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Senza identità (eLit): eLit
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E-book155 pagine2 ore

Senza identità (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Andrea non ricorda nulla. Non sa come è finita al pronto soccorso, né perché le sue mani sono sporche di sangue. Nessuno sembra cercarla per restituirle l'identità perduta. L'unico volto amico è quello di Troy Stoner, sergente di polizia incaricato di far luce sulla misteriosa vicenda. A poco a poco frammenti di angosciosa memoria riaffiorano dall'oscurità e le indagini di Troy svelano una realtà ancora più inquietante: Andrea, seconda moglie di Richard Malone, è la principale indiziata nell'omicidio del marito...
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2016
ISBN9788858964194
Senza identità (eLit): eLit
Autore

Amanda Stevens

Amanda Stevens is an award-winning author of over fifty novels. Born and raised in the rural south, she now resides in Houston, Texas.

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    Anteprima del libro

    Senza identità (eLit) - Amanda Stevens

    successivo.

    1

    Troy non riusciva a distogliere gli occhi dalla sconosciuta, seduta sul lettino con lo sguardo perso nel vuoto. Il volto della donna era pallido, striato di mascara. I capelli biondi, lunghissimi, erano umidi e scarmigliati. I suoi abiti erano macchiati di sangue, sembrava appena tornata da un viaggio all'inferno.

    «Chi è?»

    La voce del sergente Troy Stoner della polizia di Houston era appena udibile, nel caos del pronto soccorso dell'ospedale St. Mary. In fondo al corridoio, un bambino gridava incessantemente, mentre un uomo ferito in uno scontro a fuoco continuava a lanciare incomprensibili imprecazioni in spagnolo.

    «Non ne ho la minima idea» rispose l'agente Dermott, stringendosi nelle spalle. «Non ha con sé documenti, né carte di credito né qualsiasi altra cosa che permetta di identificarla. E non ha ancora detto una parola da quando è arrivata qui.»

    Era stato Dermott a portarla al pronto soccorso, dopo averla trovata mentre vagava in stato confusionale per le strade di Houston, sotto la pioggia. Chi era? Che cosa le era accaduto? Stando a un primo, frettoloso esame, le sue ferite erano solo graffi superficiali, niente di grave. Il che significava che il sangue di cui erano imbrattati i suoi vestiti non era il suo. Ma allora di chi era?

    Troy si passò una mano sul viso, cercando di scacciare la stanchezza. Avrebbe dovuto tornare a casa a dormire, il suo turno era finito da ore. Ma si era trattenuto in ufficio più del necessario e, quando il tenente Lucas lo aveva chiamato, non si era potuto esimere dall'obbedire. E ora si trovava davanti a una bionda senza nome, una donna spaventata, sconvolta. Una donna fragile.

    A differenza di suo fratello Ray, Troy detestava le donne fragili. A lui piacevano le donne forti, indipendenti, sicure di se stesse, non quelle che suscitavano il suo istinto protettivo. Aveva imparato a proprie spese che donne del genere potevano essere pericolose per un uomo come lui.

    Si schiarì la voce, cercando di attirare l'attenzione della sconosciuta senza spaventarla ulteriormente. «Sono il sergente Stoner» cominciò, assumendo un tono calmo e rassicurante. «Devo rivolgerle qualche domanda.»

    I loro sguardi si incrociarono per un istante. Non vi fu nessuna reazione da parte della sconosciuta.

    «Cominciamo dal suo nome...» riprese Troy.

    Nessuna risposta.

    Prendendo il taccuino e la penna, Troy cercò di evitare che il suo sguardo si soffermasse sulle lunghe gambe della sconosciuta, lasciate scoperte dalla gonna molto corta e preferì concentrarsi sulle macchie di sangue che le imbrattavano i vestiti.

    «L'infermiera dice che lei non ha riportato ferite, tuttavia i suoi abiti sono macchiati di sangue. Può dirci che cosa le è accaduto?»

    Silenzio.

    «Che cosa faceva là fuori, in piena notte? L'agente Dermott l'ha trovata in Westheimer Street, mentre camminava in mezzo alla strada. Che cosa è successo? Stava scappando da qualcuno? È stata aggredita?»

    Troy notò che le mani della donna, appoggiate in grembo, stavano tremando. Lo interpretò come un segno positivo: questo significava che le sue domande scatenavano una reazione, per quanto modesta, nella sconosciuta.

    Qualcuno urlò in corridoio. La donna sobbalzò e si guardò intorno, come se solo in quell'istante cominciasse a prendere coscienza del luogo in cui si trovava.

    «Dove sono?» sussurrò.

    «Al pronto soccorso dell'ospedale St. Mary. Non ricorda?»

    La sconosciuta abbassò lo sguardo sul pavimento. A giudicare dalla qualità dei suoi vestiti e dal braccialetto d'oro che portava al polso, la donna doveva essere abituata ad ambienti decisamente meno squallidi di quello.

    «Come si chiama?» tentò nuovamente Troy.

    La donna tacque di nuovo.

    «Mi ascolti, io sono qui per aiutarla. Non pensa che la sua famiglia potrebbe essere in pensiero per lei?»

    Alla parola famiglia, la donna lo fulminò con lo sguardo. Lo sguardo di un animale in trappola. Troy la vide portare la mano sinistra al collo, per massaggiarselo e fu in quel momento che notò il livido sull'avambraccio e il luccichio del brillante che portava all'anulare. Era una donna sposata.

    «È stato suo marito a farle questo?» chiese il sergente.

    Gli occhi azzurri le si riempirono di lacrime, ma dalla sua bocca non uscì una parola.

    Troy soffocò un'imprecazione. Aveva già visto molti casi del genere: mogli che non denunciavano il marito che le picchiava, che non volevano ammettere nemmeno con loro stesse che cosa fosse realmente successo. Finché non era troppo tardi.

    Il sergente si scostò una ciocca di capelli bagnati dalla fronte. «Mi stia a sentire» ritentò. «Io non posso fare niente per aiutarla, se lei continua a tacere. Non ha nessun documento. Non ha nemmeno la borsetta. L'ha perduta? Gliel'hanno forse rubata?»

    Lei lo guardò in silenzio, con un'espressione indifesa. Una lacrima le rigò una guancia e Troy dovette resistere alla tentazione di asciugargliela.

    «Di questo passo, non andremo da nessuna parte» sospirò. «Non può dirmi almeno come si chiama?»

    «Io... non posso.» La voce della sconosciuta fluttuò nell'aria, come un profumo misterioso e seducente.

    «Che cosa significa non posso?» domandò Troy. «Ha paura di rivelarmi il suo nome?»

    Lei scosse il capo. «Significa che... non mi è possibile» spiegò lei. «Non posso dirle il mio nome perché non so quale sia. Io non so chi sono.»

    «Ehi, Tim, aspettami!» fece Troy, scorgendo in fondo al corridoio l'uomo che cercava: un medico alto e magro col camice che gli svolazzava intorno come un ampio mantello bianco. Troy si affrettò a raggiungerlo e gli strinse la mano vigorosamente.

    «Troy, come stai?» lo salutò il dottor Timothy Seavers. Erano anni che non si vedevano, dai tempi in cui il giovane Tim e la sorella minore di Troy, Madison, studiavano insieme medicina.

    «Bene. E tu?»

    «Oh, indaffarato, come al solito. Come stanno i tuoi?»

    «Bene. Dovresti venire a trovarci, una domenica. A mamma farebbe piacere. E anche a papà. Sai, adesso è in pensione.»

    «Davvero? Credevo che tuo padre non avrebbe mai lasciato la polizia!»

    «Anche noi lo credevamo. Ascoltami, Tim, mi servirebbe un tuo parere sulla donna che è arrivata stasera al pronto soccorso, quella che non ricorda come si chiama.»

    Tim assentì. «Che cosa vuoi sapere?»

    «Vorrei che mi spiegassi, in termini comprensibili a un profano, quali sono le sue condizioni.»

    «Le hanno fatto delle analisi, ma i risultati non sono ancora pronti» obiettò il medico.

    «Mi rendo conto, ma tu l'hai visitata. Ti sarai fatto un'opinione.»

    «Non mi piace tirare a indovinare.»

    «Andiamo» insistette Troy. «Mi basta un parere ufficioso, che resti tra me e te. Mi sarebbe di grande aiuto conoscere la situazione.»

    «E va bene» si arrese Tim. «Come ti ho detto, ancora non ho potuto vedere i risultati delle analisi, ma penso di poter dire con ragionevole certezza che la donna soffre di amnesia isterica.»

    «In parole povere» tradusse il poliziotto «non esiste una causa fisica per la perdita della sua memoria, come una botta in testa o altro?»

    «Esatto. A parte qualche graffio, direi che il suo stato di salute è ottimo.»

    «E quindi» domandò Troy con una certa trepidazione «non è stata violentata?»

    «No» lo rassicurò Tim.

    «Bene» disse Troy, sospirando di sollievo. «Credi che la sua amnesia possa essere simulata?»

    «Direi di no» ragionò il medico. «Ma tutto è possibile. Non posso nemmeno escludere che entro domattina abbia recuperato la memoria o almeno parte di essa.»

    «E se l'amnesia fosse stata provocata da qualche droga?» chiese Troy, tentando un'altra strada.

    «Devo vedere i risultati delle analisi del sangue, per averne la certezza. Ma se vuoi la mia opinione, non lo credo. Direi che la donna ha subito uno shock di qualche genere. Deve avere assistito a un evento traumatico di tale entità da portarla a cancellare dalla memoria tutto quello che ha visto e sentito.»

    «O tutto quello che ha fatto» aggiunse Troy. «Come hai detto tu, ha solo qualche graffio, quindi tutto il sangue che ha sul vestito non è suo. Dev'essere di qualcun altro... Sai, dovremo esaminare i suoi indumenti.»

    «Lo so, lo so, conosco la procedura. Ti prepareremo un pacco con tutti i suoi effetti personali. Tranne la fede: l'ho vista molto nervosa, quando l'infermiera ha cercato di sfilargliela, quindi ho deciso di lasciargliela tenere. Non volevo turbarla. E poi, chissà che l'anello non possa risvegliarle qualche ricordo.»

    «Speriamo» disse Troy, anche se sospettava che il caso non si sarebbe risolto in modo tanto semplice.

    «Mi dispiace per lei» disse Tim, all'improvviso. Quando Troy lo fissò, sorpreso, il medico si affrettò ad aggiungere: «Sì, d'accordo, da noi dottori, come da voi poliziotti, ci si aspetta che non ci lasciamo coinvolgere emotivamente dai casi che affrontiamo, ma non si può pretendere che siamo totalmente privi di sentimenti. E in quella donna c'è qualcosa di... disperato. Non so come spiegarmi...»

    Non ce n'era bisogno. Troy capiva perfettamente che cosa intendesse Tim, perché provava anche lui la medesima sensazione: l'istintivo desiderio di proteggerla. Ma l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quella circostanza era di provare simpatia per una sconosciuta che non ricordava il proprio nome, né da dove venisse il sangue che le macchiava i vestiti.

    Troy ringraziò Tim e lo salutò, quindi salì al settimo piano, dove la donna era stata trasferita dopo gli esami al pronto soccorso. Si fermò davanti alla porta della stanza, domandandosi se fosse il caso di entrare a parlarle. Voleva avere delle risposte, voleva scoprire se l'amnesia era reale oppure solo una finzione.

    Ma era tardi. Era già l'una di notte e l'effetto del caffè che aveva bevuto diverse ore prima cominciava a svanire. La stanchezza stava prendendo il sopravvento. Aveva lavorato troppo negli ultimi giorni, gli sembrava che fosse passata una vita dall'ultima volta che aveva visto un letto. Ma da qualche tempo Troy aveva paura di dormire. Temeva di sognare il proiettile destinato a lui.

    A volte si domandava se suo fratello Gary, ucciso in servizio cinque anni prima, fosse stato perseguitato da quello stesso incubo, prima di morire. E si domandava se anche a Mitch e a Ray, poliziotti anche loro, capitasse di fare sogni del genere. Avrebbe voluto chiederglielo, ma non gli era possibile. Non poteva rivelare loro che fare il poliziotto, a volte, lo spaventava. Non poteva permetterselo: lui era il più coraggioso, lo scavezzacollo di famiglia. Gli Stoner non dovevano scoprire che anche lui, in fondo, era un essere umano. Da qualche tempo, anche troppo umano.

    Forse non era

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