioso quello di Machado: si trattava di dar vita a «dodici poeti che sarebbero potuti esistere» e a sei inesistenti filosofi spagnoli dell’Ottocento. Ma in quel momento ciò che l’opera machadiana permise di vedere di quel suo fondo magmatico in ebollizione furono solo le figure di Abel Martín e di Juan de Mairena, e un po’ più in fondo, meno definita e quasi nascosta, quella di Jorge Meneses. Tutto ciò costituisce un luminoso commento della lirica machadiana, e rappresenta inoltre un fedele documento di un io poetico che si mostra dissolvendosi nella sua essenziale molteplicità.

    Nel 1928 conobbe la poetessa Pilar de Valderrama, la Guiomar dei suoi versi di De un cancionero apócrifo. Amore maturo, ma dal sapore adolescenziale. Nel settembre del 1931, pochi mesi dopo la proclamazione della repubblica, Machado ottiene finalmente un trasferimento a Madrid. Nel 1936 appare la quarta edizione delle sue Poesías completas e un nuovo volume di prose intitolato Juan de Mairena che spunta fuori in modo naturale da una delle sue costole apocrife. Libro geniale, importante, cui l’avvento della guerra civile non permise allora di ottenere la meritata attenzione, ma al quale in un secondo tempo, lentamente, la critica ha riconosciuto un valore primario nel contesto delle lettere spagnole contemporanee. Agli inizi dell’anno partecipa a vari atti di carattere politico a sostegno del Frente Popular, la coalizione di sinistra capeggiata da Manuel Azaña, colui che sarebbe poi divenuto l’ultimo presidente della repubblica spagnola. A luglio scoppia la guerra. In realtà la guerra fu conseguenza di un colpo di stato fallito: i militari insorti non riuscirono a imporsi con la rapidità prevista, e l’imprevista, o sottovalutata, resistenza della repubblica aprì lo scenario di una guerra che si sarebbe protratta per tre lunghi anni. Non fu certo una sorpresa la guerra, anche se tra le sfere del potere repubblicano in molti alimentassero la speranza di poterla evitare. Ma la si vedeva arrivare ovunque. Il che, è chiaro, non significa che fosse inevitabile. Dalla nascita della repubblica, la politica spagnola aveva vissuto in un clima di crescente contrapposizione che sfociò in un’aspra e anch’essa crescente polarizzazione della vita pubblica. Quando, nel delicato esercizio del gioco democratico di quegli anni, le forze liberali e moderate vennero meno, il dialogo tra gli estremi contrapposti si fece sempre più difficile. Alla repubblica accrebbero i nemici: non solo dal di fuori, tra coloro che si collocavano ai margini dell’ordine costituzionale, ma anche – in modo tragico e doloroso – dal di dentro, tra coloro che alimentavano un massimalismo che anteponeva al pragmatismo e al possibilismo riformisti l’idealismo rivoluzionario. Il risultato di quella guerra è notoriamente conosciuto: la vittoria degli uni e la sconfitta degli altri si tradusse in una lunga dittatura e in un penoso esilio. Ma ciò che di quella guerra forse non è stato ancora evidenziato chiaramente è la responsabilità repubblicana nella propria sconfitta: quell’insanabile conflitto tra comunisti e anarchici aveva terminato col minare dall’interno la resistenza repubblicana. Da questo punto di vista, più che di una guerra vinta da Franco fu, in verità, una guerra persa dalla repubblica.

    La ribellione dei militari divise la Spagna in due. Le carte geografiche e i bollettini di guerra offrivano un’immagine concreta di quella metafora delle due Spagne così radicata nella cultura di quegli anni.

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