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La mia parola contro la sua: Ovvero quando il pregiudizio è più importante del giudizio
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La mia parola contro la sua: Ovvero quando il pregiudizio è più importante del giudizio
E-book246 pagine3 ore

La mia parola contro la sua: Ovvero quando il pregiudizio è più importante del giudizio

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Info su questo ebook

“Le donne mentono sempre”. “Le donne strumentalizzano le denunce di violenza per ottenere benefici”. “Se l’è cercata”. “Le donne usano il sesso per fare carriera”. “Ma tu com’eri vestita?”.
Questi sono solo alcuni dei pregiudizi che la nostra società ha interiorizzato. Pregiudizi volti a neutralizzare la donna e a perpetuare una sudditanza e una discriminazione di genere in ogni settore, soprattutto in quello giuridico, che è il settore determinante perché tutto possa rimanere come è sempre stato. Viviamo immersi in questi pregiudizi. Ogni nostro gesto, parola, azione deriva da un'impostazione acquisita per tradizione, storia, cultura, e neanche i giudici ne sono privi. Con la sua attività di magistrata, Paola Di Nicola ha deciso di affrontare il problema dalle aule del tribunale, ovvero dal luogo in cui dovrebbe regnare la verità e invece troppo spesso regna lo stereotipo. Se impariamo a guardare il mondo con lenti di genere, si apriranno nuovi spiragli, nuovi colori e nuove strade, e allora impareremo che una civiltà senza violenza può esistere, che l’armonia fa parte di noi, che uomini e donne possono stare l’uno al fianco dell’altra con amore e valore, che il nostro modo di parlare può essere più limpido, pulito e chiaro, che il silenzio dei complici si chiama omertà ed è un muro che va abbattuto.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2018
ISBN9788858986448
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    La mia parola contro la sua - Paola Di Nicola Travaglini

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    1

    I PREGIUDIZI PRIMA DEI GIUDIZI

    Ma cosa vuoi che possano fare di grande o di ragionevole le donne? Stiamo sedute a farci belle e a truccarci, e non pensiamo che alle tuniche, alle scarpine, alle vesti cimberiche che cascano a pennello.

    Aristofane, Lisistrata

    ESISTE IL PREGIUDIZIO PRIMA DEL GIUDIZIO?

    Ognuno di noi pensa di essere immune dai pregiudizi, quelle valutazioni negative che vengono espresse senza avere elementi concreti sulla persona o sul gruppo colpiti.

    Non ho mai sentito nessuno sostenere di averne, io per prima, salvo accorgermi con delusione, preoccupazione e dispiacere di esserne intrisa fino al midollo.

    Dal momento in cui ci svegliamo fino a quando andiamo a dormire – ma anche mentre facciamo sogni di principi azzurri che ci salvano o incubi di orchi che ci divorano – siamo allo stesso tempo assillati e protetti dai pregiudizi. Il bello è che non li vediamo proprio!

    I pregiudizi sono invisibili e si muovono ovunque, come quelle minuscole particelle che, al mattino, scorgiamo in controluce dalla finestra illuminata. Ci dobbiamo fermare a osservarle, reclinando la testa e cercando la giusta posizione, per accorgerci che si muovono intorno a noi. L’aria ne è piena. Appaiono innocue, ma fanno male. Non permettono di respirare.

    Non è un affare italiano, è un dramma mondiale che crea un divario talmente profondo tra uomini e donne da far dire al World Economic Forum – l’organismo che misura il divario di genere ogni anno in 144 paesi del mondo – che se venisse colmato porterebbe benessere, anche economico, all’intera popolazione del Globo – e non solo alle donne – perché aumenterebbe il PIL di 5,3 miliardi di dollari.

    Il pregiudizio contro le donne ha la prerogativa di appartenere all’intera umanità, che si ritrova ogni giorno a condividere, al di là dei confini di spazio e tempo, un’identica impari struttura di relazione tra uomini e donne fondata su di esso.

    Da nord a sud, da est a ovest, in modi diversi ed escluse alcune eccezioni, il genere femminile viene depotenziato, mantenuto subalterno in ogni settore: marginale sulla scena politica e ridimensionato grazie all’utilizzo delle inderogabili esigenze familiari.

    È metà della popolazione mondiale – quella femminile – a vedere perpetuata la propria condizione ancillare, benevolmente protetta e allo stesso tempo gravemente violata, in una rappresentazione di sé come vulnerabile, dipendente, sottomessa, accudente, arrendevole, impura, silente.

    In tutto il mondo si pensa che l’ambizione di una donna sia occuparsi della casa e dei figli piuttosto che primeggiare nel lavoro, o che scienza, tecnologia, ingegneria e matematica siano cose da uomini.

    Come non accorgersi che, in gran parte delle culture, le donne con il ciclo sono viste come portatrici di distruzione? Durante il mestruo i boscimani del Sudafrica segregavano le ragazze perché qualsiasi uomo, guardandole, si sarebbe innamorato trasformandosi in un albero parlante.

    In Nepal, fino al 2005, era praticato il chaupadi, cioè l’esilio delle donne mestruate in minuscole baracche al freddo. Ma ricordo che anche nella mia famiglia, a Pasqua, chi tra noi sorelle aveva le mestruazioni non poteva preparare la maionese perché le uova sarebbero impazzite al tocco delle nostre mani impure.

    Guardiamo anche al civilissimo Giappone, terza economia mondiale preceduta solo da Stati Uniti e Repubblica popolare cinese, di cui si ammira la straordinaria efficienza. A Tokyo, la più grande e popolosa città moderna del pianeta con ben trentacinque milioni di abitanti, le biciclette sono parcheggiate sui marciapiedi senza alcuna chiusura e le borse lasciate dentro al cestino, mentre i rispettivi proprietari mangiano tranquilli il loro sushi nei ristoranti. Quando l’ho visto ho fotografato questo miracolo umano per condividerlo con mio figlio, vittima, insieme a me, del terzo furto di bici in pochi mesi, nonostante catene gigantesche e mezzi parcheggiati nel cortile del condominio.

    Girando in quella città straordinaria ho sentito la spensieratezza di vivere in un paese in cui non esiste criminalità di strada e di non doverti guardare da tutto e tutti in ogni momento. Ma sottoterra, quando ho preso la metropolitana, mi hanno colpito i manifesti rosa appesi ovunque in cui si segnalavano vagoni riservati a sole donne. Così ho scoperto che il paese più sicuro del mondo è un martirio quotidiano per il genere femminile per via del chikan, parola giapponese che vuol dire molestatore, una piaga sociale ritenuta inestirpabile. Secondo un sondaggio condotto dalla società Tokyo Metropolitan Police due terzi delle donne di età compresa tra i venti e i quarant’anni sono vittime di palpeggiamenti, cosa che accade soprattutto nelle ore di punta, quando i vagoni sono stipati all’inverosimile.

    In metro nessuno si sognerebbe mai di rubarti il portafogli, tutti rispettano rigorosamente la fila per accedere, alle persone anziane viene educatamente ceduto il posto, si parla sottovoce e si toglie la suoneria dei cellulari per non disturbare, ma alle donne si può fare ciò che si vuole, tanto che non si è trovato altro modo per tutelarle che concepire luoghi rigidamente separati dagli uomini. Questo non è altro che il drammatico risvolto di un paese che, nonostante la ricchezza, nel 2017 è sceso nel Gender Gap al 114° posto su 144 – tra la Guinea e l’Etiopia – tanto che Chizuko Ueno, femminista e professoressa emerita all’Università di Tokyo, sostiene che in Giappone le donne sono libere solo nel consumo.

    Insomma, nelle diverse società e strutture culturali, dove più e dove meno, appare tutto concepito ad arte per instillare nelle donne, giorno dopo giorno, un senso di inadeguatezza, di imbarazzo, di disagio: presupposti indispensabili perché restino immobilizzate e non facciano alcun passo non solo per raggiungere obiettivi propri, ma anche senza arrivare a immaginare di poterne avere.

    Per ottenere questo risultato, nei secoli, è stata costruita trasversalmente e longitudinalmente un’idea di femminilità tutta rivolta all’accettazione di restrizioni: dall’indossare indumenti che bloccano la libertà di movimento – i tacchi, le gonne strette, il burqa, i jeans superaderenti – al sottoporsi a diete ferree; dal misurarsi e contenersi – non divaricare le gambe, abbassare la voce, non ridere in modo sguaiato – al desistere rispetto a prospettive professionali – «la famiglia viene prima»; dal compiacere – sorridere e ascoltare – al riconoscersi in ruoli familiari come buone madri e mogli. È una regia globale che impone alle donne di tutto il mondo un comune destino di rinuncia e soggezione, di ricerca strenua del gradimento maschile, insomma di continuativa limitazione che si può perpetuare solo con il sostegno di una montagna di pregiudizi che costituiscono la condizione imprescindibile per sminuirne, ovunque, il valore e l’intensità agli occhi propri e altrui.

    In Italia, il paese del buon cibo, i sovrani rinascimentali pretendevano ci fossero solo uomini a preparare i loro piatti perché temevano che le donne potessero avvelenarli, eppure non c’è chi non veda che in ogni parte del mondo sono le donne a stare in cucina, eccetto che nei ristoranti stellati, perché lì cucinare è una professione, e si viene ben pagati!

    I PREGIUDIZI IN CASA NOSTRA

    Il pregiudizio nei confronti delle donne, a differenza di qualsiasi altro pregiudizio che riguarda, in linea di massima, delle minoranze, colpisce metà del genere umano.

    L’origine di tutto è la maledetta gabbia dei ruoli sociali a cui ciascuno di noi si costringe ed è costretto in modo inconsapevole.

    L’ho scoperto sulla mia pelle, davanti a una cosa apparentemente semplice e banale: la cucina di casa.

    A me e Francesco, il mio compagno di vita, piace mangiare in compagnia, per questo spesso abbiamo ospiti: amici cari, sorelle e nipoti o persone che conosciamo per ragioni diverse. Casa nostra è un porto di mare. Poiché, però, lavoriamo entrambi tutto il giorno, non possiamo cucinare – per dircela tutta, non amiamo farlo – quindi è la nostra insostituibile e amata Gemma che provvede a prepararci deliziosi piatti, con ingredienti e profumi metà abruzzesi e metà filippini.

    Non ho mai confessato ai miei ospiti che non sono io a cucinare ciò che mangiano di gusto. Mi sono sempre fatta rivelare da Gemma come e cosa avesse preparato, certa che sarebbe arrivato il momento in cui qualcuno, inesorabilmente, mi avrebbe chiesto la ricetta di quelle prelibatezze.

    Credo che non ci sia stata cena, nella mia vita, in cui non abbia dovuto rispondere alle domande su ingredienti e tempi di cottura.

    Nessuno ha mai rivolto quelle domande a Francesco, seduto a tavola accanto a me, come se fosse ovvio e scontato che fossi io la cuoca, e non lui.

    Eppure facciamo lo stesso lavoro, abbiamo gli stessi orari, torniamo entrambi la sera. Allora perché chiedere solo a me come sono preparati l’arrosto o la pasta al forno?

    A parte le mie sorelle e gli amici più cari che hanno sempre conosciuto il segreto sull’identità della vera autrice di queste cene deliziose, nessuno ha mai pensato che io non avessi neanche sbucciato una patata. Ma fin qui, direi, nulla di male, anche perché è gentile chiedere la ricetta di un piatto, vuol dire che è piaciuto ed è stato apprezzato. Poi noi italiani siamo speciali nel parlare sempre di cibo, anche mentre quel cibo lo stiamo mangiando.

    Insomma, negli anni ho mantenuto questo assurdo segreto, per di più con la complicità dei miei figli.

    Fino a ieri, quando, come se mi fossi svegliata da un sogno, mi sono chiesta: Perché non rivelo la verità? Perché ripeto ogni settimana, sempre uguale a se stesso, questo copione da consumata attrice? D’altra parte non amo cucinare e lavoro fino a tardi sono giustificazioni su cui nessuno avrebbe nulla da ridire. E poi: perché queste giustificazioni dovrebbero riguardare solo me e non Francesco – che, tra l’altro, non avrebbe alcun problema a rivelare che Gemma ha cucinato per tutti? Mi sono resa conto solo adesso, come fossi stata investita da un’umiliante illuminazione, che oltre ai miei amati ospiti sono io la prima vittima dello stereotipo per cui una donna che invita a cena nella propria casa deve cucinare – e non può che essere lei a doverlo fare – altrimenti tradisce il ruolo, l’aspettativa sociale, gli amici stessi.

    Chissà cosa potrebbero pensare di lei, di me!

    Nulla, se non che a cucinare, anziché Paola o Francesco, sia stata Gemma. Tutto qua.

    Che peso mi sono tolta dicendo finalmente la verità!

    Ecco spiegato, con un episodio apparentemente banale, dove risiede l’incastro del preconfezionamento di un’immagine irreale, peraltro non richiesta da nessuno e che di certo alberga dentro me.

    Si tratta del frutto avvelenato delle convenzioni e dei ruoli sociali che io, a parole, critico e aborro e, alla fine, replico con obbedienza e senza accorgermene, peraltro soffrendoci, perché mi sento in colpa con Gemma, con i miei figli e, prima ancora, con me stessa dicendo bugie e tradendo le mie convinzioni.

    Ho deciso che, alla prossima cena a cui verrò invitata, gusterò l’ospitalità degli amici senza interessarmi in alcun modo a chi devo tanta grazia. E quando saremo io e Francesco a invitare appenderò, fuori dalla porta, un bel cartello con il menu e la sua vera autrice. È un primo passo.

    LE NOSTRE GABBIE COLORATE

    In quasi tutti i recenti studi di psicologia sociale risulta che le differenze tra uomini e donne sono inesistenti nelle abilità spaziali, nelle capacità comunicative e nel ragionamento morale, mentre sono evidenti le diversità individuali nell’ambito di ciascun genere. Secondo la professoressa di psicologia sociale Chiara Volpato ci sono più differenze tra donna e donna che tra il gruppo maschile e il gruppo femminile, cosa che sperimentiamo quotidianamente, anche se tutto tende a sottolineare e divaricare la distinzione, a mostrare gli uomini più simili tra loro e più distanti dalle donne. Siamo abituati, sin dalla nascita, a radicalizzare le differenze tra uomini e donne e a ridurle, nell’ambito del medesimo genere, secondo schemi rigidi. Questa operazione culturale, anche inconscia, ha l’unica finalità di rafforzare gli stereotipi e mantenere fissa la struttura di potere ineguale che conosciamo.

    Ma cosa differenzia davvero e ineludibilmente uomini e donne? La risposta è il corpo.

    Eppure in tutto il mondo, se dobbiamo dirigerci in un bagno pubblico, il segno utilizzato per indirizzarci in modo differenziato è costituito dall’abbigliamento e non dai nostri organi genitali, unici a renderci indiscutibilmente diversi. È forse una forma di pudore. Sulla figurina affissa alle porte dei bagni di bar, aeroporti, uffici pubblici, la gonna indica l’accesso alle donne e il pantalone agli uomini. Non c’è ambiguità, tutti capiscono, da qualsiasi parte del mondo si provenga. Però anche le donne indossano i pantaloni.

    Come il linguaggio anche il genere maschile, cioè il pantalone, dovrebbe essere inclusivo, ma per la toilette questo non avviene. Le donne sanno che quella porta è loro inibita: accesso vietato.

    Lo stesso vale per gli uomini, perché gli arabi indossano le dishdasha, le tuniche bianche, e gli scozzesi il kilt. Irrilevante.

    Com’è possibile che pur essendoci alla regola una quantità tale di eccezioni da far venire meno il concetto stesso di regola, tutti vi si riconoscano tanto da rispettarla rigorosamente. Gli uomini portano i pantaloni, le donne la gonna.

    Ho provato a immaginare un qualsiasi altro segno, diverso dal corpo, capace di indirizzare in modo inequivoco gli uomini da una parte e le donne dall’altra, mi sono venute in mente capigliature, strumenti di lavoro, accessori del vivere quotidiano, e mi sono accorta che ognuno rimanderebbe inevitabilmente a uno stereotipo.

    Anche con i colori accade qualcosa di simile: assorbiamo senza difese l’azzurro dei maschi e il rosa delle femmine. L’ennesima gabbia che riguarda il nostro Occidente. Diversi colori di certo identificano altrove maschi e femmine.

    Zaini di scuola, bavaglini, spazzolini, giocattoli, cameretta, tutti rigorosamente di un colore attribuitoci senza richiesta. Impostoci dal pulviscolo che vediamo in controluce, ma solo se vogliamo vederlo. Altrimenti mettiamo il pilota automatico e marciamo senza pensare.

    E se ci piacesse più l’altro colore o un colore diverso da quello assegnatoci per genere? Non è previsto. Non si può fare.

    Ma chi lo stabilisce?

    Ci sembra che sia così da sempre, ma non è vero. Il Bambino in rosa dell’American School of Painting è datato 1840: un bel maschietto paffuto indossa un ampio vestito rosa e colletto di pizzo bianco; quasi un secolo dopo, nel 1925, ricordiamo l’elegante abito rosa indossato da Jay Gatsby nel capolavoro di Francis Scott Fitzgerald.

    Dall’arte passiamo allo sport. Fin dal 1909, la maglia del più forte, al Giro d’Italia, è rosa come le pagine della Gazzetta dello Sport, quotidiano che ha da sempre organizzato la corsa, la cui carta è rosa perché all’epoca in cui fu fondato, proprio per questo, costava meno.

    Per non parlare del settore maschile per eccellenza, il calcio, in cui vestono in rosa i francesi dell’Evian, i peruviani dello Sport Boys, mentre è addirittura fucsia la terza maglia del Real Madrid. La Juventus indossava il rosa e il nero – i colori sportivi del liceo in cui studiarono i fondatori e i primi soci del club – quando esordì nel campionato, nel 1900; oggi di questo colore è la sua seconda maglia. Il Palermo dovette combattere per il suo rosa con il regime fascista che, nel 1936, lo proibì, fino a ottenerne il ripristino appena possibile, ovvero nel 1942.

    Mi piacerebbe chiedere a un tifoso della Juventus o del Palermo se comprerebbe mai una bella maglietta rosa al figlio sapendo che è il colore dei calciatori della sua squadra del cuore.

    È, dunque, una questione di codici, di abitudini, di imposizioni, di tradizioni, non di colori o di gusti.

    Ognuna di noi resta avvolta in una nuvola rosa, come i maschi nella loro nuvola azzurra. Tutti prigionieri.

    Inizia così la costruzione sociale del genere, per separarci, per differenziarci il più possibile, per renderci addirittura opposti senza che nessuno, apparentemente, ne conosca la ragione o la necessità.

    Se tentassimo di forzare questi schemi, però, cosa accadrebbe?

    Immaginiamo di regalare a un bimbo appena nato una graziosa tutina rosa. Parenti e amici del nuovo arrivato resterebbero sbigottiti, penserebbero a uno scherzo o, peggio, a una provocazione.

    Potremmo spiegare loro che il rosa è un colore che ci piace e che abbiamo visto un quadro di metà Ottocento in cui era ritratto un maschietto con un vestito di questo colore, ma ne deriverebbe solo una discussione inutile e senza conclusione, saremmo prese per folli, solo per aver comprato una tutina di un colore che ci piaceva! Tutto questo parapiglia avverrebbe per avere deciso di invertire un colore destinato a un preciso genere?

    No di certo. Regalare una tutina rosa a un maschietto corrisponde a pensare e far pensare al di là delle barriere che ci vengono imposte, a criticarne la loro ragion d’essere; vuol dire mettere in crisi un impianto sociale riconosciuto, squilibrare assetti. Insomma, significa rompere le gabbie. Farsi portatori della libertà di pensiero e di comportamento è un affare difficile da governare. Chi compie questa operazione, anche se ci prova soltanto, è additato, nel migliore dei casi, come persona strana.

    Non ci basta affermare: «Mi piace il rosa e non l’azzurro». Dobbiamo avere coraggio, saper supportare e argomentare la nostra scelta, ingaggiare una battaglia contro tutto e contro tutti. Eppure non era questa la nostra intenzione, volevamo semplicemente affermare il nostro gusto nel donare una tutina a un neonato.

    Da piccolo mio figlio Francesco a volte giocava a spingere il proprio passeggino, accudendo amorevolmente – perfino con bavaglino e biberon – l’orsacchiotto che faceva le veci di un bebè. Un giorno, in strada, venni fermata da una signora anziana che, alzando la voce e in modo arrogante, sentenziò che una madre non avrebbe dovuto educare in quel modo il proprio figlio.

    «Come una femminuccia» disse.

    La conversazione che scaturì aveva attirato un discreto pubblico che si esprimeva dando ragione alla mia interlocutrice.

    Io ovviamente rimasi ferma sulle mie posizioni, e quando ripresi la mano di Francesco lui, con la dolcezza e l’intelligenza di un bimbo di tre anni, mi rassicurò: «Mamma, non ti preoccupare, loro sono gelose perché vorrebbero il mio orsacchiotto!».

    Forse non aveva tutti i torti.

    È così che la società ha costruito attorno al genere blocchi fissi in cui siamo automaticamente incasellati.

    Passiamo la vita immersi in queste sabbie mobili dalle quali più tentiamo di liberaci, più veniamo risucchiati, ma la fatica è tale che alla fine ci si lascia

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