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I Borgia
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E-book293 pagine4 ore

I Borgia

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Traduzione di Luisa Collodi
Edizione integrale

Alexandre Dumas ricrea la storia affascinante e cruda della casata spagnola che conquistò il Vaticano: amori scandalosi, battaglie, crimini, tradimenti, fratricidi e incesti.
Roma, 11 agosto del 1492. Papa Innocenzo VIII è morto da poco. Il trono pontificio è vacante, il popolo romano aspetta con impazienza l’elezione di un nuovo pontefice. Roma, senza un capo, è abbandonata a se stessa. Le strade, infestate da ladri e malviventi, sono pericolose. Serve un papa che sappia tenere le chiavi di san Pietro, ma soprattutto la spada di san Paolo. Alexandre Dumas, con maestria e passione, ci racconta i giochi delle grandi potenze e dei piccoli prìncipi italiani, grazie ai quali Rodrigo Borgia divenne papa Alessandro VI. Ricostruisce il secolo che sta per finire, con le sue grandi menti, Savonarola e Machiavelli, le strategie politiche, le alleanze e l’avventura militare di Cesare Borgia, figlio del papa, la sua parabola e la morte in battaglia. E, infine, intrighi amorosi a non finire, come quelli della bella e fatale Lucrezia, figlia del papa, che morì duchessa di Ferrara. Una magistrale evocazione di una Roma in divenire e di un mondo in transizione, e insieme l’affresco di una famiglia che ha fatto la storia.

«Il nuovo pontefice finì di compiere tutte le formalità dell’etichetta vaticana che l’elezione gli imponeva, e di pagare a ogni debitore il prezzo della sua simonia. Allora, esauriti i doveri, cominciò finalmente a progettare quello a cui da sempre aspirava, e che era stato, per la sua sfrenata ambizione, lo stimolo fondamentale per la lotta al potere.»


Alexandre Dumas

(1802-1870) fu uno degli scrittori più popolari della sua epoca. Autore eccezionalmente fecondo, ha legato il suo nome a più di trecento opere di narrativa (oltre al celebre ciclo de I tre moschettieri, ricordiamo Il Conte di Montecristo, La regina Margot, La Sanfelice, Il tulipano nero), di saggistica, di teatro e di viaggio, molte delle quali destinate a non tramontare, ancora oggi lette e amate in tutto il mondo da milioni di lettori. Di Dumas la Newton Compton ha pubblicato: I tre moschettieri e Vent’anni dopo, Il Visconte di Bragelonne, Il Conte di Montecristo, Garibaldi, Robin Hood, Il tulipano nero, La regina Margot e I Borgia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854133914
I Borgia
Autore

Alexandre Dumas

Alexandre Dumas (1802-1870), one of the most universally read French authors, is best known for his extravagantly adventurous historical novels. As a young man, Dumas emerged as a successful playwright and had considerable involvement in the Parisian theater scene. It was his swashbuckling historical novels that brought worldwide fame to Dumas. Among his most loved works are The Three Musketeers (1844), and The Count of Monte Cristo (1846). He wrote more than 250 books, both Fiction and Non-Fiction, during his lifetime.

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    Anteprima del libro

    I Borgia - Alexandre Dumas

    Capitolo I

    Verso la fine del Quattrocento, cioè all’epoca in cui inizia questo racconto, la piazza di San Pietro a Roma era ben lontana dall’offrire quell’aspetto grandioso con cui si presenta oggi a chi vi arriva dalla piazza dei Rusticucci. Infatti la basilica di Costantino non esisteva più, e quella di Michelangelo, capolavoro di trenta papi, opera durata tre secoli, costata duecentosessanta milioni, non esisteva ancora. L’antico edificio, che era durato millecinquecentoquarantacinque anni, aveva rischiato di crollare verso il 1440. Il papa Nicola V, precursore artistico di Giulio II e di Leone X, lo aveva fatto demolire, come il tempio di Anicio Probo che gli stava accanto. Al posto loro, dagli architetti Rossellino e Leon Battista Alberti, aveva fatto gettare le fondamenta di un nuovo tempio.

    Qualche anno dopo, Nicola V era morto, e il papa veneziano Paolo II aveva dato soltanto cinquemila scudi per continuare il progetto del suo predecessore. Appena uscito da terra il futuro monumento si fermò, offrendo l’immagine di un edificio nato morto, immagine ancora più triste di quella di un rudere vero e proprio.

    Inoltre nella piazza non c’erano ancora né il bel colonnato del Bernini, né le fontane zampillanti, né l’obelisco egiziano che, secondo Plinio, era stato innalzato dal faraone Nuncoré nella città di Heliopolis e trasportato poi a Roma da Caligola, che lo fece collocare nel circo di Nerone, dove rimase fino al 1586.

    Il circo di Nerone era sullo stesso terreno su cui oggi s’innalza San Pietro, e copriva con la base il posto dell’attuale sacrestia, quindi appariva come un gigantesco ago in mezzo alle colonne tronche, ai muri ineguali, alle pietre ancora grezze.

    A destra di quel rudere neonato s’innalzava il Vaticano, splendida torre di Babele, a cui tutti i celebri architetti della scuola romana hanno lavorato da mille anni. A quell’epoca non c’erano ancora le due magnifiche cappelle, le dodici grandi sale, i ventidue cortili, le trenta scalinate e le duemila stanze. Il papa Sisto V, infatti, quel meraviglioso guardiano di porci¹, che in cinque anni di regno realizzò tanti progetti, non vi aveva fatto aggiungere l’immenso edificio che, dal lato orientale, domina il cortile di San Damaso. Era ancora il vecchio e santo palazzo dalle antiche vestigia, in cui fu ospitato Carlo Magno quando si fece incoronare imperatore dal papa Leone III.

    Il 9 agosto 1492 sembrava che tutta Roma, dalla porta del Popolo al Colosseo, dalle terme di Diocleziano a Castel Sant’Angelo, si fosse data appuntamento in quella piazza. La folla era così numerosa che invadeva tutte le vie circostanti, che si incontravano al centro come i raggi di una stella. Simile a un tappeto mobile e multicolore saliva verso la basilica, si ammassava sulle pietre, si appendeva alle colonne, si arrampicava sulle mura, entrava nelle porte delle case e riappariva alle finestre, così fitta che ogni finestra sembrava una facciata di teste.

    Tutti avevano gli occhi fissi su un unico punto del Vaticano, poiché nel Vaticano c’era il Conclave. Innocenzo VIII era morto da sedici giorni, e nel Conclave si svolgeva l’elezione di un nuovo papa.

    Roma è la città delle elezioni, dalla sua fondazione fino ai nostri giorni. Per quasi ventisei secoli vi sono stati eletti re, consoli, tribuni, imperatori e papi. Ecco perché, nei giorni di Conclave, sembra in preda da una strana febbre che spinge tutti verso il Vaticano o verso Monte Cavallo, a seconda che l’assemblea scarlatta si tenga in uno o nell’altro di quei due palazzi.

    L’elezione di un nuovo pontefice è un affare molto importante per tutti, perché condiziona gli anni a venire. Infatti, secondo la durata media stabilita da san Pietro a Gregorio XVI, ogni papa resta in carica circa otto anni, e quegli otto anni sono, a seconda della personalità di colui che viene eletto, un periodo di tranquillità o di disordine, di giustizia o di corruttibilità, di pace o di guerra.

    Mai, dal giorno in cui il successore di san Pietro si era seduto sul trono pontificio fino all’interregno di cui stiamo parlando, l’inquietudine popolare si era rivelata così grande come in questo momento, in cui la folla trepidante si accalcava in piazza san Pietro e nelle strade circostanti. È vero che una ragione c’era: infatti Innocenzo VIII, chiamato il padre del suo popolo perché aveva accresciuto il numero dei sudditi con otto figli e altrettante figlie, dopo aver passato la vita nei piaceri, era morto, come abbiamo detto, dopo una lunga agonia, nel corso della quale, se si crede al diario di Stefano Infessura, nelle strade di Roma, in preda a disordini e alla violenza, erano stati commessi duecentoventi omicidi.

    Il potere era passato al cardinale camerlengo, che nell’interregno diviene sovrano, e quindi si deve assumere tutti gli impegni della carica, sia privati che ufficiali. Far battere moneta a nome suo e del suo casato, togliere dal dito del pontefice defunto l’anello del pescatore, far vestire, rasare, imbellettare e imbalsamare il cadavere, e calare, dopo i nove giorni di esequie, la bara nella nicchia provvisoria dove il defunto deve restare finché il successore non venga eletto e lo faccia trasferire nella tomba definitiva. Inoltre, già carico di obblighi, il camerlengo aveva anche dovuto far murare la porta del Conclave e la finestra del balcone da cui, alla fine del Conclave, sarebbe stato proclamato il risultato dell’elezione pontificale. È comprensibile, quindi, che non avesse avuto il tempo di occuparsi della polizia e dell’ordine cittadino. Gli omicidi si erano moltiplicati e il popolo chiedeva a gran voce una mano energica, che facesse rientrare nei foderi tutte quelle spade e tutti quei pugnali.

    Gli occhi della folla, come abbiamo detto, erano fissi sul palazzo del Vaticano e in particolare su un comignolo, da cui doveva uscire il primo segnale di fumo. Ma, all’improvviso, al momento dell’Ave Maria, cioè all’ora in cui il giorno comincia a declinare, dalla folla si levarono grida e risate, in un caotico schiamazzo di minacce e di scherni. Era appena uscito, da un comignolo, un lieve segnale di fumo scuro, salito perpendicolarmente nel cielo come una leggera nuvola.

    Quel fumo annunciava che Roma era sempre senza padrone e che il mondo non aveva ancora un papa, poiché la fumata nera proveniva dai biglietti dello scrutinio segreto, bruciati per comunicare al popolo che i cardinali non si erano ancora messi d’accordo.

    Alla vista di quella fumata, che si dissolse velocemente, quella numerosissima folla capì che non c’era più niente da aspettare fino alle dieci del mattino seguente, quando i cardinali facevano il primo sorteggio, e se ne andò tumultuosa e delusa, come dopo aver visto la girandola finale di un fuoco d’artificio.

    In pochi minuti, dove un quarto d’ora prima si agitava la folla, restarono soltanto pochi curiosi, che abitando nelle vicinanze o sulla piazza stessa avevano meno fretta degli altri di rientrare a casa. A poco a poco anche gli ultimi gruppi si dispersero, perché erano suonate le nove e mezzo e le strade di Roma cominciavano a essere poco sicure. A quei gruppi seguì qualche passante solitario che affrettava il passo: le porte delle case si chiusero una dopo l’altra, le finestre si spensero. Allo scoccare delle dieci, con l’eccezione di una finestra del Vaticano da cui trapelava il vegliare di una lampada ostinata, case, piazze e strade caddero nella più profonda oscurità.

    In quel momento, un uomo avvolto in un grande mantello si raddrizzò come un’ombra contro una delle colonne della basilica incompiuta, e sgusciando, con lentezza e cautela, tra le pietre che giacevano intorno alle fondamenta del nuovo tempio, avanzò fino alla fontana, al centro della piazza, proprio dove si innalza oggi l’obelisco di cui abbiamo parlato. Arrivato là si fermò, protetto dall’oscurità della notte e dall’ombra del monumento e, dopo essersi guardato intorno per accertarsi di essere solo, sfoderò la spada e con la punta batté tre volte sul selciato della piazza, facendone scaturire scintille. Quel segnale – perché di questo si trattava – non andò perduto: si spense l’ultima lampada che ancora vegliava nel palazzo del Vaticano e, nello stesso istante, un oggetto lanciato dalla finestra cadde a pochi passi dall’uomo avvolto nel grande mantello, il quale, guidato dal suono argentino dell’oggetto caduto sulla pietra, nonostante l’oscurità ci mise subito sopra una mano, se ne impadronì, e si allontanò rapidamente.

    Camminò senza voltarsi fino alla metà di Borgo Vecchio, poi girò a destra e imboccò una piccola strada alla cui estremità c’era una Madonna con il suo lumicino. Si avvicinò alla fioca luce e tirò fuori dalla tasca l’oggetto raccolto da terra: era uno scudo romano. Quello scudo si poteva svitare, e la cavità praticata nello spessore della moneta conteneva una lettera accuratamente ripiegata, che l’uomo a cui era indirizzata, ansioso di conoscerne il contenuto, cominciò a leggere subito, anche a rischio di essere riconosciuto.

    Correva infatti un grosso rischio perché, nella frettolosa agitazione, aveva buttato all’indietro il cappuccio del mantello. La sua testa si trovava nel cerchio luminoso proiettato dalla piccola lampada, ed era facile distinguere un bel giovane di venticinque o ventisei anni, con un giustacuore violetto aperto alle spalle e ai gomiti per lasciar uscire la camicia, e con un berretto dello stesso colore la cui lunga piuma nera gli ricadeva fin sulla spalla. È vero che la sosta non fu lunga, perché appena ebbe finito di leggere la lettera, o meglio il biglietto ricevuto in modo tanto misterioso e tanto strano, lo mise nel portafoglio d’argento, e, sistemando il mantello in modo da coprirsi il viso, riprese di buon passo la strada attraverso Borgo Santo Spirito e imboccò via della Lungara, che percorse fin dopo la chiesa di Regina Coeli. Arrivato là, batté rapidamente tre colpi alla porta di una bella casa, ed essa si aprì subito. Salì in fretta le scale, ed entrò in una camera dove lo aspettavano due donne, con manifesta impazienza.

    Vedendolo entrare, esclamarono insieme:

    «Allora, Francesco! Che notizie?»

    «Buone, madre mia, buone, sorella mia», rispose il giovane alle due donne, baciandone una e tendendo la mano all’altra, «oggi nostro padre ha conquistato altri tre voti, ma gliene mancano ancora sei per avere la maggioranza».

    «Ma non c’è modo di comprarli?», esclamò la donna più anziana, mentre la più giovane interrogava il fratello con lo sguardo.

    «Certamente, madre mia, certamente, sorella mia», rispose il giovane, «è proprio quello a cui mio padre ha pensato. Dona al cardinale Orsini il suo palazzo di Roma con i due castelli di Monticello e di Soriano; al cardinale Colonna la sua abbazia di Subiaco; al cardinale di Sant’Angelo il vescovado di Porto con il mobilio e la cantina; al cardinale di Parma la città di Nepi; al cardinale di Genova la chiesa di Santa Maria di via Lata; al cardinale Savelli la chiesa di Santa Maria Maggiore e la città di Civita Castellana. Il cardinale Ascanio Sforza sa già che l’altro ieri gli abbiamo mandato quattro muli carichi d’argento e di vasellame, e per quel dono si è impegnato a dare cinquemila ducati al cardinale patriarca di Venezia».

    «Ma come potremo far sapere agli altri cardinali i desideri di Rodrigo?», chiese la più anziana delle donne.

    «Mio padre ha previsto tutto, e ci offre un modo facile. Voi sapete, madre mia, con quale cerimoniale viene portata la cena ai cardinali».

    «Sì, con una portantina, in una grande cesta con lo stemma del cardinale a cui è destinato il pasto».

    «Mio padre ha comprato il vescovo che va a visitarlo. Domani è giorno di grasso: manderanno ai cardinali Orsini, Colonna, Savelli, di Sant’Angelo, di Parma e di Genova polli da arrostire, e ogni pollo conterrà una donazione, a nome di mio padre e redatta da me nella debita forma, dei palazzi e delle chiese a loro destinati».

    «Magnifico!», esclamò la donna anziana, «ora sono sicura che tutto andrà bene».

    «E, grazie a Dio», aggiunse la più giovane con un sorriso stranamente beffardo, «allora mio padre sarà papa».

    «Oh sì! E sarà un bellissimo giorno per noi!», esclamò Francesco.

    «E per tutta la cristianità», ribatté la sorella, con un’espressione ancora più ironica.

    «Lucrezia, Lucrezia», disse la madre, «non meriti la felicità che ci capita».

    «Che importa se non la merito, dato che comunque ci capita? Del resto, madre mia, voi conoscete il proverbio: Le famiglie numerose sono benedette dal Signore, e a maggior ragione la nostra, che rassomiglia tanto a quella dei patriarchi».

    Parlando, lanciò al fratello uno sguardo talmente lascivo che il giovane arrossì; ma in quel momento lui aveva pensieri molto diversi da quelli dei suoi amori incestuosi. Ordinò di svegliare quattro domestici, e mentre si armavano per accompagnarlo stilò e firmò le sei donazioni da mandare l’indomani ai cardinali. Non voleva essere visto in casa della madre, e intendeva approfittare della notte per recapitarle lui stesso alle diverse persone di fiducia incaricate di portarle a destinazione, come convenuto, all’ora di cena dei cardinali. Poi, quando le donazioni furono in bell’ordine e i servitori pronti, Francesco uscì insieme a loro, lasciando le due donne fare sogni dorati sulla loro futura grandezza.

    Fin dall’alba, il popolo si precipitò di nuovo, appassionato e ansioso come il giorno prima, sulla piazza del Vaticano, dove, al solito momento, cioè alle dieci del mattino, la fumata uscì ancora molto scura, per annunciare che nessuno dei cardinali aveva ottenuto la maggioranza, suscitando risate e mormorii.

    Cominciavano a spargersi le voci che le possibilità di essere eletti papa si dividevano fra tre candidati: Rodrigo Borgia, Giuliano della Rovere e Ascanio Sforza. Il popolo ignorava ancora il dono dei quattro muli carichi di vasellame e d’argento portati ad Ascanio Sforza in cambio dei voti ceduti a Rodrigo Borgia.

    La folla era molto sconcertata dalla nuova delusione e ricominciava a protestare, quando si udirono echeggiare canti religiosi: una processione, guidata dal cardinale camerlengo, per ottenere dal cielo la pronta elezione di un papa, era partita dalla chiesa dell’Ara Coeli al Campidoglio, e doveva sostare davanti alle principali Madonne e nelle basiliche più frequentate.

    Appena il popolo vide il crocifisso d’argento che precedeva la processione, cadde un profondo silenzio e tutti si inginocchiarono. Un grandissimo raccoglimento seguì all’agitazione e al chiasso di pochi minuti prima: reazioni che, a ogni nuova fumata scura, diventavano sempre più minacciose.

    Molti pensarono che la processione avesse uno scopo politico, oltre che religioso e la sua influenza dovesse essere grande in Terra come in cielo. Comunque, se quella era stata la sua intenzione, il cardinale camerlengo non si era sbagliato e l’effetto prodotto fu quello desiderato: passata la processione le risate e gli scherzi continuarono, ma grida e minacce erano completamente cessate.

    Tutta la giornata trascorse così, perché a Roma, cardinali o lacchè che siano, nessuno lavora, e tutti vivono non si sa bene come.

    La folla era ancora molto numerosa quando, verso le due del po­meriggio, il passaggio di una processione – diversamente dall’altra, che aveva imposto il silenzio – suscitò una grande confusione.

    Anche questa attraversò piazza San Pietro: era la processione che portava i polli per la cena dei cardinali. Il popolo continuò a sbeffeggiare e a protestare, senza il minimo sospetto, irriverente com’era, che grazie a quella processione, molto più efficace della precedente, sarebbe stato eletto il nuovo papa.

    Come il giorno prima venne l’ora dell’Ave Maria, ma, come il gior­no prima, l’attesa fu delusa, e alle otto e mezzo in punto la fumata quotidiana riapparve, scura, in cima al comignolo. A un certo momento, però, cominciarono a spargersi delle voci, provenienti dall’interno del Vaticano, che diffondevano una grande notizia: quasi certamente l’elezione sarebbe avvenuta l’indomani. Confortato dalla speranza, questa volta il buon popolo pazientò.

    D’altronde, quel giorno aveva fatto molto caldo, e tutti i Romani erano così sfiniti dalla stanchezza e bruciati dal sole, loro che vivono soltanto d’ombra e di pigrizia, da non aver nemmeno più la forza di protestare.

    Il giorno seguente, 11 agosto 1492, si alzò cupo e burrascoso, il che non impedì alla folla di occupare, come sempre, piazze, strade, porte, case, basiliche. Quel cambiamento del tempo, tutto sommato, era una vera benedizione del cielo: faceva molto caldo, ma almeno non c’era sole.

    Verso le nove un terribile temporale si addensò su Trastevere, ma che importava a quella folla di pioggia lampi e fulmini? Aveva altre angustie: aspettava il suo papa, che le era stato promesso per quel giorno. Dal comportamento di ciascuno si poteva capire che, se la giornata passava senza l’elezione del papa, c’era da prevedere un serio rischio di sommossa. Infatti, via via che il tempo passava, l’agitazione aumentava. Suonarono le nove, le nove e mezzo, le dieci meno un quarto, ma non accadeva nulla a confermare o a distruggere le speranze della folla. Finalmente si sentì il primo tocco delle dieci: tutti gli occhi si volsero verso il comignolo. Le dieci rintoccarono lentamente, ogni tocco risuonava nel cuore della folla. Tutti trattenevano il fiato, in un profondo silenzio. Echeggiò il decimo colpo, poi svanì vibrando nello spazio, e un grande grido partì contemporaneamente da centomila petti.

    «Non v’è fumo!», cioè: abbiamo un papa.

    Il quel momento la pioggia cominciò a cadere, ma nessuno ci fece caso, talmente grandi erano le manifestazioni di gioia e di impazienza di tutta la folla. Dopo qualche istante di tensione, finalmente una piccola pietra si staccò dalla finestra murata che dava sul balcone, verso cui erano rivolti tutti gli sguardi; un’acclamazione generale accolse quella caduta. A poco a poco l’apertura si ingrandì e dopo qualche minuto fu abbastanza larga da permettere a un uomo di uscire e farsi avanti sul balcone.

    Allora apparve il cardinale Sforza; ma, mentre si accingeva a uscire, spaventato dalla pioggia e dai lampi, esitò un momento, poi indietreggiò e rientrò nella sala. Immediatamente la folla si scatenò come un mare in tempesta, con grida, imprecazioni, schiamazzi, minacciando di demolire il Vaticano e di andare a cercare direttamente il suo papa.

    A quel tumulto il cardinale Sforza, più spaventato dalla tempesta popolare che da quella celeste, si fece avanti sul balcone, e tra due scoppi di tuono e un lampo accecante, in un momento di un silenzio incomprensibile per chi avesse sentito il frastuono di poco prima, fece la seguente proclamazione:

    «Vi annuncio una grande gioia: l’eminentissimo e reverendissimo signor Rodrigo Lenzuolo Borgia, arcivescovo di Valenza, cardinale diacono di San Nicola in Carcere, vice-cancelliere della Chiesa, è stato appena eletto papa, e ha scelto per sé il nome di Alessandro VI».

    La notizia di quella nomina fu accolta con una gioia un po’ strana. Rodrigo Borgia aveva la fama di uomo dissoluto, è vero, ma il libertinaggio era già salito due volte sul trono papale con Sisto IV e Innocenzo VIII. Non c’era nulla di nuovo per i Romani nella singolare situazione di un papa con un’amante e cinque figli. In quel momento la cosa importante era che il potere fosse caduto in mani salde, ed era ancora più importante, per la tranquillità delle strade di Roma, che il nuovo papa ereditasse la spada di san Paolo piuttosto che le chiavi di san Pietro.

    Quindi, delle feste che il papa fece dare in quell’occasione, la caratteristica dominante fu più bellicosa che religiosa, e sembrava che si celebrasse la nomina di un giovane conquistatore invece che l’elezione di un vecchio pontefice.

    Ci furono anche molti giochi di parole e scritte profetiche sul nome di Alessandro che, per la seconda volta, sembrava promettere ai Romani il dominio sul mondo.

    La sera stessa, tra le illuminazioni sfavillanti e i falò, che trasformavano la città in un mare di fiamme, e tra le acclamazioni popolari, fu letta pubblicamente la seguente

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