L'impero dei popoli del mare
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Anteprima del libro
L'impero dei popoli del mare - Valeria Putzu
Valeria Putzu
L’impero dei popoli del mare
Prima Edizione - novembre 2018
ISBN 978-8868511869
© arkadia editore
Prefazione
Cos’è la storia? Secondo l’Enciclopedia Treccani essa è una «esposizione ordinata di fatti e avvenimenti umani del passato, quali risultano da un’indagine critica volta ad accertare sia la verità di essi, sia le connessioni reciproche per cui è lecito riconoscere in essi un’unità di sviluppo».
L’indagine critica, quindi, sarebbe la base per addivenire a connessioni di fatti che rappresenterebbero un quadro attendibile di quanto potrebbe essere accaduto in passato.
I pittori di questa opera che descrive il cammino del genere umano su questo pianeta sono, in genere, accademici che appartengono a discipline diverse: storici, archeologi, antropologi, genetisti, chimici. Occasionalmente, in questo quadro istituzionalmente protetto
s’inseriscono degli studiosi indipendenti che, nonostante la chiusura pressoché ermetica e la critica feroce, tentano di proporre una visione alternativa della storia. È il caso di Heinrich Schliemann, un imprenditore tedesco al quale dobbiamo la scoperta dell’antica città di Troia in un periodo storico in cui tutti credevano che si trattasse solo di un parto di fantasia piuttosto che di una vera città esistita in un lontano passato. Oppure dei maestri che hanno consentito a Jean François Champollion di giungere alla decifrazione dei misteriosi geroglifici egizi, fino ad allora ritenuti dei segni di carattere ornamentale. Anche grazie alla tenacia di questi appassionati e alla loro capacità di continuare ad affermare con forza le loro idee, oggi abbiamo una visione più chiara su fatti che, altrimenti, sarebbero ancora avvolti da una cortina di fumo.
Alcune storie
, in particolare, sono caratterizzate dal loro perpetuarsi nell’immaginario collettivo nonostante l’indagine critica concorra, nel tempo, a eroderne le basi scientifiche. È il caso, per esempio, della teoria "ex oriente lux", cioè dell’assunto secondo il quale la sapienza arriverebbe dall’Oriente, zona nella quale si sarebbe sviluppata la civiltà. In tutti i libri di scuola, infatti, si ripete che nella zona che oggi ospita l’Iraq si sia evoluta l’agricoltura e, in seguito, il primo embrione di società organizzata. L’uomo, dopo aver abbandonato il nomadismo e la caccia, avrebbe scoperto come coltivare la terra e, poi, avrebbe avuto bisogno di una sovrastruttura politica per vivere in una collettività ordinata. Questo modello si sarebbe successivamente spostato in Occidente, ma solo come copia di quanto già sperimentato in Oriente, matrice del destino di tutto il genere umano.
In realtà i fatti potrebbero essersi svolti in maniera del tutto differente.
Molti tasselli che oggi non trovano la loro giusta disposizione troverebbero collocazione se si facesse più attenzione agli indizi che troviamo nell’Occidente Europeo. Che non sarebbe, a dispetto di quanto raccontato finora, la semplice fotocopia di una società già sperimentata con successo altrove quanto, invece, il centro di irradiamento di una originalissima collettività fatta di persone sapienti, ingegnose e caparbie.
In questo testo, che l’autrice ha composto sulla scorta di elementi singolarissimi supportati da prove documentali, il lettore troverà la chiave che gli consentirà di vedere chiaramente e una volta per tutte il progetto di evoluzione della civiltà in Occidente e del perché questo sia da considerare del tutto indipendente dagli apporti provenienti dal vicino Oriente. In particolare, sarà ben evidente come le relazioni commerciali, la navigazione e l’organizzazione sociale abbiano caratterizzato l’Europa Occidentale fin dal tempo dei tempi e, comunque, ben prima di una supposta civilizzazione di importazione.
Inoltre, per l’ennesima volta e nonostante ciò non sia gradito agli occupanti delle torri d’avorio
del sapere, sarà palese il ruolo giocato nello sviluppo della civiltà occidentale dall’isola mediterranea della Sardegna, scrigno di preziose prove che adeguatamente comprese permetterebbero al puzzle confuso della storia di comporsi una volta per tutte.
Secondo la storiografia ufficiale, la navigazione, la scrittura, la conoscenza dei metalli, le scienze sarebbero state totalmente ignote agli antichi Sardi che si sarebbero dedicati unicamente alla pastorizia e alle guerre fratricide fino al provvidenziale intervento dei colonizzatori orientali prima e dei Romani dopo.
E ciò sebbene i Sardi costruissero già 3500 anni fa delle torri alte quasi trenta metri, praticamente dei grattacieli ante litteram.
L’evidente contraddizione insita nell’impossibilità di erigere edifici così complessi senza aver a disposizione conoscenze come l’astronomia, la capacità di redigere un progetto, di poter inviare messaggi scritti, e nonostante la maggior parte dei nuraghi abbia precisissimi orientamenti verso stelle, punti solstiziali o equinoziali, non ferma la frenetica opera demolitrice di cui è vittima una cultura così antica.
Questo libro cerca di apportare il suo granello di sabbia nell’opera immensa di abbattere i pregiudizi storici, mostrando come i Sardi conoscessero la matematica, la geometria, la trigonometria, l’astronomia, la metallurgia e la navigazione ben prima dell’arrivo dei civilizzatori orientali.
L’autrice spiegherà i motivi per cui moltissimi reperti sardi sono stati rinvenuti in diverse località d’Europa e del bacino del Mediterraneo, ricostruendo le esigenze di carattere commerciale, le modalità utilizzate per viaggiare, i percorsi e tutti i tipi di rotte utilizzate da questo grande e antico popolo.
E il lettore avrà la possibilità di valutare le prove che dimostreranno quando e come è nata la civiltà nel Mediterraneo occidentale: una matrice originale e ben più antica di quanto pensato finora, che avrebbe forgiato con la sua luce la storia di più di un continente.
Alessandra Murgia
1
Le scienze tradotte nella pietra
Indizi sulla conoscenza di astronomia, geometria, trigonometria
e matematica nelle incisioni della Sardegna e della Penisola Iberica
Fin dai primi anni di scuola, ci è stato insegnato che le scienze sarebbero sorte in Medio o Estremo Oriente, figlie di una cultura millenaria che aveva saputo, di pari passo con l’espandersi dell’agricoltura e della civilizzazione urbana, dotarsi di tutti quegli strumenti che avrebbero permesso la nascita di istituzioni politiche e sociali con le quali poter meglio governare ogni aspetto della vita quotidiana. Egizi e Sumeri, secondo le tesi classiche dell’Accademia sarebbero stati i primi a occuparsi di astronomia, osservando le stelle, i pianeti, i flussi e reflussi cosmici, connettendo tale loro ricerca non solo alla pratica ma anche all’afflato religioso insito in quei popoli; d’altra parte, sempre per l’Accademia, gli antichi Egizi si sarebbero cimentati con la matematica e la geometria, in uno studio che sarebbe certamente ritornato utile per comprendere non solo le proporzioni dei manufatti che andavano costruendo – pensiamo all’uso della sezione aurea nelle grandi piramidi – ma anche alla suddivisione dei fondi agricoli, al conteggio delle derrate prodotte e al loro stoccaggio. Gli Egizi, in questo caso, non erano solo impegnati a osservare le piene del Nilo, ma trovarono doveroso calcolare la portata dell’acqua, i limiti dell’esondazione, il fabbisogno di terra che sarebbe occorso per soddisfare la popolazione e le richieste della casta sacerdotale. Dunque, gli antichi abitatori delle regioni d’oriente, avrebbero studiato a fondo una serie di scienze che, in base alle ricostruzioni degli storici, sarebbero giunte in Occidente solo con i civilizzatori
Fenici, i quali le avrebbero trasmesse prima ai Greci e poi a quelle popolazioni via via incontrate durante il proprio percorso di espansione, introducendole anche nelle aree geografiche che sono oggetto di questo studio: la Sardegna e la Penisola Iberica.
Ma accadde realmente così? Quali sono le prove a sostegno di tale tesi? È possibile, invece, che matematica, astronomia, geometria fossero già diffusi presso antichi popoli che precedettero le civiltà mediorientali e quella egizia? Per rispondere a questa domanda occorre sicuramente fare riferimento alla vasta mole di reperti che, in passato come oggi, possono essere rinvenuti sia nell’antica Iberia sia in Sardegna. Insomma, le cosiddette conoscenze acquisite non convincono affatto, anche in virtù di quanto – anno dopo anno – emerge da scavi e ritrovamenti fortuiti.
Con il presente volume vogliamo addentrarci proprio in questo mare magnum di solleticanti ipotesi alternative, volte a dimostrare che la storia
raccontata non corrisponde affatto alla storia
reale. Per fare questo, però, occorrono prove e solidi dati scientifici. Abbiamo dunque cercato riscontri, compiuto analisi sul campo, cercato parallelismi e documenti
che fossero in grado di sostenere quanto di seguito esporremo.
In questa lunga cavalcata che porrà le basi per una nuova interpretazione degli eventi che hanno interessato da vicino la genesi e l’evolversi delle civiltà occidentali più antiche, focalizziamo subito l’attenzione su uno dei manufatti più caratteristici della Sardegna, la cui storia affonda nell’alba dei tempi. Parliamo delle pintadere, particolari oggetti che gli studiosi ritengono fossero utilizzati durante il periodo nuragico come stampi per la produzione del pane. Tale interpretazione, sempre secondo i ricercatori, sarebbe evidenziata dal fatto che numerose pintadere conservano evidenti segni di bruciatura. Tuttavia, chiunque conosca anche solo un poco le tecniche di panificazione potrebbe obiettare che un oggetto pesante, in pietra o ceramica, collocato sopra il pane in cottura ne impedirebbe la lievitazione. Dunque, andrebbe scartata l’ipotesi che le pintadere servissero a questo scopo. Ci si potrebbe chiedere, inoltre, quale poteva essere l’utilità di tale pratica, a meno che non si pensi a una panificazione di tipo rituale.
Ma se la produzione delle pintadere, come esposto succintamente, assolveva altri compiti, quali potevano essere? Per capire la natura di questi oggetti occorre analizzarli a fondo, sicuramente è utile interpretare attentamente i disegni che compongono ogni singolo manufatto, cercando di capire quale significato possedessero e perché, in molti casi, si sono riscontrati i segni di bruciature.
Prendiamo dunque in esame una tra le pintadere più conosciute e famose, ovvero quella rinvenuta presso il Nuraghe Santu Antine di Torralba – in provincia di Sassari, in Sardegna –, utilizzata anche come moderna espressione artistica in loghi e riproduzioni (figura 1). Nello specifico, si tratta di una pintadera di forma circolare, riccamente decorata con elementi geometrici, al centro della quale si trova un cerchio inscritto da cui partono cinque rette che dividono il manufatto in altrettante sezioni di forma triangolare. Ognuna di queste aree è occupata da una serie di linee disposte a v che corrono secondo direttrici parallele agli angoli compresi tra il centro della pintadera e i suoi vertici. Ora, a un primo sguardo, l’oggetto non avrebbe alcunché di sensazionale, a parte la sua struggente bellezza e la sua originalità. Aggiungiamo che manufatti simili sono diffusi anche presso altre culture preistoriche, come i Guanci delle Canarie, o quella di Cucuteni-Trypillian (che occupava le aree delle attuali Romania, Moldavia e Ucraina). Ma, a parte vaghe somiglianze e l’idea comune che servissero per marchiare
cibi rituali, il corpo o i tessuti, le pintadere sarde sono assai più complesse e ricche di dettagli. Nasce dunque il sospetto che la loro funzione fosse singolare così come singolare è la conformazione dell’oggetto.
Abbiamo detto che la pintadera in esame venne ritrovata nei pressi del Nuraghe Santu Antine di Torralba, i cui scavi vennero iniziati nel lontano 1935 dall’archeologo Taramelli e poi proseguirono – tra interruzioni e riprese – fino ad anni recenti. Nel suo complesso, quello di Santu Antine è considerato una delle principali strutture megalitiche dell’isola. In base ad alcuni calcoli l’altezza della torre centrale era compresa fra i 22 e i 24 metri (attualmente ne rimangono in piedi solo 17,5 metri), seconda in Sardegna solo a quella del Nuraghe Arrubiu di Orroli (compresa tra i 25 e i 30 metri). La datazione ufficiale presuppone una costruzione in tempi differenti, con l’erezione della torre centrale intorno al 1800 a.C. e aggiunte posteriori che arrivano fino al 1450 a.C. Intorno al nuraghe si sviluppò poi un villaggio.
Ora, la pintadera che stiamo esaminando potrebbe rivelarsi molto più di quanto finora ipotizzato se prendiamo in considerazione le mappe satellitari dell’area dell’Oristanese. Infatti, se ingrandissimo la pintadera e utilizzassimo come tangente un luogo dal nome assai simile, ovvero Terralba (distante circa 25 chilometri da Oristano), salterebbe subito all’occhio la presenza di un enorme circolo, facilmente identificabile perché assai meno arido delle zone limitrofe, del diametro di 14 chilometri e corrispondente al territorio del comune di Arborea.
L’area compresa dentro il circolo è attualmente in parte sommersa dal mare e di difficile individuazione se non grazie a prospezioni aree o, come in questo caso, satellitari (figura 2). La corrispondenza geometrica
tra quanto rileviamo nella pintadera e l’analisi del terreno non è perfetta, ma questo è dovuto, a nostro avviso, agli stravolgimenti operati nel secolo scorso, allorché parte delle aree in questione furono trasformate in risaie. Nonostante questi mutamenti, comunque, che pare abbiano cambiato un assetto millenario, ancora oggi si possono intuire le antiche divisioni, con particelle e fondi di piccole dimensioni, più o meno di superfice uguale, la cui disposizione segue un andamento parallelo secondo cinque differenti direzioni che si incontrano in un centro.
È possibile, dunque, che la pintadera di Santu Antine fosse una sorta di mappa dei fondi agricoli? È plausibile pensare che i segni geometrici non fossero casuali o artistici
e riproducessero, invece, la realtà delle divisioni fondiarie dell’area in questione? Si tratta di una coincidenza o ci troviamo di fronte a qualcosa di realmente rivoluzionario nell’interpretazione di un manufatto così misterioso?
Se si trattasse di una mera coincidenza sarebbe naturale fermarci in questo punto e non andare oltre. Tuttavia, spinti da questo primo risultato, abbiamo cercato altri riscontri prendendo in esame diverse pintadere sopravvissute alle temperie dei tempi e provando a collocarle in aree geografiche ben definite. Per fare questo occorreva riferirci a manufatti la cui provenienza fosse certa e ipotizzare una loro prospezione nel territorio di pertinenza o nelle vicinanze di questi. Così, esaminando la pintadera rinvenuta nel Nuraghe di Nuraxinieddu e posizionandola secondo i criteri descritti per quella di Santu Antine, la mappa satellitare ha rivelato aspetti rilevanti e, decisamente, interessanti. In questo caso le corrispondenze appaiono a prima vista anche maggiori rispetto alla precedente rilevazione. Riportando il disegno della pintadera direttamente sul territorio si evidenzia che circa l’80% delle linee geometriche del manufatto si rinvengono sulla superfice. Questa corrispondenza si riscontra sia nella parte interessata dalle linee concave, sia in quella in cui appaiono linee rette e circoli, in buona parte posizionate sopra antichi sentieri o nuclei abitati, alcuni dei quali scomparsi nel tempo (figura 3). Dunque, anche in questo caso, si tratterebbe di una sorta di mappa catastale della zona di Nuraxinieddu, riferita a quelli che dovevano essere i fondi agricoli pertinenti alla comunità. Ma, volendo essere puntigliosi, si potrebbe ipotizzare che si tratti di una ennesima coincidenza. Oppure dovremmo presupporre, da parte degli antichi abitatori di queste terre, una grande perizia nel riportare in un manufatto così piccolo i dettagli di un territorio così vasto, peraltro senza la possibilità di osservarlo comodamente dall’alto. A questo punto ci si potrebbe anche chiedere – posto che la nostra ipotesi sia valida – come potessero raggiungere un tal grado di precisione senza strumenti moderni per i rilievi topografici.
Ma andiamo oltre esaminando una terza pintadera in cui abbiamo notato – ancora una volta – esatta corrispondenza tra elementi geometrici riportati nel manufatto e il territorio di pertinenza. Parliamo della pintadera rinvenuta a Barumini durante gli scavi effettuati nel Nuraghe ’e Cresia, sotto Casa Zapata (figura 4). Purtroppo la pintadera non è stata pubblicata e dell’oggetto esiste solo una riproduzione in rete. Per la verità la conformazione di questa pintadera differisce dalle altre poiché sono rappresentati – al centro – tre circoli concentrici non perfettamente allineati e, quello di destra, leggermente più piccolo e decentrato rispetto agli altri due. Sopra e sotto i circoli si notano due file di quadratini, le file esterne composte di dodici riquadri, le file interne di tredici. Oltre le file di riquadri, in basso e in alto, si vedono delle linee oblique. Ora, come interpretare questa messe di dati geometrici
? A prima vista sarebbe difficile trovare elementi che dalla pintadera ci riportino sul territorio, se non fosse per quei piccoli cerchi concentrici che, a nostro avviso, equivalgono ai tre nuraghi di Barumini. Il primo, il celeberrimo Su Nuraxi – riportato alla luce dal padre dell’archeologia sarda, Giovanni Lilliu –, quadrilobato, cui segue – in perfetto allineamento – il Nuraghe ’e Cresia (sotto le fondamenta dell’antico palazzo baronale degli Zapata), al centro del paese. A queste due monumentali strutture se ne aggiunge, leggermente disassato, ossia decentrato rispetto a un’ipotetica linea retta, una terza, il Nuraghe Bruncu sa Giustizia, di minori dimensioni rispetto a Su Nuraxi e Nuraghe ’e Cresia. Le quadrettature sopra e sotto i cerchi concentrici corrispondono alle aree immediatamente a nord e a sud dei nuraghi, in cui si concentra – o si concentrava – l’attività agricola, mentre le aree esterne e meno fertili sono segnalate, a nostro avviso, con semplici linee oblique (figura 5).
La disposizione dei circoli della pintadera ricorda da vicino un’area geografica molto famosa, quella della piana di Gizah, in Egitto, in cui le piramidi di Cheope e Kefren – perfettamente allineate – sono seguite da un terzo edificio più piccolo degli altri, ossia la piramide di Micerino, decentrato rispetto alla retta su cui insistono le piramidi maggiori. Come sappiamo, vige l’ipotesi che la collocazione al suolo dei tre grandi manufatti egizi riproduca volutamente il posizionamento nel firmamento della Cintura di Orione in cui all’allineamento delle due stelle maggiori – Alnilam e Mintaka – segue una terza stella – Alnitak – più piccola e decentrata. A prescindere dalla sua valenza religiosa – componente imprescindibile della quotidianità di ogni civiltà del passato – la Cintura di Orione rivestiva un ruolo essenziale nel ciclo agricolo, andando a rappresentare il succedersi della morte e della rinascita degli elementi naturali, ciclo che aveva il proprio inizio in autunno e un suo termine in primavera, periodo di visibilità della costellazione. Poter determinare in modo