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Senza respiro (eLit): eLit
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E-book379 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Fragili e preziose, le rose hanno bisogno di cura e attenzione per crescere. Nel giardino di Gilly, le rose non fioriscono mai, lei non ha tempo per loro né per se stessa, sovrastata dalle esigenze della propria famiglia, dai pianti ininterrotti dei figli, dalle aspettative degli altri che la soffocano lentamente, togliendole un po' d'aria ogni giorno. Ma proprio nel momento in cui crede di non farcela più, si ritrova con un coltello alla gola. Il suo primo pensiero è che finalmente potrà avere un po' di tregua. Ora qualcuno dovrà salvare lei. Segregata in una casupola circondata solo da neve, con un rapitore sempre meno folle e sempre più umano, le ci vorranno forza e coraggio per non dimenticare che quest'uomo è sull'orlo di un baratro, e che se non starà attenta potrebbe cadere insieme a lui, come una rosa nella neve.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2017
ISBN9788858975916
Senza respiro (eLit): eLit
Autore

Megan Hart

Autrice di numerosi romanzi, tra cui i fortunati Fondente come il cioccolato, Notte di piacere e Inseparabili, editi da Harlequin Mondadori è una delle stelle più brillanti nel firmamento della letteratura erotica. Vive nei boschi della Pennsylvania con il marito e due figli.

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    Anteprima del libro

    Senza respiro (eLit) - Megan Hart

    Gennaio

    . 1 .

    Questa era la vita che si era creata.

    Cracker al formaggio scricchiolavano sotto i suoi stivali, dal sedile posteriore arrivava un afrore sospetto, simile a quello di latte rovesciatosi in qualche invisibile crepa. Una lista di cose da fare rimasta incompiuta, biancheria da stirare ad aspettarla a casa, due bambini esausti e irritabili che piagnucolavano. Era questa la sua vita, e per buona parte del tempo Gilly riusciva a ignorare quei piccoli fastidi, solo dettagli insignificanti di un quadro ben più vasto. Ad accoglierli addirittura con piacere.

    Non oggi, però.

    Vi prego, chiudete il becco. Per cinque minuti. Chiudete il becco!

    «Date alla mamma qualche minuto» fu quello che invece disse Gillian Soloman, in un tono cantilenante che tradiva la frustrazione crescente.

    «Ho sete, mamma!» La vocetta acuta, lamentosa di Arwen le ferì i timpani. «Voglio bere adesso!»

    Conta fino a dieci, Gilly. Conta fino a venti, se necessario. Non perdere il controllo.

    «Saremo a casa fra un quarto d’ora.» Sapeva che quelle parole non avrebbero significato nulla per Arwen, che non aveva ancora la cognizione del tempo, ma per lei erano importanti. Un quarto d’ora. Certo sarebbe riuscita a sopravvivere un altro quarto d’ora, no? Inspirò profondamente per calmarsi. Si incollò in faccia un sorriso, non perché avesse voglia di sorridere, ma proprio per il motivo opposto. Fece attenzione a parlare con voce calma e misurata, perché per i figli un tono irato era come un boccone succulento per uno squalo. Li precipitava in una sorta di frenesia. «Ti avevo detto di portare la tua bottiglia d’acqua. Forse la prossima volta mi darai retta.»

    Gilly si assicurò di aver firmato l’assegno nella riga giusta e compilato correttamente il modulo di versamento. Erano solo dieci bigliettoni più qualche spicciolo, ma se avesse sbagliato a scrivere l’importo esatto sul modulo, l’ente finanziario cooperativo che garantiva prestiti agevolati avrebbe potuto comminarle un’ammenda. E lo avrebbe certamente fatto. Era già successo in precedenza, e per quello lei e Seth avevano litigato. Cominciava a vedere le cifre solo confusamente; si fregò gli occhi.

    «Mamma? Mamma? Mamma!»

    Gilly non si prese neppure la briga di rispondere; sapeva che nel momento in cui avesse detto «Cosa?» Arwen sarebbe piombata in un silenzio sbigottito, senza avere nulla da dire.

    Un quarto d’ora. Venti minuti al massimo. Poi sarete a casa e potrai piazzarli davanti al televisore a vedere i cartoni animati. Devi solo resistere fino ad allora. Non perdere il controllo.

    Dal retro salì il gemito di protesta infinito e senza parole di Gandy, quindi i tonfi regolari dei suoi piedi contro il retro del sedile di guida. Bang, bang, bang, il metronomo della sua irritazione.

    «Gandy. Piantala di prendere a calci il sedile della mamma.»

    Per una frazione di secondo, la penna che aveva in mano vacillò e Gilly pensò di abbandonare in toto l’impresa. A cosa diavolo stava pensando, facendo solo un’altra sosta? Ma al diavolo, aveva bisogno di versare l’assegno e prelevare un po’ di contanti per tirare avanti per il resto della settimana e dato che doveva comunque fermarsi in farmacia a ritirare una ricetta...

    «Voglio bere subito!»

    Cosa vuoi che faccia, che sputi in un bicchiere?

    Gilly ricacciò indietro le parole che le erano salite alle labbra. La nauseava la consapevolezza di quanto fosse stata vicina a pronunciarle ad alta voce. Non erano parole che le appartenessero.

    «Un quarto d’ora, piccola. Saremo a casa fra un quarto d’ora.»

    Bang, bang, bang.

    Strinse con più forza la penna. Inspirò. Contò fino a dieci. Poi fino a cinque.

    Non servì.

    Ripensò alla sera prima: lei che armeggia con le chiavi di casa perché quando è andato a letto Seth ha chiuso la porta che dal garage dà accesso alla lavanderia. Si muove a tentoni in una casa buia dove nessuno lascia mai le luci accese, carica di borse della spesa piene di detersivi e calze e ogni sorta di oggetti, tutti per altre persone, nulla per lei. Aveva fatto compere per ore, vagabondando per i reparti del Wal-Mart, paragonando i prezzi dei canovacci e dei portasapone solo per poter restare sola un’ora in più. Per tornare a casa aveva preso il tragitto più lungo, con la radio ad alto volume, cantando canzoni con testi audaci che non poteva ascoltare davanti ai bambini, perché loro ripetono tutto quello che sentono. Inciampa in giocattoli sparpagliati in giro e che erano nel loro contenitore quando è uscita, e impreca a bassa voce. Prima di entrare in camera da letto, ha acceso solo la luce del corridoio, per non svegliare il marito; la cesta della biancheria pulita sembra... che cosa? Travolta da un tornado. Indumenti sparsi sul pavimento, gettati con noncuranza come se lei non avesse passato un’intera ora a ripiegarli.

    Perfino ora, ricordando quei momenti, le dita di Gillian tremavano e la bile le saliva alla gola. La scusa di Seth era stata: «Cercavo due pigiami puliti per i bambini». Lei si era sdraiata accanto a lui, furiosa, in bocca il sapore del sangue quando si era morsa con forza la lingua.

    Si era svegliata, altrettanto stanca, sentendo Seth sbattere i cassetti del comò e quindi la sua supplica di aiutarlo a cercare un paio di calze pulite, anche se naturalmente erano tutte nella cesta che proprio lui aveva devastato la sera prima.

    Nella doccia, Gilly era rimasta immobile, la testa china, fino a quando l’acqua era diventata gelida. Che lui non l’avesse baciata prima di uscire era stato un sollievo.

    A colazione, i bambini avevano preteso cose diverse da quelle che aveva messo nei loro piatti. Le scarpe non entravano, i cappotti erano scomparsi e tutti i calzettoni di Arwen avevano almeno un buco. Il gatto era sparito chissà dove e quando lo avevano scoperto entrambi erano scoppiati a piangere, sebbene lei avesse cercato di rassicurarli che a Sandy non sarebbe successo alcunché.

    Erano arrivati in ritardo dal medico. In qualunque altra circostanza, avrebbe significato soltanto un’attesa di un quarto d’ora, ma quel giorno l’infermiera l’aveva informata in tono acido che era stata sul punto di cancellare l’appuntamento. Arwen si era chiusa un dito in un cassetto e Gandy era caduto dallo sgabello girevole e aveva battuto la testa. Entrambi avevano lasciato l’ambulatorio in lacrime e Gilly aveva pensato che forse tanto valeva mettersi a piangere a sua volta.

    E le cose non erano migliorate col passare del tempo. C’erano stati piagnucolii, c’erano state lamentele, c’erano stati capricci e urla e minacce di castighi. E naturalmente, benché avesse trascorso ore al Wal-Mart la sera prima, aveva dimenticato di prendere il latte, il che aveva significato un viaggio a Foodland. E i bambini che strepitavano per i cereali con lo zucchero che lei si rifiutava di comperare. Altre lacrime. Occhiate impietosite di donne ben curate senza macchie sul davanti della camicetta e bambini ben educati che non si comportavano come mendicanti affamati. Finito di fare la spesa, Gilly era più che pronta a riportarli a casa e cacciarli a letto. Ma aveva fatto un’ultima sosta al bancomat.

    Solo un’ultima sosta.

    «Mammaaaa.»

    Il piagnucolio crebbe in intensità e insistenza. E i calci continuavano, senza sosta. Come ogni altra cosa nella sua vita.

    Conta fino a dieci. Tieni a freno la lingua. Mantieni il controllo, Gilly. Non perderlo. Non perderlo.

    Tentò di mostrarsi allegra. Non si sarebbe stupita se le si fossero aperte crepe sul viso, tanto sforzo le costò sorridere. «Solo altri dieci minuti, tesoro. Dai alla mamma il tempo di sbrigare questa faccenda, vuoi? Ascoltatemi bene: torno in un attimo.»

    Si girò a guardarli, i suoi angelici mostri. Arwen aveva messo il broncio; a Gandy colava il naso e muco solidificato ai lati della bocca. Si era rovesciato il succo di frutta sulla camicia azzurra. Avevano ereditato il meglio di lei e Seth. Questo era quanto aveva creato.

    «Torno subito» ripeté, anche se nel suo intimo aveva una gran voglia di mettersi a correre lungo la superstrada senza più voltarsi. «Voi restate qui tranquilli e con le cinture allacciate, d’accordo? Mi avete sentito? Cinture allacciate. Non scendete nel modo più assoluto.»

    Le buone madri non lasciavano i figli soli in auto, ma il bancomat era a soli pochi metri di distanza. Faceva abbastanza freddo perché non bollissero nell’abitacolo e lei chiuse le portiere perché nessuno se li portasse via nei cinque minuti che l’operazione avrebbe richiesto. Inoltre, pensò mentre infilava la carta e digitava il PIN, trascinarli fuori nel freddo del crepuscolo sarebbe stato certamente più grave che lasciarli al caldo e al sicuro a bordo della Suburban.

    Soffiava un vento gelido che le scompigliava i capelli e le prime gocce di pioggia cominciavano a staffilarle le guance. Aveva le dita così intorpidite che sbagliò a digitare le cifre e fu costretta a ricominciare.

    Con calma. Vedi di fare giusto. Un numero alla volta, Gilly. Nessun problema.

    Depositò l’assegno, ritirò un po’ di liquidi e, cacciati ricevuta e portafogli nella borsa, tornò alla macchina. I bambini tacevano quando aprì la portiera, ma nel giro di trenta secondi i piagnucolii ricominciarono. E così i calci ritmici, regolari. Il richiamo costante «Mamma?» Ancora una volta, ingollò la rabbia e cercò disperatamente di scarabocchiare l’importo prelevato sul carnet di assegni, perché se non lo avesse fatto subito, se ne sarebbe certamente dimenticata e allora ci sarebbe stata un’altra discussione con Seth, ma le tremavano le mani e le cifre erano illeggibili. Per l’ennesima volta, tirò un sospiro profondo. Poi un altro. Decisa a restare calma. Non valeva la pena di perdere il controllo per una sciocchezza simile. E certo non valeva la pena di mettersi a urlare.

    Cinque minuti. Per favore, state zitti per cinque minuti o giuro che...

    Non doveva perdere il controllo. Non avrebbe dovuto neppure pensare certe cose. Gilly ingranò la marcia e uscì lentamente dal parcheggio. Il centro commerciale brulicava di vita. Cominciò a oltrepassare un minivan posteggiato di sghimbescio, le luci di segnalazione accese, pronunciando mentalmente minacce irripetibili contro chiunque avesse osato fare retromarcia davanti a lei.

    Quella parte del centro commerciale era in costruzione da una vita – la promessa di un ristorante appartenente a una nota catena e di un paio di aggiunte di negozi eleganti aveva fatto sbavare tutta Lebanon, elettrizzata dalla prospettiva di un po’ di raffinatezza e cultura, ma in ultimo una pessima pianificazione e la stagnazione economica avevano ritardato la realizzazione del progetto. Erano riusciti a costruire soltanto una nuova strada di accesso che tagliava con la precisione di un rasoio quello che era stato un campo minuscolo e ordinato.

    Gilly si fermò a uno stop e automaticamente guardò oltre le vetrine vuote alla sua sinistra, anche se in quella direzione tutto ciò che si vedeva alla fine della strada erano cassonetti per i rifiuti e mucchi di detriti. Il rumore della portiera dalla parte del passeggero che si apriva la indusse a voltare la testa. Attonita, guardò il giovane sconosciuto scivolare sul sedile, richiudere lo sportello, quindi grugnire quando urtò con il piede la borsa di tela di lei. Per un istante infinito Gilly non provò terrore, solo sconcerto. «Dove crede...?» Poi vide il coltello.

    Enorme, con la lama seghettata, ben stretto nella mano dell’uomo. Che non guardò nemmeno in faccia. Non era più sconcerto quello che provava, ma una furia gelida, implacabile. Non aveva sognato altro che di tornare a casa, mettere a letto i bambini e fare un bagno caldo. Leggere un libro. Godersi qualche prezioso minuto di pace prima che suo marito rincasasse. E adesso... questo.

    La punta del coltello era vicinissima alla sua guancia; con la mano libera, l’uomo le afferrò la coda di cavallo, tirando con forza. «Vai!»

    Non c’era tempo per riflettere. Gilly andò. Pigiò il piede sull’acceleratore con tanta violenza che le gomme slittarono sul selciato ghiacciato prima di fare presa. La Chevy Suburban si slanciò in avanti, in direzione del semaforo e della strada che portava fuori città.

    Ha un coltello. Sente la pressione dell’acciaio sulla carne, lo immagina mentre la dilania. Il sangue che sgorga. Un coltello può fare tutto questo e molto, molto di più.

    Può uccidere.

    Le mani di Gilly si muovevano in automatico sul volante. Senza quasi pensare, azionò la freccia e si infilò nel traffico. Era scesa la notte. Nessuno poteva vedere quello che le stava accadendo nell’abitacolo. Nessuno poteva aiutarla. Era sola, e al tempo stesso non lo era.

    «Farò quello che vuole. Solo, non faccia del male ai miei bambini.»

    Nessun sorriso questa volta, ma lo stesso tono che aveva usato pochi minuti prima con i figli. Era, si rese conto, la voce di sua madre. Fino a quel momento non se ne era mai accorta e il pensiero le procurò un moto di nausea.

    «Mamma?» Arwen sembrava spaventata, confusa. «Chi è quest’uomo?»

    «Va tutto bene, bambini.» No, non era la voce di sua madre, grazie al cielo, ma quella che Gilly usava quando medicava punture d’insetto o escoriazioni. Cose che facevano male, qualunque cosa lei dicesse o facesse.

    «Uomo cattivo» decretò Gandy, con la saggezza dei suoi due anni.

    Lo sguardo dello sconosciuto saettò verso il sedile posteriore, come se si fosse accorto solo in quel momento della presenza dei due bambini. «Merda.» Si fece più vicino. Questa volta la sua mano afferrò il sedile, non i capelli di Gilly, ma il coltello rimase vicinissimo al suo collo. «Prendi a sinistra.»

    Lei obbedì. Strizzò gli occhi, per proteggersi dai fari delle auto che procedevano nella direzione opposta. Inchiodare di colpo? Far ruotare il volante e urtare un’altra automobile? Svariate possibilità le passarono per la mente senza che riuscisse a sceglierne una, la rabbia dissolta in uno stordimento dovuto all’indecisione e alla paura. Eseguì gli ordini abbaiati di puntare fuori città, lontano dalle luci. Dalla sicurezza. Da ogni possibilità di aiuto.

    «Dove vuole che vada?» Il grosso SUV sobbalzava a ogni radice che affiorava dall’asfalto, e il coltello oscillava sempre troppo vicino alla sua carne. Se lui l’avesse ferita, avrebbe sanguinato e non voleva che i bambini vedessero il sangue. Era disposta a qualunque cosa pur di evitarlo.

    L’uomo tornò a guardarsi indietro. «Ti dirò io quando sarà il momento di svoltare.»

    Ora viaggiavano attraverso la campagna coltivata, superando silos e granai, tutti bui e silenziosi. Gilly arrischiò un’occhiata, quindi tirò un respiro profondo e parlò in fretta, per costringerlo ad ascoltare. «Nella borsa ho sessanta dollari. Può prenderli. Ma ci lasci andare.»

    «Tieni la bocca chiusa e guida!»

    Il traffico era cessato del tutto, dalla direzione opposta non arrivava neppure una macchina. Gilly mise in funzione il tergicristallo per spazzar via il sale e i sassolini. Decise di non compiacerlo e di non accelerare ancora.

    Se non erano soldi che voleva, che cosa, allora? L’auto? Non era esattamente il genere di veicolo che immaginava qualcuno volesse rubare. Vecchiotto ma ben tenuto, ed era costato una cifra, ma lei non gli era affezionata.

    «Senta, se è l’auto che vuole, può averla.»

    «Chiudi il becco!» La luce verde del cruscotto strappò un barbaglio alla lama.

    Non l’auto, dunque, e neppure il denaro. Voleva... lei?

    Dietro, entrambi i bambini avevano preso a piagnucolare, un suono che in qualunque altro momento le avrebbe fatto digrignare i denti. Ora invece le spezzava il cuore. La strada si stendeva buia e deserta di fronte a loro. Niente lampioni nella campagna della Pennsylvania. Nient’altro che il debole chiarore di candele elettriche alle finestre di una fattoria in fondo a un lungo viale sterrato.

    «Che cosa vuole, allora?» Stringeva il volante con tanta forza da non sentire più le dita.

    Nessuna risposta.

    «Lasci almeno andare i bambini.» Gilly stette attenta a parlare a voce bassa; non voleva farsi sentire da Arwen e Gandy. «Posso accostare in modo che scendano. Poi farò tutto quello che vorrà.»

    Era passato appena un quarto d’ora. Senza quella follia, sarebbe stata già a casa, al sicuro. L’uomo seduto al suo fianco esplose in una litania sommessa di imprecazioni. Il coltello era così vicino al suo viso che Gilly non osava neppure voltare la testa per guardarlo. Davanti a loro, nulla se non la strada buia e dritta. «Li lasci andare» ripeté, e ancora una volta lui non rispose. Fu allora che lei esplose. «Figlio di puttana, lasci andare i miei figli!»

    «Ti ho detto di tenere la bocca chiusa.» La afferrò per la nuca, accostandovi la punta della lama.

    A quel contatto Gilly fremette, quasi aspettandosi di sentirla affondare, ma avvertì solo una leggera pressione. Appena una trafittura, certo, ma una semplice torsione delle dita sarebbe bastata a ucciderla. Avrebbe perso il controllo dell’auto e sarebbero morti tutti.

    Poco più avanti, le luci di una grande fattoria in pietra costruita quasi sul ciglio della strada rischiaravano l’asfalto. Un alto muro, pure di pietra, separava il viale dal cortile. Benché quell’anno le nevicate fossero state rare, contro il muro si addossavano due cumuli bianco sporco.

    Con uno scatto improvviso, Gilly sterzò per imboccare il viale. Le ruote sollevarono spruzzi di ghiaia e un sasso più grosso colpì il parabrezza con violenza sufficiente a intaccare il vetro. Pigiò sul freno e sentì il SUV slittare verso lo spesso muro di pietra. Assecondare il movimento o contrastarlo? Non se lo ricordava e comunque non aveva importanza. L’auto slittò, scivolò e infine, con un fremito, si fermò appena prima di sbattere contro il muro. Gilly avvertì la pressione della cintura di sicurezza. L’uomo fu proiettato in avanti e colpì il parabrezza con la testa, incrinandone il vetro, prima di essere nuovamente proiettato all’indietro.

    Gilly non perse tempo a controllare se l’impatto gli avesse fatto perdere i sensi. Pigiò il pulsante che abbassava completamente il finestrino, con gesti frenetici sganciò la cintura di sicurezza e si slanciò sul sedile posteriore. Arwen stava piangendo e Gandy farfugliava chissà cosa, ma non c’era tempo. Allungò la mano a sganciare anche le loro cinture.

    Le luci all’interno della fattoria erano accese quando erano entrati nel viale, e in quell’istante anche la veranda si illuminò. Questione di pochi istanti e qualcuno sarebbe uscito a vedere chi fosse arrivato. Gilly era passata davanti alla casa un’infinità di volte, ma non ne aveva mai visto gli abitanti. Ora però era costretta ad affidare loro i suoi figli.

    «Non piangere, piccolo.» Attirò a sé Gandy.

    L’uomo emise un gemito. Ora sulla sua fronte spiccava un segno purpureo, con al centro un grumo di sangue. Altro sangue sgorgava dal naso e colava verso la bocca e lungo il mento. Sbatté le palpebre.

    «Ti voglio bene» bisbigliò Gilly all’orecchio del figlio mentre lo aiutava a uscire dal finestrino. Lo sentì gridare quando atterrò sul terreno gelato, ma sapeva di non doversi commuovere. Non c’era tempo. Arwen recalcitrò e protestò, ma Gilly la afferrò per la felpa rosa e la trascinò verso di sé.

    «Ti voglio bene, tesoro.» Ora l’uomo aveva cominciato a imprecare. Le restavano solo pochi secondi. «Prendi Gandy per mano e correte verso la casa. Mi hai sentito? Correte più in fretta che potete ed entrate!»

    Agganciò la tracolla della sua borsa alla spalla di Arwen. Dentro c’erano il portafoglio e il cellulare. Qualcuno avrebbe chiamato Seth. La polizia. Una ridda di pensieri confusi le affollava la mente. Infine spinse la bambina fuori del finestrino, accorgendosi solo allora che era scalza. Si sentì invadere da un’irritazione tanto irrazionale quanto inutile; aveva raccomandato a Arwen di non togliersi le scarpe da ginnastica e sapeva che adesso avrebbe avuto freddo mentre correva sulla neve.

    Aveva la mano sulla maniglia quando lui la agguantò di nuovo.

    «Stronza!» sibilò, e lei attese il contatto gelido della lama che affondava nel collo. Il tempo si era volatilizzato, era fuggito via. «Farai meglio a rimettere in moto e muoverti, se non vuoi che ti ficchi questo nella fottuta pancia!»

    Fu lui stesso ad allungarsi e ingranare la retromarcia. Il motore prese vita e il SUV sobbalzò all’indietro. Gilly afferrò il volante, cercando di riprendere il controllo del veicolo, terrorizzata all’idea di investire i figli. I fari ne illuminarono le sagome mentre arrancavano nella neve, stretti l’uno all’altra. La porta si aprì e comparve una donna mennonita con indosso un abito a fiori e una cuffietta a coprire i capelli. La sua bocca disegnò una grossa O sorpresa quando vide il SUV slanciarsi di nuovo in strada, come una volpe inseguita dai cani. Nello scorgere i bambini piangenti, serrò convulsamente le mani e corse verso di loro. Anche lei era scalza. Gilly non avrebbe mai dimenticato l’immagine dei figli nello specchietto retrovisore mentre si allontanava a tutta velocità. Non poteva vederli in viso e anzi ne scorgeva solo le silhouette nella luce della veranda. Due figurine che si tenevano per mano.

    «Guida!» sbraitò l’uomo che si era preso la sua vita, e lei guidò.

    Aveva percorso più di un chilometro prima di rendersi conto che, dopotutto, lui non l’aveva aggredita. Le teneva ancora il coltello a pochissima distanza dalla nuca, ma non aveva neppure accennato a ferirla. Non reagì quando l’auto slittò su una chiazza di ghiaccio. Forse sarebbero finiti fuori strada e in un fosso. Non riusciva a pensare a nulla che non fosse quello che era accaduto, che stava ancora accadendo.

    I suoi bambini, rimasti indietro.

    «Non era così che doveva andare. Merda. Merda. Merda!»

    Lui ripeté la parola più volte, ma la sua era più una litania che una vera sequela di imprecazioni. Gilly affrontava le curve guidata più dall’istinto che dalla concentrazione. Rabbrividendo a causa dell’aria gelida, teneva entrambe le mani sul volante, senza osare staccarle per alzare il finestrino.

    «Dannazione, mi fa male la testa.»

    La camicia coperta di sangue, l’uomo si chinò a prendere un rotolo schiacciato di carta cucina, di cui usò qualche pezzo per ripulirsi, quindi tornò a puntare il coltello contro di lei. Ma ora la sua mano tremava.

    «Cosa vuole da me?» Gilly non riconobbe la propria voce. Suonava così bizzarramente remota! Lei stessa si sentiva infinitamente lontana. Stava succedendo davvero?

    Lui sbuffò. «Limitati a guidare. E alza quel fottuto finestrino.»

    Lei fece come le veniva detto, quindi riportò le mani sul volante. Avevano percorso solo pochi chilometri. Più avanti, c’erano le luci di un semaforo. Accelerò prima che scattasse il rosso. Un paio di chilometri ancora, ed eccone un secondo. Cosa avrebbe dovuto fare, se lo avessero trovato rosso? Fermarsi e scaraventarsi fuori dell’auto, come aveva scaraventato fuori i bambini? Arrischiò un’occhiata al sequestratore. Lui non la stava nemmeno guardando. Poteva farcela, pensò Gilly. Ma quando furono all’altezza del semaforo, questo non fu così compiacente da diventare rosso, e neppure giallo. Il verde illuminava i contorni del viso dello sconosciuto quando si voltò verso di lei. «Svolta a destra.»

    Si trovavano, ora, su una statale, ma deserta e immersa in un contesto rurale a dispetto della complicata sequenza di cifre che la indicavano. Gilly si concentrò sulla propria respirazione. Inspirare. Espirare. Era decisa a non svenire.

    La voce dell’uomo era soffocata quando disse: «Credo che tu mi abbia rotto il fottuto naso. Cristo, cosa diavolo volevi fare?».

    Gilly ritrovò la voce. Esile e rauca, ma tutta sua, senza l’eco di nessun’altra. «Non ha voluto che mi fermassi per far scendere i miei bambini.»

    «Avrei potuto ferirti. Posso ancora farlo.» Sembrava sconcertato.

    Gilly non distolse il viso. Le mani saldamente sul volante. Erano queste le cose che la tenevano ancorata alla realtà, la strada, il volante. Cose solide, reali. Non il resto, non l’uomo seduto accanto a lei, non i suoi figli rimasti indietro. «Ma non lo ha fatto. E io sono riuscita a far scappare i bambini.»

    Un altro sbuffo soffocato. Il tampone di carta che si premeva contro il naso cadde, ma lui non accennò a recuperarlo. Aveva appoggiato il coltello sulle ginocchia. Non più così vicino a lei, ma pronto a essere usato. Gilly non dubitava che se avesse fatto una mossa improvvisa, se lo sarebbe trovato di nuovo a contatto con la pelle.

    «Be’, merda» disse lui, prima di ripiombare nel silenzio. Silenzio. Nulla, tranne il ronzio del motore e la folata occasionale provocata da un’auto di passaggio. Gilly aveva la mente vuota. Non riusciva a pensare a niente se non a guidare.

    Si trovava in quello stato da almeno una ventina di minuti prima che se ne rendesse conto, molto dopo aver attraversato l’ultimo piccolo centro e avere imboccato la superstrada immersa nell’oscurità. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che non aveva pensato a niente? Si chiese. Il suo cervello non era mai silenzioso, mai a riposo. Non aveva tempo da sprecare in fantasticherie. C’erano sempre troppe cose da fare, di cui occuparsi. I suoi pensieri erano come un criceto sulla sua ruota, che correva e correva senza arrivare mai da nessuna parte.

    L’indomani avrebbe dovuto portare il cane dal veterinario. E Arwen all’asilo. Gandy aveva bisogno di un paio di scarpe nuove. Quanto al pavimento della cucina, reclamava una bella pulita, e lei aveva avuto intenzione di occuparsene prima di pagare l’ultima tornata di bollette... e se ne avesse avuto il tempo, anche di riorganizzare l’armadio. E tutto questo con la consapevolezza che non sarebbe riuscita a portare a termine neppure una di quelle incombenze senza venire interrotta. Senza che qualcuno si aspettasse di vederla prendersi cura delle sue necessità.

    Quella sera un uomo le aveva puntato contro un coltello, l’aveva minacciata di privarla di quel domani con il suo elenco di doveri e richieste. Se non altro, qualunque cosa fosse accaduta, qualunque piega avesse preso la situazione, Gilly non sarebbe stata costretta a trascinarsi ancora esausta fuori del letto per affrontare un’altra lunga giornata. Se avesse avuto fortuna, e un’occhiata al giovane che le sedeva accanto le disse che non era improbabile, forse non avrebbe più dovuto alzarsi dal letto.

    Quel pensiero non la spaventò quanto avrebbe dovuto.

    Sentì l’uomo agitarsi sul sedile. «Dobbiamo prendere la 80.»

    «Non sono sicura...»

    «Te la indico io.»

    Nel breve balenio di un lampione, lei vide che aveva la fronte aggrottata, come se fosse concentrato su qualcosa. Tornò a guardare la strada davanti a sé, i fari delle auto e i cartelli illuminati che indicavano le varie uscite. L’uomo le ordinò di prendere quella per la interstatale, e lei obbedì. Poi lui si accasciò sul sedile, la testa contro il finestrino, e il suono del suo respiro torturato le riempì le orecchie come quello dell’oceano, regolare e costante.

    In quel silenzio, non rotto da pianti e richieste, Gilly lasciò che la sua mente si svuotasse di nuovo.

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