L'antico Egitto
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Anteprima del libro
L'antico Egitto - Daniele Salvoldi
historica paperbacks
19
Daniele Salvoldi
L’antico Egitto
La storia, i personaggi,
la società
arkadia editore
L’Antico Egitto rappresenta da secoli uno degli snodi focali della storia. In questo volume, che rappresenta una sintesi delle vicende del paese, l’autore racconta la genesi, il progresso, lo sviluppo della società egiziana antica, ponendo l’accento sugli eventi principali, sui personaggi più importanti, sulla religione, sulla vita privata e sull’arte. Un libro di agile lettura, adatto a tutti, per cercare notizie e riscontri.
Daniele Salvoldi (1982) ha ottenuto un dottorato di ricerca in Egittologia presso l’Università di Pisa (2011) con una tesi sul viaggiatore ed epigrafista Alessandro Ricci (1792-1834), pubblicata dall’American University in Cairo Press (2018). Dal 2014 al 2016 è stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Storia Antica della Freie Universität Berlin, lavorando a un GIS storico della Nubia. Dal 2016 insegna storia dell’Architettura Antica e Classica presso l’Arab Academy for Science, Technology and Maritime Transport al Cairo e ad Alessandria. Il suo campo di specializzazione sono la fine del Nuovo Regno egiziano, la storia dell’Egittologia e gli archivi egittologici. Nella collana Historica papebacks, per Arkadia Editore, ha pubblicato L’Egitto romano. Da Augusto a Diocleziano (2016).
In copertina: sezione della tavola 3 del Papiro di Ani
, una versione del Libro dei Morti
(XIX dinastia).
© 2020
arkadia editore
Collana Historica Paperbacks
19
diretta da Gabriele Colombini
Prima edizione digitale novembre
2020
isbn
978
88 68513 10 8
arkadia editore
09125
Cagliari – Viale Bonaria
98
tel.
0706848663
– fax
0705436280
www.arkadiaeditore.it
info@arkadiaeditore.it
Introduzione
Non c’è forse icona più famosa al mondo della maschera d’oro di Tutankhamon: immediatamente riconoscibile, essa compare praticamente ovunque l’Egitto antico sia coinvolto. Il potere comunicativo di questa immagine è un testimone eloquente della fascinazione profonda, ma a volte disinformata, di tutto ciò che è faraonico. Pochissimi sanno, infatti, che un recente studio ha dimostrato come la maschera non rappresentasse affatto Tutankhamon. Originariamente realizzata per una regina regnante che lo precedette o affiancò sul trono per pochi anni, essa venne adattata e riutilizzata per la sepoltura del giovane re intorno al 1324 a.C. (cfr. Capitolo V, paragrafo 6).
Negli ultimi vent’anni, la conoscenza scientifica dell’Egitto antico è progredita molto, ma non sempre il materiale disponibile, sia stampato sia offerto in televisione, si è dimostrato particolarmente aggiornato. Certi cliché sono duri a morire, spesso ci vogliono anni persino fra i circoli accademici perché una certa interpretazione trovi piede. Eppure rendere immediatamente disponibili al grande pubblico le novità del loro campo di ricerca dovrebbe essere un dovere primario degli studiosi. Molto spesso, invece, non si va al di là dell’annuncio di una scoperta, ripreso quasi sempre in maniera sensazionalistica e inaccurata dagli organi di stampa, e che si perde poi nella massa di notizie a cui siamo esposti quotidianamente. Questa è una piaga che, a dire il vero, affligge tutte le discipline storico-archeologiche. Quando lavoravo a un piccolo scavo archeologico in provincia di Bergamo – un cimitero post-medievale vicino a una bella chiesa quattrocentesca – le domande dei passanti erano sempre: «Hai trovato l’oro?» Discutendo con una collega antropologa è emerso come il ritrovamento di uno scheletro in contesto archeologico venga invariabilmente salutato dalla stampa locale come «il corpo di un giovane soldato della Seconda guerra mondiale» o «una vittima della peste del Manzoni».
Con i tagli governativi alle spese nel settore universitario e culturale, un’effettiva campagna di marketing della cultura è diventata parte della strategia necessaria per assicurarsi i mezzi adatti a continuare il lavoro e, in sostanza, a fornire un servizio. L’interesse della stampa è a volte una scocciatura, ma in molti casi bisogna essere riconoscenti che l’opinione pubblica mostri interesse verso il lavoro degli specialisti. Fortunatamente, negli ultimi tempi sono nati molti blog scientifici curati da una nuova generazione di esperti del settore e quasi ogni missione archeologica ha oggi un sito ufficiale con diari di scavo aggiornati all’ultima settimana. Curatori di musei e giovani ricercatori hanno account Twitter o Instagram molto attivi e vi sono parecchie pagine Facebook nelle mani di persone con un adeguato background scientifico, pronte a condividere i propri interessi e a guidare le utenze meno esperte.
Molte cose sono recentemente cambiate nell’egittologia, la disciplina che si occupa dell’antico Egitto. Il grande numero di missioni archeologiche impegnate in Egitto (venti solo quelle italiane)¹ e Sudan, ora attive anche in zone periferiche, ha enormemente arricchito le nostre conoscenze: non passa giorno senza che venga scoperto qualcosa di nuovo². La ricca messe di dati archeologici ha permesso la creazione di nuove seriazioni cronologiche: per esempio l’analisi dettagliata del cambiamento di forme, motivi e colori dei sarcofagi aiuta a datare i contesti in cui sono stati trovati. Lo scavo intensivo dei siti urbani a Elefantina, Amarna, Menfi, Tell al-Dab’a e Qantir ha consentito una migliore comprensione della città nell’antico Egitto e dei suoi abitanti. Studi di ermeneutica e semiotica nel settore della storia dell’arte hanno evidenziato l’amore degli antichi egiziani per i giochi di parole visivi e ci avvertono di non prendere troppo letteralmente le raffigurazioni sulle pareti di templi e tombe. Altri studi condotti nei musei, sugli oggetti antichi e sui papiri e gli ostraka (schegge di ceramica usate come supporto per la scrittura), e negli archivi egittologici – contenenti resoconti di viaggio, lettere, mappe, acquerelli, vecchie fotografie – hanno permesso enormi passi avanti nella disciplina. Nuove tecnologie hanno inoltre fornito dati prima inaccessibili; per esempio i laser-scanner nelle tombe e nei templi permettono di avere accurate immagini 3D degli edifici, analizzare le superfici, monitorare l’inevitabile degrado, offrire un modello navigabile a fini didattici. L’informatica umanistica ha creato nuove dimensioni della ricerca, analisi e divulgazione del mondo antico fra GIS, edizioni di testi e banche dati. Prospezioni geofisiche, telerilevamento satellitare, georadar-3D hanno rivoluzionato il modo di condurre studi topografici. L’uso della statistica bayesiana applicata alla datazione al carbonio-14 ha aperto nuove aree di ricerca nel settore della cronologia. Analisi scientifiche su mummie umane e animali permettono di avere dati sul genere, i rapporti familiari, le abitudini sociali e le malattie senza nemmeno sbendare i cadaveri. Persino l’archeologia sperimentale ha portato a grandi risultati: il documentario realizzato nel 2011 da Joann Fletcher dell’Università di York per Blink/Channel 4/Discovery, Mummifying Alan: Egypt’s Last Secret (‘Mummificando Alan: l’ultimo segreto egiziano’), è un raro caso di felice cooperazione fra scienza e media. Il film ha dimostrato come gli antichi egiziani non mummificassero i propri cadaveri semplicemente lasciandoli nel natron solido per decine di giorni, ma che li immergessero del tutto in una soluzione di acqua e natron (solo in questo modo si spiegherebbero i cristalli di natron penetrati all’interno dei corpi mummificati).
Assieme alle tecnologie, sono recentemente emersi nuovi approcci teoretici: l’egittologia si accompagna sempre più spesso all’antropologia culturale, all’archeologia comunitaria e di genere, a una consapevolezza maggiore dei rischi dell’adozione di un punto di vista orientalista e razzista, fino a veri e propri tentativi di decolonizzazione della disciplina. Storie dell’antico Egitto diventano ora sempre più femministe, attente alle minoranze o alle disabilità. Vengono contemporaneamente scritte anche le prime storie della disciplina egittologica, che permettono una riflessione sugli errori del passato e sulle limitazioni culturali delle interpretazioni storiografiche. Un nuovo lessico scientifico più appropriato sostituisce etichette obsolete e fuorvianti, per esempio nella tendenza a citare nomi in una trascrizione più fedele alla lingua antica piuttosto che nella forma trasmessa dai testi greci (Khufu al posto di Cheope; Psamtik invece di Psammetico) o l’introduzione di categorie concettuali come identità, comunità, performatività/agenzia, memoria culturale.
Gli enormi sviluppi della disciplina appena elencati giustificano la necessità di un aggiornamento, di un breve punto della situazione che fissi le nuove (poche) certezze e illustri il dibattito attorno ad alcuni temi caldi. Questo volume vuole perciò essere un tentativo di fornire una piccola guida aggiornata all’antico Egitto, interessata a evidenziare le novità e a smascherare i luoghi comuni. Nella maggior parte dei casi è impossibile non schierarsi, mentre la differente sensibilità degli autori è la stessa ragion d’essere di questo ennesimo volume sull’argomento: le diverse epoche sono trattate a diverse velocità, ora in base alle informazioni disponibili ora in base agli interessi e alle conoscenze di chi scrive. Attingendo prevalentemente a bibliografia in inglese, francese e tedesco, vuole anche offrire al lettore in lingua italiana accesso a studi che non sono ancora e forse non saranno mai tradotti in Italia. È difficile scrivere una storia che condensi migliaia di anni senza finire per ridurla a liste di re, date, elenchi di edifici eretti, prosopografie con nomi astrusi, campagne militari. Nella consapevolezza di questa limitazione, il presente libro rimane comunque una storia cronologica e per fatti, più che una storia culturale o sociale dell’antico Egitto. Certo, il rischio di pretendere di offrire un aggiornamento è che esso diventi obsoleto nel momento stesso in cui viene dato alle stampe. È inevitabile, ma resta comunque un passo avanti nella necessaria divulgazione del sapere scientifico.
Devo un sentito ringraziamento a Gabriele Colombini, che dirige la collana Historica Paperbacks di Arkadia, per la sua incredibile pazienza. Ai colleghi Arnaud Quertinmont, Georgia (Zeta) Xekalaki, Katharina Zinn, Caterina (Kate van) Minniti, Andrea Pillon, Aidan Dodson, Steve Harvey, Valérie Angenot, Abdelrahman Medhat, Anna Stevens, Mina Megalla, Carolin Johansson e Massimiliano Franci sono grato per le loro generose opinioni sui progressi della disciplina negli ultimi vent’anni.
I
La Preistoria
1. Cacciata dall’Eden
L’origine profonda della civiltà egizia va ricercata nei deserti che fiancheggiano la Valle del Nilo¹. Le prime tracce di presenza umana risalgono a 500.000 anni prima del presente, e sono costituite esclusivamente da oggetti in pietra scheggiata. Nessun insediamento né resto umano è associato a questi materiali, per cui pochissimo si sa di questa fase, se non che l’industria litica (cioè della lavorazione della pietra) si inserisce perfettamente nella famiglia culturale dell’Olocene.
Per avere tracce di strutture o resti umani bisogna aspettare il Paleolitico superiore (70.000-25.000 prima del presente) e più chiaramente il Paleolitico inferiore (24.000-10.000) dove si trovano le prime sepolture. Si tratta di comunità molto piccole, composte da singole famiglie di cacciatori e raccoglitori, che scorrevano senza sosta la regione alla ricerca di cacciagione e frutta. A partire dal Paleolitico si assisté tuttavia alla progressiva desertificazione di un territorio fino ad allora lussureggiante e ricco di fauna. Intorno al 30.000, e in maniera più significativa a partire dall’8000 prima del presente, i gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi si spostarono sempre più verso il corso del fiume, dove lasciarono traccia di sé nell’industria litica e nell’arte rupestre.
La transizione da un’economia di caccia e raccolta a una basata su agricoltura e allevamento segna convenzionalmente il passaggio dal Paleolitico al Neolitico, ma non si tratta in alcun modo di un passaggio lineare e univoco: qui e ora. Come questa transizione sia avvenuta in Egitto non è nemmeno del tutto chiaro, perché i resti archeologici sono troppo scarsi e troppo distanti fra loro nel tempo e nello spazio. Comunque, intorno al settimo millennio a.C. si intravedono le prime tracce di addomesticazione del bestiame, mentre circa duemila anni più tardi si ha l’introduzione dal Vicino Oriente della coltura del farro e dell’orzo a sei file. È importante sottolineare però che la coltivazione dei cereali non soppiantò subito e completamente le altre forme di sussistenza né si accompagnò necessariamente alla stanzialità. Per diversi secoli dopo l’introduzione dei cereali infatti, le popolazioni della Valle del Nilo continuarono a praticare un’economia mista, fatta di caccia, raccolta, semina stagionale e allevamento. Bisogna anche considerare che l’introduzione dell’agricoltura in Egitto avvenne a ritmi diversi nelle diverse aree della Valle e del Delta del Nilo. Il cacciatore abbandonò forse con diffidenza il proprio arco per imbracciare la zappa: ci vollero secoli per adattarsi ai ritmi della semina e della raccolta, per sincronizzarsi con la piena del Nilo, per imparare a immagazzinare i cereali per la semina dell’anno successivo e per il consumo, lottando contro parassiti e muffe, persino per cucinare i cereali in modo appetibile.
Nei pressi del Lago Qarun, nell’oasi del Fayyum, intorno al 6500-6200 prima del presente i gruppi di cacciatori-raccoglitori praticavano ancora un’economia mista, alternando caccia e raccolta a pesca e agricoltura stagionale, in particolare favorita dalle piogge mediterranee. Queste popolazioni, contrariamente a quanto pensato fino a poco fa, non erano dunque ancora completamente stanziali, nonostante si dedicassero già alla coltura dei cereali.
Il passaggio da cacciatori-raccoglitori a contadini e allevatori, che viene in genere associato alla costruzione di strutture permanenti e alla produzione della ceramica, potrebbe essere stato indotto da influenze provenienti dal Vicino Oriente. In effetti, i primi siti neolitici in Egitto condividono alcune caratteristiche con i loro gemelli nel Levante: la coltivazione di certi specifici cereali e in particolare l’allevamento di pecore e capre non autoctoni. I contatti fra le prime culture neolitiche egiziane non si limitarono solo al Vicino Oriente, ma anche alle altre culture africane nei deserti e più a monte lungo la Valle del Nilo. Insomma, era in piedi una vera e propria rete culturale preistorica e i contatti fra aree anche lontane erano più frequenti di quanto non siamo disposti a immaginare.
All’inizio del Neolitico, intorno al 5300 a.C., ed in seguito a un ulteriore inaridimento climatico causato dallo spostamento a sud della cintura del monsone, le popolazioni egiziane si mossero ancora più vicine al Nilo e si dedicarono più spesso ad attività di pastorizia. Superata la diffidenza iniziale, divenne sempre più evidente che sfruttare i verdi pascoli e le ampie zone irrigate naturalmente dal Nilo aveva i suoi bei vantaggi. Una volta ammaestrati i cicli delle stagioni e della riproduzione animale, agricoltura e allevamento si rivelarono fonti di nutrimento stabili e affidabili. Le favorevoli condizioni ambientali causarono un lento e graduale incremento della popolazione, che a sua volta portò all’ingrandimento degli insediamenti e a importanti cambiamenti nella società: nuclei familiari di stampo probabilmente tribale si trasformarono in comunità via via più complesse, con una crescente stratificazione sociale e il timido emergere di élite, anche se non ancora a livello stabile.
Intorno al 4600-4100 a.C. siti nel nord dell’Egitto come Merimde Beni Salama, Sais e al-‘Umari rappresentano i primi insediamenti pienamente sviluppati. Qui appaiono popolazioni pienamente sedentarie, con una società ancora