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Non fu mai Gloria
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E-book321 pagine4 ore

Non fu mai Gloria

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Info su questo ebook

Una saga che è diventata un classico della letteratura moderna.” – The Times

Uno dei dieci migliori romanzieri del mondo.” – Los Angeles Times

Pochi scrittori possono eguagliare Jeffrey Archer.” – The Sunday Times

Mancano solo 6 giorni, 13 ore e 37 minuti…

Florentyna Kane è riuscita in un’impresa che sembrava impossibile, è diventata la prima presidente donna degli Stati Uniti. Ma il giorno stesso in cui deve prestare giuramento a Capitol Hill, forze imperscrutabili sono già al lavoro per ucciderla. L’FBI viene a conoscenza della congiura, ma solo cinque persone ne conoscono i dettagli. Un’ora dopo quattro di loro sono morte.

L’unico superstite è l’agente Mark Andrews. Solo lui conosce la verità e solo lui può salvare Florentyna da quello che sembra un destino segnato. Gli restano sei giorni per fermare i responsabili ed evitare la morte della presidente. Un passo falso, una parola di troppo e la nazione e i suoi sogni verranno distrutti...

Non fu mai gloria è l’ultimo capitolo della saga dedicata alle famiglie Kane e Rosnovski. Un audace thriller politico in cui congiure e tradimenti minacciano di rovesciare un’intera dinastia. Un romanzo appassionante, pieno di intrighi, che si legge tutto d’un fiato fino all’ultimo, inaspettato colpo di scena a cui Jeffrey Archer ci ha abituato.

LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2023
ISBN9788830592360
Non fu mai Gloria
Autore

Jeffrey Archer

Barone Archer di Weston-super-Mare, è nato in Inghilterra nel 1940 e si è laureato a Oxford. È stato candidato sindaco di Londra, membro del Parlamento europeo, e deputato alla Camera dei Lord per venticinque anni. Scrittore e drammaturgo, autore di romanzi, raccolte di racconti, opere teatrali e saggi, con i suoi libri è regolarmente ai vertici delle classifiche in tutto il mondo. È sposato da oltre cinquant’anni con una compagna di università, ha due figli e vive tra Londra, Cambridge e Maiorca. Con HarperCollins ha pubblicato i sette volumi della Saga dei Clifton, Chi nulla rischia e Nascosto in bella vista della nuova serie Le indagini di William Warwick, e la trilogia  dedicata alle famiglie Kane e Rosnovsky, di cui Non fu mai gloria è il volume conclusivo.

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    Anteprima del libro

    Non fu mai Gloria - Jeffrey Archer

    NOTA DELL’AUTORE ALLA NUOVA EDIZIONE

    Quando scrissi la prima versione di questo romanzo, ambientai la storia nel futuro, a sei o sette anni di distanza. Ora che quella data appartiene al passato, la credibilità della storia ne risulta parzialmente indebolita.

    Da allora, ho scritto anche Volere è potere, nel quale il personaggio principale, Florentyna Kane, diventa la prima donna presidente degli Stati Uniti. Pertanto mi è parso logico, quando mi sono accinto a riscrivere Non fu mai gloria, introdurre il mio presidente di fantasia invece di mantenere il nome reale di Edward M. Kennedy, protagonista del romanzo originale. Questo, inoltre, mi ha permesso di creare un legame naturale sia con Volere è potere che con il primo romanzo della serie: Kane e Abel. La miglior vendetta.

    Non ho alterato la storia essenziale della prima versione, ma in questa, rivista e adattata, sono state apportate numerose modifiche significative così come alcune più lievi.

    Firma autografa di Jeffrey ArcherMappa di WASHINGTON D.C. con segnalate la casa di Elizabeth e la casa di Mark

    MARTEDÌ POMERIGGIO, 20 GENNAIO

    12.26

    «Io, Florentyna Kane, giuro solennemente…»

    «Io, Florentyna Kane, giuro solennemente…»

    «… di adempiere con fedeltà all’ufficio di presidente degli Stati Uniti…»

    «… di adempiere con fedeltà all’ufficio di presidente degli Stati Uniti…»

    «… e di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti al meglio delle mie capacità. Che Dio mi aiuti.»

    «… e di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti al meglio delle mie capacità. Che Dio mi aiuti.»

    Senza togliere la mano dalla Bibbia di Douay-Rheims, la quarantatreesima presidente sorrise al First Gentleman. Era la fine di una battaglia e l’inizio di un’altra. Florentyna si intendeva di battaglie. La sua prima battaglia era stata farsi eleggere al Congresso e poi al Senato e, per finire, diventare la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti, quattro anni dopo. Dopo una feroce campagna per le primarie, in giugno era riuscita per un soffio a sconfiggere il senatore Ralph Brooks al quinto scrutinio, nel corso della convention nazionale dei democratici. In novembre era sopravvissuta a uno scontro ancor più feroce con il candidato repubblicano, un ex membro del Congresso di New York. Florentyna Kane era stata eletta presidente con 105.000 voti di scarto, un mero un per cento, il margine più risicato nella storia americana, ancor più risicato dei 118.000 voti ottenuti da John F. Kennedy su Richard Nixon nel 1960.

    Quando gli applausi si furono spenti, la presidente attese che la salva dei ventuno cannoni terminasse. Florentyna Kane si schiarì la gola e affrontò cinquantamila cittadini attenti nella piazza del Campidoglio e altri duecento milioni da qualche parte, davanti agli schermi dei televisori. Quel giorno non ci sarebbe stato bisogno dei giacconi e dei cappotti pesanti che di norma accompagnavano un’occasione simile. Il clima era insolitamente mite per la fine di gennaio e, per quanto appesantita, la zona erbosa affollata di fronte alla facciata orientale del Campidoglio non era più imbiancata dalla neve natalizia.

    «Vicepresidente Bradley, presidente della Corte suprema, presidente Carter, presidente Reagan, reverendo clero, concittadini.»

    Il First Gentleman osservò la scena, sorridendo di quando in quando tra sé ogni volta che riconosceva qualche parola o frase con cui lui stesso aveva contribuito al discorso di sua moglie.

    La loro giornata iniziò alle sei e trenta del mattino. Nessuno dei due aveva dormito particolarmente bene dopo lo splendido concerto pre-inaugurale della sera prima in loro onore. Florentyna Kane aveva ripassato il suo discorso presidenziale per l’ultima volta, sottolineando in rosso le parole importanti, apportandovi solo cambiamenti di poco conto.

    Quella mattina, quando si alzò, Florentyna scelse subito un abito azzurro dal suo guardaroba. Gli appuntò sopra la minuscola spilla che il suo primo marito, Richard, le aveva regalato poco prima di morire.

    Ogni volta che Florentyna indossava quella spilla si ricordava di lui, del fatto che quel giorno lui non era riuscito a prendere l’aereo per uno sciopero degli addetti alla manutenzione, finendo per dover noleggiare un’automobile pur di essere al fianco di Florentyna al momento del suo discorso per il conferimento delle lauree a Harvard.

    Richard non aveva mai udito il suo discorso, quello che Newsweek aveva definito una rampa di lancio per la presidenza, perché, quando lei era giunta in ospedale, era già morto.

    Tornò bruscamente nel mondo reale in cui era la leader più potente della terra. Ma comunque senza il potere di far tornare Richard. Florentyna si controllò allo specchio. Era sicura di sé. Dopotutto, era presidente già da due anni, dalla morte inaspettata del presidente Parkin. Gli storici sarebbero stati sorpresi di scoprire che aveva saputo della morte del presidente mentre tentava di mandare in buca un putt da poco più di un metro di distanza contro Edward Winchester, il suo amico di più vecchia data nonché suo futuro marito.

    Avevano interrotto la partita quando gli elicotteri si erano messi a volteggiare sopra di loro. Uno di questi era atterrato e un capitano dei marine era saltato giù, le era corso incontro, facendole il saluto militare e dicendole: «Signora presidente, il presidente è morto». Ora il popolo americano aveva confermato la propria intenzione di continuare a vivere con una donna alla Casa Bianca. Per la prima volta nella loro storia, gli Stati Uniti avevano fatto approdare per merito una donna alla posizione più ambita della loro vita politica. Lei rivolse un’occhiata fuori dalla finestra della camera da letto, verso il placido, ampio tratto del fiume Potomac che scintillava nella luce del sole di prima mattina.

    Uscì dalla camera da letto e raggiunse direttamente la sala da pranzo privata in cui suo marito Edward stava chiacchierando con i suoi figli William e Annabel. Florentyna baciò tutti e tre prima che si accomodassero per fare colazione.

    Risero del passato e parlarono del futuro, ma, quando l’orologio suonò le otto, la presidente li lasciò per raggiungere lo Studio Ovale. Il suo capo di gabinetto della Casa Bianca, Janet Brown, la attendeva seduta fuori, nel corridoio.

    «Buongiorno, signora presidente.»

    «Buongiorno, Janet. Tutto sotto controllo?» Le sorrise.

    «Penso di sì, signora.»

    «Bene. Perché non gestisce la mia giornata come al solito? Non si preoccupi di me: mi limiterò a seguire le sue istruzioni. Qual è la prima cosa che vuole che io faccia?»

    «Ci sono 842 telegrammi e 2.412 lettere, ma dovranno attendere, a eccezione di quelli inviati dai capi di stato. Le risposte saranno pronte per le dodici.»

    «Metta la data di oggi: a loro piacerà e io le firmerò tutte non appena saranno pronte.»

    «Sì, signora. Ho anche il programma della sua giornata. Inizierà ufficialmente con un caffè alle undici insieme agli ex presidenti Reagan e Carter, dopodiché verrà accompagnata in macchina alla cerimonia inaugurale. Dopo l’inaugurazione, parteciperà a una colazione formale in Senato, prima di passare in rassegna la parata inaugurale di fronte alla Casa Bianca.»

    Janet Brown le passò un fascio di schede da sette per dodici centimetri, graffettate insieme, così come faceva da quindici anni, da quando era entrata a far parte della squadra di Florentyna, dopo la sua prima elezione al Congresso. Riassumevano gli impegni della presidente ora per ora: ce n’erano molti meno del solito. Florentyna diede un’occhiata sommaria alle schede e ringraziò la sua direttrice di gabinetto della Casa Bianca. Edward Winchester apparve sulla soglia. Sorrise come faceva sempre, con un misto di amore e ammirazione, quando lei si girò dalla sua parte. Lei non aveva mai rimpianto la sua decisione quasi d’impulso di sposarlo, dopo la diciottesima buca di quel giorno straordinario in cui le era stata comunicata la morte del presidente Parkin. Ed era certa che Richard avrebbe approvato la sua scelta.

    «Lavorerò sulle mie carte fino alle undici» gli disse. Lui annuì e se ne andò per prepararsi in vista della giornata che lo attendeva.

    Una folla di sostenitori si stava già raccogliendo di fronte alla Casa Bianca.

    «Quanto vorrei che piovesse» confessò H. Stuart Knight, il capo del Secret Service al suo assistente: anche per lui era uno dei giorni più importanti della vita. «So che la gente è in larga parte innocua, ma queste occasioni mi fanno venire la tremarella.»

    La folla ammontava a circa centocinquanta persone: cinquanta erano uomini del signor Knight. La prima automobile, che partiva sempre con cinque minuti d’anticipo rispetto al presidente, stava già ispezionando meticolosamente il percorso per la Casa Bianca; gli uomini del Secret Service stavano studiando piccoli capannelli di persone lungo il tragitto, alcune delle quali sventolavano una bandiera: erano lì per assistere alla cerimonia inaugurale e un giorno avrebbero raccontato ai nipotini di quando avevano visto l’insediamento di Florentyna Kane sul soglio presidenziale degli Stati Uniti.

    Alle 10.59, il maggiordomo aprì il portone e la folla iniziò ad acclamarla.

    La presidente e suo marito agitarono la mano in direzione di quegli occhi sorridenti e intuirono solo per esperienza e istinto professionale che cinquanta persone non li stavano guardando.

    Alle 11.00, due limousine nere si fermarono senza fare il minimo rumore davanti all’ingresso settentrionale della Casa Bianca. La guardia d’onore dei marine scattò sull’attenti e salutò i due ex presidenti e le rispettive consorti nel momento in cui vennero accolti dalla presidente Kane sul Portico, un privilegio di norma concesso solo ai capi di stato in visita. La presidente stessa li accompagnò fino alla biblioteca per un caffè insieme a Edward, William e Annabel.

    Il più anziano degli ex presidenti si stava lagnando del fatto che, se era deboluccio, era perché aveva dovuto fare affidamento sulla cucina di sua moglie negli ultimi otto anni. «È da una vita che non sporca una padella, ma migliora giorno dopo giorno. Per esserne certo, le ho regalato una copia del New York Times Cook Book: è forse la loro unica pubblicazione che non mi abbia criticato.» Florentyna rise nervosamente. Avrebbe voluto procedere con l’iter ufficiale, ma capiva che gli ex presidenti si stavano godendo il ritorno alla Casa Bianca e, dunque, finse di ascoltare con attenzione, sfoggiando una maschera che, dopo quasi vent’anni in politica, le veniva naturale.

    «Signora presidente…» Florentyna dovette pensare velocemente per evitare che qualcuno notasse la sua reazione istintiva a quelle parole. «È mezzogiorno e un minuto.» Alzò gli occhi verso la sua addetta stampa, si alzò in piedi e condusse gli ex presidenti e le loro due mogli ai gradini della Casa Bianca. La banda dei marine intonò Hail to the Chief per l’ultima volta.

    I due ex presidenti vennero scortati alla prima vettura del corteo d’automobili, una limousine blindata nera dalla calotta trasparente. Lo speaker della Camera, Jim Wright, e il leader della maggioranza al Senato, Robert Byrd, in rappresentanza del Congresso, si erano già accomodati a bordo della seconda automobile. Subito dietro la limousine c’erano due macchine cariche di uomini del Secret Service. Florentyna e Edward occuparono la quinta automobile della fila. Il vicepresidente Bradley del New Jersey e sua moglie viaggiarono sull’automobile seguente.

    H. Stuart Knight stava effettuando l’ennesima verifica di routine. I suoi cinquanta uomini erano saliti a cento. Nel giro di pochi minuti, contando la polizia locale e il contingente dell’FBI, ce ne sarebbero stati cinquecento. Senza dimenticare i ragazzi della CIA, pensò Knight mestamente. Non gli avevano certamente detto se sarebbero stati lì o meno e nemmeno lui riusciva sempre a individuarli tra la folla. Prestò ascolto al crescendo delle acclamazioni degli astanti quando la limousine presidenziale partì alla volta del Campidoglio.

    Edward chiacchierò amabilmente, ma i pensieri di Florentyna erano altrove. Salutò meccanicamente con la mano le folle che si accalcavano lungo Pennsylvania Avenue, ma con la mente tornò sul suo discorso. Il rimaneggiato Willard Hotel, sette palazzine di uffici in costruzione, le unità abitative a gradinate che ricordavano una casa rupestre indiana, i nuovi negozi e ristoranti e gli ampi marciapiedi abbelliti dai giardini le passarono accanto. Il J. Edgar Hoover Building, sede dell’FBI, portava tuttora il nome del suo primo direttore, nonostante gli svariati tentativi da parte di certi senatori di farlo modificare. Quant’era cambiata quella via in quindici anni.

    Si avvicinarono al Campidoglio e Edward interruppe le fantasticherie della presidente. «Che Dio sia con te, cara.» Lei sorrise e gli strinse con forza la mano. Le sei automobili si fermarono.

    La presidente Kane entrò nel Campidoglio al piano terra. Edward attese per un istante nelle retrovie, ringraziando l’autista. Le persone che smontarono dalle altre macchine vennero prontamente circondate da agenti del Secret Service e, salutando la folla con la mano, si avviarono separatamente ai rispettivi posti a sedere sulla tribuna. Nel frattempo, il cerimoniere capo stava accompagnando in silenzio la presidente Kane lungo la galleria da cui si accedeva alla zona del ricevimento, con un marine che le rivolgeva il saluto militare ogni dieci passi. Una volta lì, venne accolta dal vicepresidente Bradley. I due restarono a parlare del più e del meno, senza che né l’uno né l’altra registrassero le reciproche risposte.

    I due ex presidenti uscirono, sorridenti, dalla galleria. Per la prima volta, il presidente più anziano dimostrava la sua età: i suoi capelli sembravano essersi ingrigiti dalla sera alla mattina. Ancora una volta, Florentyna si sobbarcò la formalità delle strette di mano reciproche: quel giorno, avrebbero dovuto farlo per sette volte. Il cerimoniere capo li accompagnò alla tribuna, dopo aver attraversato una piccola sala-ricevimento. Per quella, come per tutte le cerimonie inaugurali di ogni presidenza, era stata eretta una tribunetta sui gradini orientali del Campidoglio. La folla si alzò in piedi e acclamò per oltre un minuto, mentre la presidente e gli ex presidenti salutavano con la mano. Alla fine, si sedettero in silenzio, in attesa che la cerimonia avesse inizio.

    «Compatrioti americani, mentre assumo l’incarico, i problemi degli Stati Uniti in tutto il mondo sono ampi e minacciosi. Nel Sudafrica infuria una spietata guerra civile tra neri e bianchi; nel Medio Oriente si stanno riparando i danni degli scontri dello scorso anno, ma entrambe le parti stanno ricostruendo i loro arsenali invece delle loro scuole, dei loro ospedali o delle loro aziende agricole. Sui confini tra Cina e India e tra Russia e Pakistan c’è il rischio di una guerra tra quattro delle nazioni più popolose della terra. Il Sudamerica pencola continuamente tra l’estrema destra e l’estrema sinistra, ma né l’una né l’altra sembrano in grado di migliorare le condizioni di vita del popolo. Due dei firmatari originari dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, Francia e Italia, potrebbero ritirarsi da tale patto.

    «Nel 1949, il presidente Harry Truman annunciò che gli Stati Uniti si tenevano pronti con tutta la loro forza e le loro risorse a difendere le forze della libertà ovunque fossero in pericolo. Oggi, qualcuno potrebbe dire che questo gesto di magnanimità abbia finito per essere un fallimento, che l’America sia stata e sia tuttora troppo debole per caricarsi sulle spalle l’intero peso della leadership del mondo. Di fronte a ripetute crisi internazionali, qualsiasi cittadino americano ha il diritto di chiedere perché preoccuparsi di eventi così lontani da casa e perché avvertire la minima responsabilità per la difesa della libertà fuori dagli Stati Uniti.

    «Non devo rispondere a tali dubbi con parole mie. Nessun uomo è un’isola, scrisse John Donne¹ oltre tre secoli e mezzo fa. Ogni uomo è un pezzo del continente. Gli Stati Uniti si estendono dall’Atlantico al Pacifico e dall’Artico all’Equatore. Io partecipo all’umanità; e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana; suona per te.»

    A Edward quella parte del discorso piaceva. Esprimeva bene ciò che lui stesso provava. Però, si era chiesto se il pubblico avrebbe reagito con lo stesso entusiasmo con cui aveva accolto i voli pindarici di Florentyna nel passato. Le onde ripetute di applausi assordanti che gli aggredirono le orecchie lo rassicurarono. Il tocco magico c’era ancora.

    «In patria, creeremo un servizio medico che il mondo libero ci invidierà. Consentirà a tutti i cittadini pari opportunità nell’accesso alla miglior consulenza e alla miglior assistenza medica. Nessun americano deve essere lasciato morire perché non si è potuto permettere di vivere.»

    Molti democratici avevano votato contro Florentyna Kane per via della sua posizione in relazione al Medicare, il servizio sanitario statale. Come una volta le aveva detto un medico vecchio e canuto, «Gli americani devono imparare a reggersi in piedi da soli». «Come possono riuscirci se sono già al tappeto?» aveva ribattuto Florentyna. «Che Dio ci liberi da una donna presidente» aveva risposto il medico, che aveva votato per i repubblicani.

    «Ma il vero principio programmatico di questa amministrazione sarà rappresentato da legge e ordine e, a tal scopo, intendo proporre al Congresso un progetto di legge che renda illegale la vendita di armi da fuoco senza una licenza.»

    L’applauso che si levò dalla folla non fu altrettanto spontaneo.

    Florentyna alzò la testa. «Per questo, vi dico, compatrioti, fate in modo che la fine di questo secolo sia un’epoca in cui gli Stati Uniti possano guidare il mondo per giustizia oltre che per forza, per assistenza oltre che per intraprendenza, un’epoca in cui gli Stati Uniti dichiarino guerra: guerra alle malattie, guerra alle discriminazioni e guerra alla povertà.»

    La presidente si sedette; e come se fosse una cosa sola, l’intero pubblico si alzò in piedi.

    Il discorso da sedici minuti era stato interrotto dagli applausi in dieci occasioni. Ma, quando il capo dell’esecutivo aveva dato le spalle al microfono, certa che la folla ora fosse con lei, i suoi occhi non erano più sulla massa festante. Scrutò i dignitari sulla tribuna alla ricerca dell’unica persona che volesse scorgere. Si avvicinò a suo marito, lo baciò su una guancia e poi lo prese sotto braccio, prima di essere accompagnata insieme a lui giù dalla tribuna dall’efficiente e brusco cerimoniere.

    H. Stuart Knight detestava qualsiasi cosa che non seguisse il programma e, quel giorno, nulla era avvenuto in orario. Tutti si sarebbero presentati a pranzo in ritardo di almeno trenta minuti.

    Settantasei ospiti si alzarono in piedi nel momento in cui la presidente mise piede nella sala. Si trattava di uomini e donne che ora controllavano il Partito democratico. Il gruppo di potere del Nord che aveva deciso di sostenere la donna era presente, a eccezione di quelli che avevano appoggiato il senatore Ralph Brooks.

    Alcuni commensali erano già membri del suo governo e tutti i presenti avevano fatto la loro parte per far sì che lei tornasse alla Casa Bianca.

    La presidente non ebbe l’opportunità né l’inclinazione per consumare il suo pranzo: ognuno voleva parlarle immediatamente. Il menù, creato specificamente per lei, si componeva dei suoi piatti preferiti, a partire da una bisque d’aragosta per poi passare al roast-beef. Per finire, venne servito il piatto forte dello chef, una torta di cioccolato glassata a forma di Casa Bianca. Edward osservò sua moglie ignorare lo spicchio perfetto dello Studio Ovale che le era stato piazzato davanti. «Ecco perché non ha mai bisogno di dimagrire» commentò Marian Edelman, che a sorpresa era stata nominata procuratore generale. Marian stava parlando a Edward dell’importanza dei diritti dei bambini. Edward cercò di prestarle ascolto: magari, un altro giorno.

    Una volta completata la demolizione dell’ultima ala della Casa Bianca e una volta stretta l’ultima mano, la presidente e la sua comitiva erano in ritardo di quarantacinque minuti per la parata inaugurale. Quando, finalmente, arrivarono alla tribuna di fronte alla Casa Bianca, la più sollevata nel vederli in quella folla di duecentomila persone fu la guardia d’onore della presidente, che era sull’attenti da poco più di un’ora. Una volta che la presidente si fu seduta, la parata ebbe inizio. Il contingente statale dell’unità militare sfilò e la banda della marina degli Stati Uniti suonò di tutto, da musiche del compositore Sousa a God Bless America. Carri allegorici di ogni stato – che in alcuni casi, come in quello dell’Illinois, commemoravano eventi del passato polacco di Florentyna – aggiunsero colore e un tocco di leggerezza a ciò che per lei non era soltanto un’occasione seria ma pure solenne.

    Continuava a pensare che quella fosse l’unica nazione sulla terra capace di affidare la carica più alta alla figlia di un immigrato.

    Quando, finalmente, la parata di tre ore si fu conclusa e l’ultimo carro allegorico fu scomparso lungo il viale, Janet Brown, il capo dell’ufficio di Florentyna alla Casa Bianca, si sporse verso di lei e chiese alla presidente cosa intendesse fare da quel momento al primo ballo inaugurale.

    «Firmare tutte quelle nomine per il gabinetto e le lettere ai capi di stato e riordinare la mia scrivania in vista di domani» fu la sua risposta immediata. «Così dovrei essere a posto per i primi quattro anni.»

    La presidente tornò direttamente all’interno della Casa Bianca. Mentre attraversava il Colonnato Sud, la banda della marina intonò Hail to the Chief. La presidente si era tolta la giacca ancor prima di essere giunta nello Studio Ovale. Si sistemò con decisione dietro la maestosa scrivania di rovere e cuoio. Fece una breve pausa, guardandosi intorno. Ogni cosa era come la voleva: dietro di lei c’era la foto di Richard e William che giocavano a touch football. Di fronte a lei un fermacarte con la frase di George Bernard Shaw che Annabel citava spessissimo: «Certi uomini vedono le cose come sono e dicono, perché; io sogno cose che non sono mai esistite e dico, perché no». Alla sinistra di Florentyna c’era il vessillo presidenziale, alla sua destra la bandiera degli Stati Uniti. A dominare il centro della scrivania c’era una replica in cartapesta del Baron Hotel di Varsavia realizzata da William a quattordici anni. I tizzoni ardevano nel camino. Un ritratto di Abraham Lincoln fissava dall’alto la presidente che era appena stata sottoposta al giuramento, mentre, fuori dai bovindi, i prati verdi si estendevano senza soluzione di continuità fino al monumento a Washington. La presidente sorrise. Era tornata a casa.

    Florentyna Kane si protese verso una pila di documenti ufficiali e diede un’occhiata ai nomi delle persone che avrebbero servito nel suo gabinetto: c’erano oltre trenta nomine da fare. La presidente le firmò tutte con uno svolazzo. L’ultima era quella di Janet Brown, in qualità di capo dell’ufficio della Casa Bianca. La presidente ordinò che venissero inviate immediatamente al Congresso. La sua addetta stampa prese in mano i pezzi di carta che avrebbero dettato la storia dell’America nei successivi quattro anni e disse, «Grazie, signora presidente», per poi aggiungere, «Subito dopo, di cosa vuole occuparsi?».

    «Partire sempre dal problema più grande è il consiglio che dava Lincoln e, dunque, analizziamo la bozza di legge sul controllo delle armi.»

    L’addetta stampa della presidente rabbrividì, perché sapeva fin troppo bene che lo scontro alla Camera nei prossimi due anni sarebbe con ogni probabilità stato altrettanto feroce e incerto quanto la Guerra civile affrontata da Lincoln. Tante persone continuavano a ritenere il possesso di armi un diritto inalienabile. Si augurò solo che non andasse a finire nello stesso modo, con una Casa Divisa.²

    ¹ N.d.T. Poeta, religioso e saggista inglese vissuto tra il 1572 e il 1631 e noto soprattutto per il sermone Nessun uomo è un’isola, citato da Hemingway nel suo romanzo Per chi suona la campana.

    ² N.d.T. Il riferimento è al famoso discorso tenuto nel 1858 da Abraham Lincoln, in occasione della sua candidatura al Senato come rappresentante repubblicano dell’Illinois. Il

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