La ragazza con la farfallina
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Flavia, una giovane archeologa, si affaccia sulla scena nel bellissimo Quartiere Coppedè della Roma di inizi Novecento, dove conosce Marco.
L’incontro tra i due giovani segna l’inizio di una storia avvincente che si sviluppa attraverso l’Etiopia degli scavi archeologici e il Cile del dittatore Pinochet.
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Anteprima del libro
La ragazza con la farfallina - Giorgio Moscatelli
L’amicizia
La polvere si staccava dal soffitto a ogni tiro di artiglieria che cadeva nelle vicinanze. I colpi si susseguivano a ritmo serrato. La sala era molto grande: uno spoglio stanzone rettangolare senza alcun tipo di arredo. Le pareti, in origine pitturate di bianco, apparivano ormai sudicie e macchiate. A terra giacevano allineati una serie di materassi, anch’essi imbrattati. In quel luogo potevano trovare posto una cinquantina di persone. Gli ospiti, tutti giornalisti provenienti da ogni parte del mondo, erano sdraiati o seduti su quei giacigli con accanto i pochi bagagli e le attrezzature tecniche: macchine fotografiche e telecamere, registratori e taccuini. I computer portatili, strumento fondamentale per i giornalisti odierni, erano ancora lontani nel tempo.
In fondo a quell’ampio locale due ingressi davano su una serie di bagni dalle pareti sporche e con le porte che cigolavano con gemiti fastidiosissimi. Quel rumore sgradevole, l’andirivieni nei bagni e lo sciacquio irritante, il vociare multinazionale della brigata dei media, i sordi boati della battaglia in corso, rendevano il giusto riposo di quegli pseudo eroi un impegno arduo se non impossibile.
Marco Merisi era sdraiato sul suo materasso, la testa poggiata su un cuscino ormai logoro e gli occhi fissi sulle crepe del soffitto. Accanto a lui, nella medesima posizione c’era Giulio Rosselli, suo amico e collega di sempre. Come spesso accadeva in quelle situazioni, Marco cercava di isolarsi e i pensieri correvano alla sua casa romana, al desiderio di farci al più presto ritorno per ritrovare le proprie cose. Come succede a chi vive una vita di viaggi per lavoro, una volta tornati a casa, nella propria famiglia, fra le proprie amicizie e il proprio ambiente, si smania per ripartire, per cominciare una nuova avventura in un posto qualunque del mondo; quando invece ci si trova lontano, in un luogo qualunque del mondo, si sente forte la voglia di tornare alla vita tranquilla della propria città e ai propri affetti, di cercare un porto sicuro, protetto e felice. A 43 anni, magro e di statura media, Marco superava il metro e settanta, aveva capelli castani e occhi marroni. Vestiva sportivo ma non disdegnava l’eleganza e, quando poteva, ne faceva sfoggio. Il suo sorriso cordiale e sincero lo rendeva simpatico. Aveva frequentato il liceo classico Giulio Cesare, nello storico quartiere Trieste-Salario di Roma, laureandosi poi in lettere all’Università la Sapienza.
Negli anni del movimento nato nel ’68 aveva conosciuto Giulio. Erano della stessa età; Giulio era di poco più alto e più in carne, biondo e con penetranti occhi azzurri. La sua corporatura e la sua altezza lo facevano apparire sicuro di sé e nei momenti di crisi si faceva sempre avanti a proteggere l’amico Marco. Insieme avevano partecipato alle manifestazioni studentesche di quel periodo. Dopo i cortei di protesta contro la guerra del Vietnam, iniziati negli Stati Uniti e sbarcati in Europa, la rivolta giovanile divenne movimento di massa mondiale coinvolgendo studenti, lavoratori e intellettuali. Nelle serate di incontri e discussioni, dove veniva contestato l’insegnamento in mano ai baroni
nelle università e nei licei, i due ragazzi strinsero una forte amicizia. In seguito, avevano vissuto insieme il periodo spensierato di quella giovinezza fatta di feste, di ragazze, di viaggi alla ricerca di quella inquieta felicità, obiettivo di tutti i giovani in tutte le epoche. Si erano divertiti passando di avventura in avventura senza mai fermarsi. Giulio si innamorava ogni volta che metteva gli occhi su una ragazza, Marco un po’ meno: le sue storie non duravano più di qualche settimana. Il suo amico si arrabbiava sempre perché all’inizio delle loro relazioni uscivano in quattro per poi ritrovarsi in tre, quando Marco decideva di finirla con la sua ragazza di turno.
Giulio e Marco avevano alle spalle molti viaggi in teatri di guerra in Africa, Asia e altri paesi sconvolti da cambiamenti politici e militari. Lo stare insieme tante volte aveva creato un forte affiatamento e nelle situazionii di rischio bastava una parola o uno sguardo per lanciarsi messaggi e capirsi immediatamente. Anche in quel bunker sapevano che stavano correndo dei rischi ma erano sereni: era la vita che avevano scelto e che apprezzavano.
Il loro lavoro consisteva nell’osservare quanto stava accadendo, registrare immagini e scrivere testi per articoli che sarebbero stati apprezzati e ben pagati. L’impegno dei due era intercambiabile, a turno stavano alla telecamera o al microfono. C’era una buona dose d’incoscienza nelle loro valigie e nei loro zaini, ma andava bene così. I video erano richiesti da molti telegiornali e gli articoli venivano pubblicati su alcune testate di grande tiratura.
Avevano cominciato a lavorare collaborando come giornalisti per alcuni quotidiani dell’hinterland romano e per qualche rivista di gossip. Alcune volte i loro pezzi apparivano su Novella 2000, un rotocalco rosa in voga in quegli anni. Scrivevano insieme articoli sui volti noti dello spettacolo e su personaggi dell’alta società, il loro lavoro era una sorta di gioco, a loro andava bene così, si divertivano e guadagnavano qualche soldo per sbarcare il lunario. Erano anni spensierati e felici. Si erano fatti le ossa con la loro prima guerra
in Libano: durante l’accerchiamento israeliano avevano abbandonato per ultimi una Beirut sotto assedio, portando a termine servizi esclusivi di quell’interminabile conflitto. Avevano documentato il massacro di Sabra e Shatila nel settembre del 1982, quando erano stati testimoni dell’eccidio di centinaia di palestinesi e filmato uno straziante ammasso di cadaveri accumulati lungo le strade, dentro i cortili e all’interno delle case distrutte, avevano soportato l’assalto di milioni di mosche che passavano da un corpo all’altro, dai morti ai vivi e di nuovo ai morti, in una macabra danza senza ritmo e con un ronzio assordante, che insieme al lezzo dei cadaveri accompagnava quelle drammatiche immagini. Gli assassini, miliziani cristiani indegni di questo nome, erano da poco usciti dai campi profughi dopo aver ucciso uomini, donne, vecchi e bambini, spinti da un odio di religione assurdo e incomprensibile. Gli articoli e le immagini di Giulio e Marco avevano indignato il mondo, impotente di fronte a tanta barbarie. Dopo il successo ottenuto in quella guerra i due inseparabili amici erano passati da un conflitto all’altro, realizzando servizi in Paesi attraversati da rivolte, colpi di Stato e tumulti, guadagnando riconoscimenti e approvazione nel mondo dell’informazione.
La vera svolta arrivò nel 1974 con la fine del monopolio televisivo della Rai e con la comparsa sulla scena dell’informazione di alcune reti televisive private, tra cui spiccava GBR, il primo network di una certa rilevanza. Con quella rete televisiva Giulio e Marco cominciarono a specializzarsi nei servizi video; investirono denaro acquistando una telecamera e, dopo aver seguito corsi di montaggio, raggiunsero un buon livello professionale. In qualità di videomaker partivano per le zone con conflitti militari e situazioni di crisi che potevano interessare le agenzie di stampa e i direttori delle testate giornalistiche. Per i due giovani amici continuava il gioco-lavoro che svolgevano insieme ormai da anni, ora anche con discreti profitti economici.
Erano sbarcati a Teheran da un Boeing di linea della Iran Air, invitati dalle autorità iraniane insieme a decine di altri giornalisti. Il regime degli Ayatollah voleva usare stampa e televisione come veicolo di propaganda della loro politica e per divulgare le conquiste dei loro soldati in una delle tante guerre dimenticate di quel periodo. Il conflitto tra Iran e Iraq, cominciato nell’agosto del 1980 per una disputa di confini, si era trasformato in una estenuante guerra di posizione, un incessante bagno di sangue per i due eserciti che continuavano la loro guerra di trincea in un terreno arido e desertico. Il loro soggiorno nella capitale era stato rilassante; avevano trascorso il tempo in visite al souk, tra profumi di spezie e urla dei venditori, in lunghe passeggiate nella interminabile via Valiasr, tra donne in chador, il largo mantello che copriva testa e corpo lasciando scoperto il viso, e uomini che sfoggiavano una folta barba lunga in giacche e camicie bianche, rigorosamente senza cravatta perché simbolo della decadenza occidentale. I due amici avevano ironizzato spesso su questa stravaganza religiosa; ma perché un Dio, con tutti i problemi che ha, si deve preoccupare dei capi di abbigliamento?
Uno degli aspetti più antipatici di quei giorni erano stati i pranzi e le cene senza vino, pasteggiare con aranciata o limonata non era gradevole. Un giorno avevano deciso di entrare nella stazione ferroviaria di Teheran. Marco amava i treni e gli scali ferroviari fin da bambino; le persone in attesa, lo sferragliare del metallo, l’odore tipico di quei luoghi lo portavano a pensare a viaggi e avventure e, quando poteva, in qualunque paese del mondo, entrava nelle stazioni per riprendere immagini che sarebbero state usate in seguito come stacco
, tra un argomento e l’altro, nel video che avrebbero realizzato.
Erano su una pensilina, accanto a un treno, quando furono avvicinati da due militari di guardia che chiesero loro l’autorizzazione a filmare: non avendo alcun permesso i due giornalisti furono fermati e condotti in una caserma vicina dove, poco tempo dopo, giunse un corpulento pasdaran. Marco gli andò incontro per cercare di spiegare le loro buone intenzioni ma non fece in tempo a parlare, uno schiaffo a mano tesa lo raggiunse in pieno viso facendolo traballare. Un po’ per il dolore e un po’ per la sorpresa causata da quella assurda reazione, fece due passi indietro e cadde seduto su una panca addossata alla parete. Giulio, alla vista del suo amico colpito così brutalmente, partì a testa bassa verso quell’imponente ammasso di muscoli ma non riuscì a raggiungere l’obiettivo perché fu fermato dai militari che gli saltarono letteralmente addosso costringendolo a terra. Marco si alzò dalla panca urlando: «Siamo giornalisti», agitando il tesserino professionale e l’accredito stampa iraniano, ma i militari gli si fecero intorno bloccando anche lui. La vicenda ebbe fine più tardi, quando giunse un ufficiale che controllò i passaporti e fece una lunga predica sulla legge e sulle regole della Repubblica Islamica. Il video registrato fu sequestrato e se ne perse traccia. Nessuno spiegò il motivo che aveva portato il gigante islamico a colpire violentemente uno straniero indifeso. Nel tragitto verso l’hotel Marco aveva cercato di convincere l’amico che in situazioni del genere era meglio non reagire e aspettare che l’atmosfera divenisse più tranquilla, Giulio era invece convinto che mostrare i pugni fosse la cosa più giusta. Marco replicò che si era visto quanto fosse giusta la sua tesi.
Dopo dieci giorni di attesa finalmente erano partiti verso il fronte. All’aeroporto internazionale di Teheran-Mehrabad erano saliti su un aereo militare da trasporto, un C 130 diretto sullo Shatt-al-Arab, in compagnia di altri inviati. Lo Shatt-al-Arab, al confine conteso tra l’Iran e l’Iraq, è la foce del fiume omonimo che ha origine dalla confluenza del Tigri e dell’Eufrate, noti per aver racchiuso tra le loro sponde la nascita e lo sviluppo della civiltà mesopotamica dal IV millennio a.C.
I due giornalisti, insieme ai loro colleghi, avevano trovato posto sulle scomode seggioline di tela del velivolo e, dopo il decollo e l’arrivo in quota, l’aereo era stato oscurato per motivi di sicurezza.
Dopo un volo di due ore, era atterrato all’aeroporto di Bassora. Da lì, a bordo di alcuni autobus dai finestrini oscurati meticolosamente con del fango, erano stati trasportati al fronte, nel settore iraniano. Il viaggio era poi finito in quel bunker sotterraneo da dove, in quella grande sala sporca, erano in attesa di continuare il percorso per raggiungere la linea di fuoco tra i due eserciti.
«Non riesci a dormire neanche tu?», chiese Marco al suo amico vedendolo supino ma sveglio.
«Ma figurati, con questo casino... Sto pensando a Flavia, una ragazza che ho conosciuto un mese fa: una donna meravigliosa. Ho passato con lei dei giorni fantastici... non abbiamo fatto altro che parlare e fare l’amore parlando, ridendo e godendo nello stesso tempo. Lo so che ti può sembrare strano, ma era un modo di scambiarsi le sensazioni e gli umori di una notte fantastica».
«Ecco, ti sei innamorato di nuovo», rispose Marco con un sorriso sornione sulle labbra.
«Non lo so, forse sì e forse no, ma da quando ci siamo salutati, la sera prima di partire per questo cazzo di Paese, non ho fatto altro che pensare a lei, ai suoi sorrisi, al suo modo sereno nel confrontarsi con me, al piacevole sesso che abbiamo fatto. Pensa che lei quando era in casa mia si sentiva a suo agio, si muoveva come se fosse nella sua casa di sempre».
Marco, fingendosi serio, disse: «E secondo te, questo non è pericoloso?».
«No, non la vedo così – rispose Giulio – Mi faceva piacere, era bello ed eccitante seguirla mentre si muoveva, camminava e scherzava tranquilla, come se quella casa fosse la sua. Aveva indosso solo una mia camicia, come si vede sempre nei film, mi guardava con quegli occhi belli e intelligenti e rideva, rideva in un modo che non avevo mai visto. Era seducente e dolcissima. Aveva una piccola farfalla tatuata su un polso, un segno di femminilità che a me intrigava molto, non come quei brutti tatuaggi che coprono per intero le braccia o le gambe».
«E vuoi dirmi che non sei innamorato? – chiese ancora Marco a conferma delle sue convinzioni – Sei cotto come un liceale del secondo anno alla sua prima tempesta ormonale».
«Boh. Te lo dirò quando la rivedo – rispose Giulio – Per il momento mi piace pensare a lei».
Marco guardò il suo amico che aveva gli occhi assenti e lo sguardo fisso sulla volta intonacata sopra di lui. La sua mente era altrove, magari stava passeggiando in compagnia della sua ragazza; le sue labbra erano piegate in un impercettibile sorriso. Era la prima volta che lo vedeva così, non era una delle solite storielle, sembrava veramente innamorato. Si sentì felice per lui.
Giulio, risvegliandosi dal suo candido languore, si girò dicendo: «Piuttosto, qui si mette male... è una settimana che siamo in attesa, che dici? Ce la faremo a vedere qualcosa di questa benedetta guerra?».
«Lo spero proprio, abbiamo fatto un lungo viaggio per venire fin qui e se non riusciamo a registrare un po’ di immagini m’incazzo come una iena... ma poi perché la iena si incazza? Forse perché la chiamano iena ridens, ma cosa avrà da ridere?». E tutti e due scoppiarono in una sonora risata.
All’alba, i pochi che erano riusciti a dormire in quel maleodorante bunker furono svegliati e, insieme agli altri, accompagnati in un piazzale dove erano in attesa alcune camionette scoperte. A tutti fu consegnato un elmetto con l’obbligo di indossarlo, ordine dato senza tanta delicatezza. Si formarono dei gruppi, in genere della stessa lingua, e a bordo di quei mezzi, in verità non molto comodi, partirono verso quello che i loro accompagnatori chiamavano la linea del fronte
.
La lunga teoria dei camioncini correva su un percorso di terra battuta sulla sponda destra dello Shatt-al-Arab; a una distanza media di poco meno di un chilometro c’erano i nemici, gli iracheni che da lì, dalla riva opposta, sparavano colpi di Katyusha. I passeggeri di quei camioncini vedevano delle nuvolette bianche, come degli sbuffi, e un secondo dopo arrivavano le esplosioni, fortunatamente senza conseguenza. I soldati iraniani ci spiegarono che gli iracheni facevano quello che in gergo militare si chiamava tiro a forcella, il sistema usato da tutti gli eserciti del mondo per aggiustare il tiro: prima uno lungo poi uno corto, il terzo colpiva il bersaglio. Per questo motivo l’autocolonna aveva una velocità sostenuta e, quando si fermava per registrare immagini e prendere appunti, gli accompagnatori mettevano fretta, proprio per evitare di essere nel posto sbagliato al terzo tiro. Nella camionetta dove avevano trovato posto Marco e Giulio c’erano: Mario, un inviato dell’Unità che in quel periodo era ancora un importante organo del Partito Comunista Italiano, Danilo, inviato di Repubblica, Giuseppe e Franco componenti di una troupe televisiva della Rai.
«Ragazzi, questi ci fanno fuori», protestò Mario nervosamente. Il giovane inviato dell’Unità, in realtà un po’ montato, indossava una giacca mimetica e aveva uno zaino colorato dello stesso tipo; per legittimare la sua presenza in quella situazione soleva dire spavaldo: «Finché c’è guerra c’è speranza».
Le camionette avanzavano veloci su quella strada sterrata saltando da una buca all’altra e i giornalisti, stipati nell cassone, cercavano di reggersi come potevano, stretti alle barre metalliche che un tempo sostenevano il telone. Quando i camioncini arrivavano nel luogo scelto per documentare quanto erano stati bravi i sudditi dell’Ayatollah Khomeini, l’autocolonna si fermava e i cronisti venivano fatti scendere per ammirare i prodigi dell’esercito dei Pasdaran. In uno di questi luoghi, una sorta di piccolo villaggio con una manciata di case al coperto dai tiri iracheni, un ufficiale spiegava la vittoria iraniana spingendo i turisti della guerra a vedere e a documentare i cadaveri dei soldati di Saddam Hussein lasciati lì per far colpo sui media.
Giulio, guardando con un sorriso ironico Marco, disse: «Volevi la guerra: eccola servita su un piatto d’argento».
Marco rispose a tono: «Non vedo piatti d’argento, qui ci sono solo