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331 metri al secondo
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E-book257 pagine3 ore

331 metri al secondo

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Info su questo ebook

La città ha una voce.
E solo io posso sentirla.

Milano, quattordici anni fa.
Chon ha dodici anni e l’udito di un pipistrello. Riesce a cogliere un bisbiglio a distanza di trenta metri. Ecco perché, quando sente due uomini correre su per le scale del palazzo in cui vive e sfondare la porta di casa, si nasconde e resta immobile sotto il divano. Poi, solo spari e sangue.
Chon diventa l’unico sopravvissuto all’agguato nel quale perde la vita tutta la sua famiglia. Sotto choc, si sottrae al controllo della polizia e si rifugia nelle gallerie sotterranee della metropolitana, dove rimane per sessantatré giorni, senza mai vedere la luce. È qui che incontra Lara, una sua coetanea che è appena scappata di casa e che gli cambierà la vita per sempre…

Milano, oggi.
Chon ha ventisei anni. Vive in periferia, in una villa abbandonata, e lavora come saldatore nel cantiere di due grattacieli di lusso, la Torre Ghiaccio e la Torre Vento. Lassù, dove l’aria sfiora spesso gli 0 °C, la velocità del suono raggiunge esattamente i 331 metri al secondo. Col passare del tempo il suo udito si è fatto più potente. La città è una sorgente di rumori intollerabili per lui, condannato dalla sua iperacusia a sentire ogni voce di gioia o dolore che si solleva dal suolo. Ed è per questo che Chon è diventato un informatore del Fermo, vicecomandante del Nucleo Investigativo. Solo tenendo le orecchie aperte, Chon riesce a scoprire piani segreti e crimini efferati.
Ma quello che nessuno sa è che Chon aspetta da anni solo una cosa. L’uscita di galera degli assassini dei suoi genitori. E quel giorno è appena arrivato…

In una Milano inedita, fatta di grandi cantieri e paesaggi desolati, Rosanna Rubino sferza la pagina come un lampo di luce nell’oscurità, regalandoci un urban thriller adrenalinico ed esplosivo, con un protagonista indimenticabile. Un emarginato dalla società, ma che nasconde un segreto grande come la sua forza.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2018
ISBN9788858986431
331 metri al secondo
Autore

Rosanna Rubino

Nata a Napoli, vive a Milano. È architetto, consulente nel settore real estate. Da sempre, la sua passione è la scrittura. Ama scrivere nei bar, in mezzo alla gente. Ha frequentato la scuola di scrittura creativa di Raul Montanari. È mamma di una bimba di nome Sophie.

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    Anteprima del libro

    331 metri al secondo - Rosanna Rubino

    ORA

    Milano, oggi

    «FALLO CHON» dice Lara.

    Il vento è gelido stanotte, brucia la pelle come ghiaccio secco, prende a sberle lo scheletro della torre fischiando tra i pilastri in costruzione. Le reti di protezione vibrano, le impalcature cigolano.

    In piedi sul ciglio del solaio, Lara fissa la città. Sotto di lei, cinquantuno piani di vuoto. La sua figura sottile ha la consistenza di un’ombra. Indossa una gonna di tulle che piroetta nel vento. Si volta nella mia direzione.

    «È TUTTO A POSTO» dice.

    Sento i suoi bisbigli come se fossi lì accanto a lei.

    Invece sono seduto su questa sedia davanti alle porte degli ascensori. Ho ventisei anni, i vestiti lerci e la testa in fiamme. La sedia traballa, una delle gambe deve essere più corta delle altre, e appena mi muovo ticchetta sul pavimento. Cerco di restare immobile per non sentire quel tic, e poi tic, ancora tic. Allungo le orecchie.

    Milano parla.

    La gente libera parole nell’aria, e le parole si sollevano dalle strade e s’impastano ai suoni della città fino a diventare rumore. Un frastuono di uomini e cose che mi salta addosso e si appiccica alla pelle come sciroppo.

    Se mi fermo ad ascoltare, però, i suoni schizzano fuori dal mucchio e io riesco a distinguerli a uno a uno. Posso riconoscere un singhiozzo nel mezzo della folla, posso isolare un bisbiglio dal boato di un tuono o sentire una risatina malgrado lo sferragliare di un treno in corsa. Se comincio a farci caso posso arrivare a cogliere una frase a trenta metri di distanza, fino alle singole parole.

    Io ci provo a fare finta di niente, ma se sto troppo tra la gente finisco per sentire cose che non vorrei mai ascoltare. È la voce della città, io la chiamo murmur.

    Lara si allontana dal parapetto, percorre lo spazio che ci separa e viene a sedersi a cavalcioni sulle mie gambe. Il suo volto è a un soffio dal mio. Nonostante il vento polare, le sue cosce sono calde. Non sento il battito del cuore. Vuol dire che pompa lento, il suo cuore.

    Di fronte, la Torre Ghiaccio troneggia nel buio. Pare un iceberg. È così vicina che se allungassi la mano nel vuoto potrei quasi toccarla. La sua facciata è uno specchio gigante e le luci della città sono tutte lì dentro, riflesse su quelle superfici di vetro e cemento.

    Guarda la torre, vedrai Milano.

    Guarda la torre e ascolta la mia storia.

    Do un’occhiata al cronometro del cellulare. Ho ancora qualche minuto per andare indietro nel tempo e provare a capire come diavolo abbia fatto ad arrivare a questo punto.

    «FALLO CHON» insiste Lara. «è TANTO CHE ASPETTI.»

    Le sue parole echeggiano nel vento come un comando.

    Tic.

    QUATTORDICI ANNI FA

    1

    Milano, inverno

    Il ragno è mio amico, perché non fa rumore.

    Steso qui sotto il divano letto, fisso la sua sagoma color ruggine. Se ne sta immobile a un palmo dal mio naso, schiacciato contro il battiscopa.

    Al centro del soggiorno la tavola è apparecchiata. Il cucchiaio di papà tintinna contro il piatto. Le dita di mamma tamburellano sulla tovaglia. Qualcuno mastica del pane, qualcun altro tira su col naso. La TV gracchia a bassa frequenza, mentre l’albero di Natale luccica in un angolo della stanza. Sento odore di brodo e aghi di pino.

    «Chon, vieni fuori di lì!» dice mamma.

    Il ragno scatta in avanti. Mi sale sulla mano facendosi strada tra le dita, si avvicina al polso, poi frena. Le sue zampe sono sottili come spilli. Un lampo di dolore mi esplode nella tempia. Mi volto verso il centro della stanza. Respiro piano.

    I piedi di papà torchiano il pavimento, quelli di mamma s’inarcano sulle punte come se mimassero un passo di danza. Lui parla forte, dice qualcosa, dice che oggi siamo rimasti a casa perché lei non è voluta andare a festeggiare il Natale sul lago. Lei gli sibila di abbassare la voce, ma lui continua a lagnarsi della gita mancata e a darci dentro col cucchiaio sul bordo del piatto, in attesa del pranzo.

    Il cucchiaio cade a terra rimbalzando verso il divano letto. La mano di papà si allunga sul pavimento per raccoglierlo e il suo polso mi appare per un secondo, forte come un tronco. Mamma versa nei piatti il brodo di pollo. «Chi vuole anche del riso?» chiede.

    Il ragno fa un altro scatto in avanti. Risale lungo il mio braccio, poi inchioda sulle zampe per qualche secondo, riprende ad avanzare, infine fila via rapido dietro il gomito.

    Il dolore alla tempia migra in direzione della fronte.

    Giù in strada una moto si avvicina al palazzo, e io la sento. Le ruote sfrigolano sull’asfalto, la marmitta ruggisce, il motore scoppietta, poi si spegne davanti al portone. Ci sono scarpe che si fiondano nell’androne, le sento, calpestano il marmo delle scale, in una manciata di secondi guadagnano il primo piano, poi il secondo facendo i gradini a due alla volta. Respiro piano.

    Qualcuno versa da bere. Il suono del vino che si mescola nel bicchiere è dolce e corposo.

    Le scarpe sulle scale raggiungono il terzo piano.

    «Ancora riso?» chiede mamma.

    Papà taglia una fetta di qualcosa. Sento odore di formaggio. Il coltello affonda nel morbido e batte sul legno del tagliere.

    Le scarpe atterrano sul pianerottolo del quarto rallentando la loro avanzata per un secondo. Ci sono chiavi, forse monetine, che tintinnano nella tasca di un giubbotto, le sento.

    «Chon, datti una mossa!» ringhia papà buttando giù un altro sorso di vino. Sono le ultime parole che gli sento pronunciare.

    La voce è sottile, quasi femminile.

    Ed è davanti alla porta di casa.

    Dice: Tu a destra, io a sinistra.

    Un’altra voce risponde: Vai prima tu.

    Una schioppettata manda la serratura in pezzi.

    Una scarpa centra la porta facendo saltare i cardini.

    Mamma caccia un urlo.

    Armi automatiche mitragliano la stanza di proiettili, e i proiettili spaccano piatti e ossa, crivellano mobili e arterie. I bossoli di ottone zampillano ovunque e si avvitano a mezz’aria rotolando sul pavimento. Il tavolo da pranzo trilla come un flipper. Una raffica di pallini centra in pieno una finestra mandando il vetro in frantumi. Vedo scarpe da trekking pestare vetro sbriciolato e schizzi di sangue. Vedo un paio di stivali pitonati avvicinarsi alla sedia di mio padre, un attimo prima dell’ennesima esplosione.

    La mia fronte prende fuoco.

    Mi tappo le orecchie con le mani e chiudo gli occhi.

    Quando riapro gli occhi, il rumore è ormai cessato.

    Lo cerco sotto il letto, ma del ragno neanche l’ombra. Scivolo fuori dalla tana e perlustro quello che rimane della stanza. Un taglio disegna il volto di mia madre da guancia a guancia, ora ha una bocca enorme. Avvicino il viso al suo. Lei mi fissa battendo le palpebre. Muove le ciglia su e giù, come una bambola. Le tiro via i vetri dai capelli, provo a chiuderle la bocca, ma la mandibola non si sposta di un millimetro, forse l’osso si è spostato. Le braccia penzolano molli ai lati del corpo. Le congiungo le mani sul grembo, ma quelle ricadono verso il pavimento. Mi tocco il viso. Uno sbaffo del suo sangue mi finisce sulla fronte ancora in fiamme.

    Un bicchiere si è rovesciato sulla tavola. Un rigagnolo di vino serpeggia tra i cocci portandosi dietro molliche di pane e sangue. Mi avvicino al corpo di mio padre. Il suo petto sembra crivellato di pezzi di formaggio, la testa spalmata nel piatto, e il piatto è spaccato in tre pezzi. Ha del riso sui capelli imbrattati di brodo. Stringe ancora il cucchiaio tra le dita. C’è qualcosa sul bordo del piatto, pare un sassolino sporco. Me lo strofino sulla maglietta per ripulirlo dal sangue, poi lo infilo nella tasca dei jeans. Le lucette dell’albero di Natale continuano a lampeggiare spargendo nel soggiorno schizzi di colore.

    Torno a rintanarmi sotto il divano letto. Mi metto comodo, steso sul fianco, un braccio piegato a tenermi la testa. Il dolore migra verso l’orecchio. La TV ha smesso di gracchiare. C’è silenzio, finalmente.

    Poi ancora fracasso, di sirene questa volta.

    Riappare il ragno, mi monta sulla mano solleticandomi le dita. Il ragno è mio amico, oh sì, perché non fa rumore.

    2

    La berlina dei carabinieri guida la colonna di auto sfrecciando per le strade deserte. Sprofondo nel sedile posteriore e guardo fuori, la guancia spalmata contro il finestrino. La bocchetta del riscaldamento mi spara in faccia aria calda, puzzolente di motore.

    Vorrei essere la polvere che respiro.

    «Come ti chiami?» mi chiede il tizio seduto accanto a me. Ha il cranio pelato e l’alito cattivo. Odora di fumo.

    Vorrei essere il marciapiede fuori.

    «Ehi, ti hanno mangiato la lingua?» dice il tizio pelato.

    «Lascialo stare» fa l’altro alla guida. Per un secondo i nostri occhi s’incrociano nello specchietto retrovisore. Sono azzurri i suoi occhi, come quelli di un husky.

    Torno a guardare fuori. Le immagini scorrono a nastro al di là del finestrino. Luci natalizie, saracinesche abbassate, scritte sui muri, poi una panchina alla fermata dell’autobus, fino a quando un albero sbuca fuori dal nulla. Facciamo il pelo al parco. Intravedo le luminarie di una giostra. I tronchi salgono dalla terra neri e spogli, paiono carbonizzati. Il suolo è un impiastro di fango e foglie morte. Su tutto, la luce incolore della foschia.

    Infilo la mano in tasca e tiro fuori il sassolino che ho trovato nel piatto di mio padre. Me lo rigiro tra le dita. È un dente. Lo rimetto in tasca.

    Occhi di husky e Pelato parlano tra loro. Si lagnano perché la chiamata di oggi li ha costretti a interrompere il pranzo di Natale sul più bello.

    Occhi di husky ha una voce corposa, roca, granulosa, frequenze basse e timbro fermo, sembra venire da lontano, sembra che abbia fatto molta strada prima di arrivare lì e che nel viaggio abbia visto un mucchio di cose, e poi quella sfumatura beffarda alla fine di ogni frase, come se la faccenda fosse grave, ma anche no.

    «Lucia come sta?» chiede Pelato.

    Occhi di husky mugugna qualcosa. «Tutto bene» dice alla fine.

    «Quanti anni hai, ragazzino?» insiste Pelato tornando a guardare nella mia direzione. Neanche mi giro. La sua voce è come il miagolio di un gatto.

    Quando la nostra berlina rallenta, anche le auto dietro rallentano. Quando la nostra berlina scarta sulla destra e s’infila in un portone, anche le auto dietro seguono a ruota. La nostra berlina frena, le altre pure.

    Il cortile della caserma è circondato sui quattro lati da un porticato classico, con le colonne, gli archi, le volte e tutto il resto. Sprizza vecchiume da ogni pietra, pare tirato su nella notte dei tempi.

    Le portiere delle auto si aprono all’unisono, come telecomandate. Non mi muovo. Il tintinnio è lieve, ma limpido, viene dalle erbacce alla base delle colonne, sotto il porticato. Fa così freddo che le foglie sono ricoperte di ghiaccio, una miriade di cristalli che trillano mossi dal vento, e io li sento; compongono nell’aria una melodia gentile, simile a un carillon.

    Vorrei essere una foglia.

    Vorrei essere polvere di ghiaccio.

    Occhi di husky esce dall’auto e viene a piazzarsi davanti al mio finestrino. È grosso come un armadio. Ha una mascella da vichingo e capelli biondi che gli scendono sulle spalle, lisci come spaghetti. Pare un po’ fricchettone, anche se indossa un cappotto da damerino. Mi fa segno di uscire, ma io non batto ciglio, allora apre lo sportello da fuori e resta lì a fissarmi senza dire niente, in attesa che mi decida a darmi una mossa. «Vieni con me» dice abbozzando un sorriso. Si sforza di essere gentile. È giovane, venticinque anni, forse ventisei. Allunga la mano come per invitarmi a seguirlo. Esco dall’auto e gli vado dietro.

    Pelato invece si dirige verso un gruppo di agenti fermi al centro del cortile. «Stronzetto» sibila a denti stretti quando è già lontano. I suoi bisbigli a 20 decibel viaggiano nell’aria solleticandomi i timpani. «Ehi, tu!» gli urlo. Lui si volta, mi guarda.

    «Mi chiamo Chon» dico. «Ho dodici anni.»

    3

    «Saresti capace di riconoscerli?» chiede Occhi di husky.

    «Sì, signore.»

    «Li hai visti in faccia?»

    «No, signore.»

    «Signore?» salta su lui facendo lo stizzito. «Nessuno mi chiama signore, mica siamo in un film americano, ragazzino!» Abbozza un sorriso.

    «Come ti chiamano i tuoi amici?» faccio io.

    «Il mio nome è Marco, ma gli amici mi chiamano Fermo, anzi Il Fermo

    Mentre è intento a spulciare la cartellina che contiene il fascicolo dell’indagine i capelli gli cadono dritti davanti agli occhi. Lui se li alliscia di continuo tirandoseli indietro con un gesto teatrale delle mani, ma quelli tornano a coprirgli la faccia prima ancora che abbia voltato pagina. Ha dei denti così bianchi che paiono scolpiti nel gesso.

    «Quindi non li hai visti in faccia» dice.

    Faccio cenno di no.

    «Perché eri sotto il divano letto… giusto?»

    Faccio cenno di sì.

    «E che ci facevi lì sotto?»

    «Avevo male alla testa. Volevo stare tranquillo.»

    «Hanno detto qualcosa mentre erano in casa?»

    «No.»

    «Neanche una parola?»

    «Niente.»

    «Okay» fa lui mettendo giù il fascicolo. «Ma se non li hai visti in faccia perché eri sotto il divano letto, e se non hanno aperto bocca in quei pochi secondi che sono rimasti lì, come fai a riconoscerli?»

    «Ho sentito le loro voci.»

    «Quando?»

    «Mentre salivano le scale.»

    «Vuoi dire che li hai sentiti parlare quando erano ancora fuori della porta?» chiede incrociando le braccia sul petto. Il suo tono è beffardo.

    Annuisco.

    «E come hai fatto?»

    «Ci sento bene.»

    Si accende una sigaretta, fa un tiro, trattiene il fumo nei polmoni per una manciata di secondi, poi la spegne in un posacenere zeppo di mozziconi lasciati a metà. A questo punto alza lo sguardo su di me. Non sorride più ora. «Mi prendi in giro, ragazzino?»

    La scrivania è sommersa dalle carte. Ha profili intarsiati e gambe bombate che finiscono dritte nelle bocche di quattro leoni e, a giudicare dal loro sguardo stralunato, paiono più atterriti che inferociti. In cima a una pila di documenti c’è un piccolo presepe di plastica sul quale brilla una luce a forma di stella, che ronza per tutto il tempo, accendendosi e spegnendosi a intermittenza. Il ronzio è continuo e monotono, mi dà sui nervi. Infilo le mani nella tasca dei jeans e mi rigiro il dente tra le dita.

    «Allora?» insiste Il Fermo Occhi di husky. «Mi prendi in giro?»

    C’è una donna seduta accanto a me, gli fa cenno di darsi una calmata. Ha occhi da gatta morta e capelli castani che le ondeggiano sulle spalle, pare una versione stagionata di Margot, l’avventuriera tutta curve della serie Lupin. Se ho capito bene quello che mi ha detto quando mi si è parata davanti mezz’ora fa, prima di entrare nell’ufficio del Fermo, fa l’assistente sociale. «A quanto ne sappiamo il ragazzino soffre di un disturbo dell’udito» dice rivolgendosi a lui. «È scritto nel rapporto.» Ha una voce dal timbro squillante, ogni parola è un rintocco di campana.

    Il Fermo riprende a sfogliare il rapporto. «In queste carte c’è poco e niente.»

    «È il giorno di Natale, Musi!» ribatte lei. «Abbiamo avuto solo un paio d’ore per mettere insieme qualche informazione. Tutto ciò che abbiamo in questo momento è una copia della diagnosi del medico curante di Chon. È stato il ragazzo a farci il suo nome. Siamo riusciti a rintracciarlo poco fa. Il documento allegato al rapporto ce lo ha mandato lui via e-mail. Al telefono ci ha detto che Chon soffre di una sindrome chiamata iperacusia. Si tratta di un’alterazione dell’udito.»

    «Parli facile, dottoressa! Che significa?»

    «I rumori gli provocano fastidio e a volte dolore, tipo mal di testa. Nel suo caso il disturbo si presenta in una forma rara, perché il ragazzo non solo è sensibile ai suoni, ma ha anche una capacità uditiva superiore alla media. In altre parole, ci sente meglio degli altri.»

    Parlano di me come se fossi in un’altra stanza.

    «Iperacusia?» ripete Il Fermo con gli occhi incollati al rapporto.

    «Esatto» risponde lei. «Comunque gli faremo fare altri accertamenti il prima possibile.»

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