Il secondo primo bacio: Harmony Jolly
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Anteprima del libro
Il secondo primo bacio - Scarlet Wilson
978-88-3052-794-2
1
Addison era così nervosa che non riusciva a stare ferma. Erano le tre e Caleb non era ancora a casa. Di lì a un'ora dovevano partire per l'aeroporto e lui non aveva nemmeno fatto la valigia.
Suonò il campanello e Addison corse ad aprire. Si trovò davanti Lara, la tata di suo figlio Tristan, grondante di pioggia.
«Lara? Che diavolo succede? Vieni, entra.»
La ragazza avanzò nell'atrio trascinandosi dietro un grosso trolley. «Mi dispiace tanto, Addison» si scusò. «So che sei in procinto di partire per la tua vacanza, ma non avevo altro posto in cui andare.»
«Cos'è successo?» chiese Addison, cercando di non lasciarsi travolgere dal panico. Lara era una tata perfetta. Suo figlio la adorava. Anche se sarebbero stati via un mese, voleva esser certa che Lara non fosse nei guai.
Lara tirò su col naso. «Ho avuto un momento Sliding Doors. Ho preso la metro prima del previsto e ho trovato Jason... era a letto con la vicina» concluse, la voce tremula.
«Cosa? Lui cosa?» Addison era furibonda. «Quel verme fannullone, buono a nulla. Hai pagato tu l'affitto per non so quanto... non ha mai tirato fuori un centesimo e ti tratta in questo modo?» Non le era mai piaciuto il ragazzo di Lara, e adesso ne capiva la ragione.
Le cinse le spalle con un braccio e la guidò in cucina, poi accese la macchinetta del caffè. «Vieni, ti offro qualcosa di caldo e forte» disse. Poco dopo, posata una tazza davanti a Lara, si sedette sull'altro lato della penisola. «Cosa farai ora?»
Lara si mordicchiò il labbro. «Mi dispiace, mi sono fatta prendere dal panico. Ho buttato qualcosa in valigia e me ne sono andata. Mi rendo conto che questa non ti ci voleva, proprio ora.»
Addison non rimase sorpresa da quel commento. Lara era molto perspicace; anche se non le aveva mai detto nulla, si era accorta della tensione che c'era in casa.
«Di cosa hai bisogno?» le domandò.
«Mi chiedevo se...» mormorò Lara, visibilmente a disagio, «... mi serve un posto in cui stare. Potrei rimanere qui da voi mentre siete via?»
«Ma certo» fu la pronta risposta. «Non c'è problema.» Poi Addison si alzò. «E, Lara? Non rinunciare alla tua vacanza. Hai risparmiato sino all'ultimo penny per la crociera. Non lasciare che quel bastardo ti rovini tutto. Vai e goditi ogni secondo senza di lui.» Allungò il braccio e le diede una stretta affettuosa sulla spalla. «Posso lasciarti un attimo da sola? Entro un'oretta Caleb e io saremo fuori dai piedi, e devo finire di fare i bagagli.»
Lara annuì e le sorrise grata. «Grazie, Addison. Sono in debito con te.»
Lei incontrò il suo sguardo. «Ti meriti qualcuno che ti ami e ti rispetti, ricordatelo.»
Con ciò, uscì dalla cucina.
Mentre entrava nell'atrio la porta d'ingresso si aprì. Caleb. Anche lui bagnato fino alle ossa, e al telefono.
«Caleb? Ma lo sai...?»
Lui le fece segno di tacere mentre continuava la conversazione. «Frank, so esattamente quanto è importante. Me ne occuperò io. Te lo prometto. Il prezzo dello stock non crollerà. Sono mesi che lavoro a questa trattativa. Non permetterò che qualcosa vada storto.»
Aveva l'aria stanca. Camicia e calzoni erano spiegazzati, segno che aveva lavorato tutta la notte. Capitava sempre più spesso da quando il giro di affari si era espanso.
Con Caleb, non temeva affatto il tradimento. Non aveva abbastanza ore al giorno per lei e Tristan, figuriamoci per un'altra donna. Da tre anni a quella parte il lavoro era tutto per lui. E si erano allontanati. L'uomo accanto al quale adorava accoccolarsi non veniva quasi più a letto. Se non stava lavorando nel suo ufficio della city, lavorava a casa, nel suo studio.
Anche per lei il lavoro era aumentato vertiginosamente. Aveva cominciato da ragazza, dopo aver perso la sorella per un cancro alle ovaie, aprendo un sito dove scambiare informazioni con altre persone nella stessa situazione. Poi era stata contattata da una famosa attrice, alla quale era stato diagnosticato lo stesso tipo di cancro, che le aveva scritto che le parole che aveva letto sul suo sito l'avevano spinta a lottare. Il ritorno di pubblicità era stato altissimo e da quel momento in poi era stato un turbinio di attività.
Però non aveva mai messo in secondo piano la famiglia.
Negli ultimi dieci anni erano successe tante cose. Aveva conosciuto Caleb a una festa per una raccolta fondi e si era innamorata perdutamente. Si erano sposati, avevano avuto Tristan e la vita per loro era diventata perfetta. Aveva assunto del personale che la aiutasse con gli eventi che organizzava e anche il lavoro di Caleb era decollato.
Chiunque, vedendoli dall'esterno, avrebbe pensato che erano la coppia perfetta, la famiglia ideale. Suo marito era un bell'uomo. Anche così arruffato, con quell'aria stanca, le faceva battere più forte il cuore. Tristan, il loro bambino, era una versione in miniatura del padre. Vivevano in uno dei quartieri più eleganti e lussuosi di Londra.
Ma qualche settimana prima era accaduto qualcosa che le aveva fatto aprire gli occhi. Qualcosa di cui non era ancora riuscita a parlare con suo marito. Era stato allora che si era resa conto di quanto si erano allontanati e che aveva deciso di prenotare quella vacanza, praticamente ordinando a Caleb di trovare il tempo per partire. Dovevano prendere delle decisioni, e avevano un disperato bisogno di stare insieme come una famiglia. Voleva poter parlare col marito senza il timore che, a distrarlo, gli squillasse il cellulare o gli arrivasse una mail.
Caleb stava ancora parlando al cellulare, ignorandola, e Addison sentì chiudersi lo stomaco. Non poteva andare avanti in quel modo. Quella non era vita.
Caleb era l'uomo che l'aveva fatta ridere, piangere, gridare di piacere. L'uomo che ogni notte l'aveva tenuta tra le braccia, con cui aveva chiacchierato fino all'alba, dopo aver fatto l'amore con slancio appassionato. L'uomo che la mattina le aveva portato la colazione a letto e, per farle una sorpresa per il matrimonio, aveva fatto arrivare i suoi amici da tutte le parti del mondo – a sue spese. Quando gli aveva mostrato il test di gravidanza, una mattina, si era messo a saltare per la gioia e per quando era rientrata la sera, aveva trovato la casa piena di palloncini rosa e azzurri.
Tanti ricordi preziosi di un rapporto che sembrava finito.
Qualche settimana prima aveva tentato di organizzare una serata speciale. Dopo aver affidato Tristan alle cure di Lara, aveva passato ore in cucina a preparare i piatti preferiti di Caleb, poi aveva apparecchiato con particolare attenzione la tavola della sala da pranzo. Si era messa un abitino rosa scuro, si era truccata, quindi si era seduta a tavola ad aspettarlo.
E aveva aspettato... aspettato... aspettato.
La cloche d'argento che copriva il secondo test di gravidanza non era mai stata sollevata.
Le candele si erano consumate e spente. La cena era finita nella spazzatura e l'abitino rosa nel cesto della biancheria da lavare. Caleb era arrivato alle due passate... aveva sentito il materasso piegarsi sotto il suo peso quando l'aveva raggiunta a letto.
Non gli aveva detto nulla. Era già capitato tempo prima che fossero in disaccordo sull'idea di espandere la famiglia. Lei voleva un altro figlio – Caleb non sembrava troppo convinto.
Aveva pregato che accogliesse con gioia la notizia di quella gravidanza inattesa, come era successo la prima volta. Invece, non era nemmeno ancora riuscita a parlargliene.
Il telefono squillò e Addison rispose. Caleb era ancora attaccato al cellulare e continuava a non guardarla.
«Salve, posso parlare con Addison Connor, per favore?»
«Sono io» rispose lei, riconoscendo vagamente la voce.
«Ah, Addison. Sono il dottor Mackay.»
Un brivido freddo le increspò la pelle. Il suo ginecologo. Lo aveva visto la settimana prima per avere conferma della gravidanza ed eseguire i primi esami di routine.
Lo sguardo le corse automaticamente a Caleb. Avrebbe potuto sentirla, ma era troppo preso dalla sua telefonata per accorgersi di altro.
«Mi dica, dottore.»
L'uomo ebbe un attimo di esitazione. «Potrebbe fare un salto qui in studio nel tardo pomeriggio?» disse infine. «O magari, domattina.»
Il brivido si tramutò in una morsa di gelo che le attanagliò il petto. «Perché?»
«Dobbiamo fare due chiacchiere.»
«Parto tra un'ora e starò all'estero per un mese. Non posso venire in studio. Se c'è qualcosa che deve dirmi, lo faccia ora.»
Si rese conto di essere stata scortese, ma non aveva potuto evitarlo. Era certa che non fossero buone notizie quelle che doveva darle il ginecologo. Eppure, era sembrato tutto a posto quando aveva fatto la visita e l'ecografia.
Lo sentì trarre un profondo respiro. «Non è l'ideale parlarne al telefono. Preferirei incontrarla.»
«Mi dispiace, ma non è proprio possibile. Cosa deve dirmi?»
Il medico sospirò. «Dobbiamo parlare degli esiti del test NT.»
Addison drizzò le spalle. «La translucenza nucale? La misurazione della fessura a livello della cute nucale del bambino, giusto? Il...» lanciò un'occhiata in direzione di Caleb. Avrebbe potuto sentirla, ma si era girato verso la porta e non stava affatto prestando attenzione a lei. «Il tecnico non ha accennato a problemi di sorta» obiettò.
«Me ne rendo conto. Ma lo sa che i fattori di rischio sono calcolati su diversi parametri. La translucenza, gli esami del sangue, l'età della madre... I test effettuati sino a ora mostrano che potrebbe essere ad alto rischio di avere un bambino affetto dalla sindrome di Down.»
Il cuore le si fermò in petto. «Quanto alto?»
Tutti i rumori erano svaniti nello sfondo. L'unica cosa su cui riusciva a concentrarsi erano le parole del medico.
«Normalmente ci aspettiamo uno spessore al di sotto dei tre millimetri. Nel suo caso, parliamo di tre millimetri e sette, quindi leggermente superiore. Una donna di trent'anni in genere ha una percentuale di rischio di uno su mille. Combinando la misurazione con la sua età e con l'esito dell'emocromo, il suo rischio di avere un bambino Down è di una su centoquaranta» spiegò il ginecologo senza tanti giri di parole.
Addison ebbe la sensazione che il terreno le mancasse sotto i piedi. Non stava succedendo. Non era possibile. Sembrava che fosse tutto a posto. Aveva già fatto quel test quando era rimasta incinta di Tristan e nessuno le aveva telefonato. Le era semplicemente arrivata una lettera nella quale la informavano che era a basso rischio.
«Signora Connor?»
«Pensavo si fosse più a rischio nei quarant'anni. Io ne ho appena compiuti trenta» ribatté, cercando di dare un senso a quello che le era appena stato detto.
«L'età è un fattore, ma non sempre. Se crede, possiamo fare altri esami. È già entrata nel quarto mese, però, quindi è tardi per il prelievo dei villi coriali.»
Addison non aveva idea di cosa stesse parlando.
«Ma possiamo fissare un'amniocentesi alla quindicesima settimana. Oltre ad altri esami più specifici.»
«L'amniocentesi è rischiosa, vero?»
«Sì, c'è una bassa percentuale di aborti associata a quel tipo di indagine.»
«Allora, no, non voglio fare altri test. Non farò nessun altro esame.»
Alle sue parole seguì qualche istante di silenzio. Caleb, dall'altro capo della stanza, colse per un attimo il suo sguardo. Qualche anno prima lui era la sua roccia, il suo... tutto. In quel momento invece, si sentiva sola come non mai.
«Signora Connor, le sarò di sostegno in ogni sua decisione» disse il ginecologo. «Tuttavia, vorrei che facesse un'ecografia alla ventesima settimana. Se il suo bambino è affetto dalla sindrome di Down, c'è la possibilità che ci siano dei difetti cardiaci. Nel qual caso, si vedranno chiaramente sul monitor, quindi potremmo programmare un eventuale intervento prima del parto. Sarebbe nell'interesse del piccolo.»
Addison si sforzò di essere razionale. Trasse un profondo respiro e si prese un paio di secondi per riflettere. Ricordava chiaramente i dettagli delle ecografie di Tristan. Durante la seconda, era stato detto loro che avrebbero avuto un maschietto. Erano così eccitati che quando erano usciti dallo studio si erano infilati nel primo negozio per bambini a comprare delle tutine azzurre.
Chiuse gli occhi per un istante. Adesso, aveva la sensazione di non poter contare su Caleb, perché era quasi certa che non avrebbe trovato il tempo per accompagnarla alla seconda ecografia. Si vedeva già, distesa in quella saletta in penombra, da sola.
I suoni che