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L'incredibile storia dei faraoni
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E-book387 pagine5 ore

L'incredibile storia dei faraoni

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Info su questo ebook

Le vite straordinarie dei sovrani divini d'Egitto

I segreti di un'antica civiltà

Cheope, Ramses, Thutmosis: figli del dio o padroni assoluti della terra d’Egitto?

441 faraoni per una storia millenaria che va dal 2920 al 30 a.C.: è questa la portata di una civiltà complessa come quella dell’antico Egitto. Una fase lunghissima, che inizia con il cosiddetto Periodo Protodinastico e si conclude con la dinastia Tolemaica, proprio quella della famosa Cleopatra, corrispondente all’età romana. Ma chi erano realmente i faraoni? Quali erano le loro effettive mansioni, cosa sapeva di loro il popolo e cosa lasciavano conoscere di se stessi agli altri? Ritenuti divinità così sacre da non poter essere guardate in volto, che cosa facevano all’ombra dei loro giganteschi palazzi reali? Partendo dalle misteriose Liste Reali, conosceremo la vita e le opere di alcuni tra i 200 faraoni in esse menzionati. Dal faraone Narmer alla regina che fece battere il cuore ai Romani, si susseguono vicende personali mescolate a vicende storiche; periodi che videro avvicendarsi addirittura 70 faraoni in meno di 100 anni, a periodi di grande pace come quello del Nuovo Regno, epoca d’oro nella quale 15 sovrani provenienti da Tebe trasformarono letteralmente il volto dell’Egitto. Un viaggio nella storia lungo quasi 5000 anni, per immergerci in alcuni degli episodi più significativi della civiltà egizia e guardarli attraverso gli occhi dei veri protagonisti.

Dal Re Scorpione a Ramses II, passando per la controversa regina Hatshepsut

Hanno scritto di Cristiana Barandoni:

«Ci trasporta dalla preistoria al medioevo, dai cerchi solari alla Sacra Sindone in un viaggio denso, ricco e documentato.» 
Sette – Corriere della Sera

«La storia dei grandi enigmi irrisolti della Storia dell’Umanità scritta con un linguaggio accessibile e privo di complessità accademiche. Un vero e proprio invito al viaggio oltre che un modo per far appassionare il grande pubblico al mondo dell’archeologia.»
BBC History

«Rigorosa ma non accademica, restituisce al grande pubblico le più recenti scoperte dell’archeologia.»
Il Messaggero

«Una riflessione approfondita, condotta in tono non paludato, che restituisce al lettore l’interesse cullato da bambino per l’archeologia, liberandola dai fronzoli e dai luoghi comuni che ne accompagnano l’evoluzione.»
L’Unità
Cristiana Barandoni
Si è laureata in Archeologia classica a Pisa e Specializzata in Archeo-sismologia a Firenze. Sebbene sia un conservatore, nella vita di tutti i giorni si occupa di archeologia pubblica, social media e communication strategy per diversi musei e istituzioni culturali. Con la Newton Compton ha pubblicato I misteri dell’archeologia e L'incredibile storia dei faraoni.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2017
ISBN9788822713407
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    Anteprima del libro

    L'incredibile storia dei faraoni - Cristiana Barandoni

    Egitto e natura.

    Un binomio indissolubile

    La terra d’Egitto, fruttifera e matrigna assieme, fu da sempre benedetta dallo scorrere incessante e regolare del Nilo ma non conferì da subito al grande fiume un ruolo divino. Le evoluzioni geografiche comportarono significativi cambiamenti nell’approccio e nella relazione dei popoli con il fiume, fatti che ebbero come conseguenza la nascita di tradizioni e credenze così rilevanti da non essere mai più abbandonate. Se facciamo un viaggio indietro nel tempo, dobbiamo risalire almeno al 20.000 a.C. per comprendere quali furono le evoluzioni territoriali alle quali seguirono quasi immediatamente quelle culturali. In un’epoca così remota il grande fiume non era maestoso come lo conosciamo noi, bensì arido e caratterizzato da un’attività ridotta, situazione che durò fino al 12.000 a.C. circa quando gli affluenti dell’Africa equatoriale ripresero l’attività di alimentazione dei corsi più grandi. Lo studio dei sedimenti e dei paleo-alvei ha evidenziato come, attorno al 10.000 a.C., le piogge sulle montagne ripresero copiose, facilitando la confluenza delle acque del bacino principale, che cominciò a scavarsi un letto maestoso. Attorno e lungo il corso del fiume vennero così a formarsi zone microclimatiche che favorirono l’occupazione di gruppi di Homo sapiens sapiens. Una delle civiltà più note di questo periodo è quella di Nazlet Khater-4 (detta anche Esna E71, dal nome tecnico dell’area di scavo), che abitava queste zone già dal 30.000 a.C. come testimonierebbero alcuni rinvenimenti ossei (tra i quali il famoso Uomo di Nazlet Khater, uno scheletro umano completo, il più antico scheletro del Nord Africa appartenente alla specie Homo sapiens, la cui datazione al radiocarbonio fa risalire i resti al 35-30.000 a.C.); oltre ai reperti antropologici il sito ha restituito una gran quantità di oggetti databili al Paleolitico Superiore. Si tratta di strumenti molto modesti come raschiatoi, lame da taglio, bulini, oggetti che denunciano la presenza di comunità capaci di lavorare la pietra da epoche molto più remote di quelle che pensiamo.

    Risalgono invece all’epoca del Paleolitico finale, comunemente chiamato Magdaleniano, testimonianze provenienti dal Sudan, grande regione a sud dell’Egitto. A Jebel Sahaba¹, quasi sulla frontiera, si trova una grossa necropoli (cimitero 117) le cui sepolture sono distribuite in tre siti. La metà dei corpi in esse sepolti presenta inequivocabili segni di morti violente e soprattutto contestuali: gravi ferite furono causate da strumenti realizzati con pietre affilate e appuntite, forse lance o frecce. Le sepolture risalgono tutte a un periodo che va dal 12.000 all’11.000 a.C. e sono testimonianza di un’intera comunità letteralmente decimata: anche i corpi di donne e bambini non furono risparmiati. La vicenda si perde nelle sabbie della storia ed è ancora oggi poco chiara: ma come fu possibile un fatto di sangue così criminoso? Gli studiosi ovviamente replicano che era prassi quotidiana per le comunità preistoriche scontrarsi per motivi legati alla competizione territoriale. Quello però che non è chiaro è perché a un certo punto, in un territorio che abbondava di risorse come questo, si siano innescati contenziosi tali da sfociare in un episodio così violento. Forse ci fu un inatteso aumento demografico al quale le singole comunità non seppero far fronte se non invadendo territori già occupati; o forse il motivo scatenante fu, al contrario, proprio l’abbondanza di risorse, anche se apparentemente sembra un controsenso. Comunque, non bisogna scordare che in epoche tanto remote la legge del più forte prevaricava e, data una certa abbondanza di ritrovamenti simili, in regioni e contesti diversi accomunati però dalle stesse dinamiche insediative, dobbiamo pensare che episodi simili non fossero affatto sporadici. Centocinquanta corpi attendono ancora una risposta; recentemente una parte di questi scheletri è stata trasferita in Inghilterra per essere nuovamente analizzata: chissà se questa sarà l’occasione propizia per trovare la soluzione a questo mistero antico.

    La situazione lungo le rive del Nilo, a partire dal 10.000 a.C. in avanti, presenta un ripetersi quasi ciclico di fasi economiche legate allo sfruttamento delle piante spontanee, alternate a periodi in cui la sopravvivenza era legata alla caccia e alla pesca. Ne sono testimoni i numerosi attrezzi litici come gli arpioni di osso risalenti al 7000 a.C. recuperati durante gli scavi di alcuni siti archeologici. Questi ritrovamenti ci informano che gradualmente si verificò un passaggio dal nomadismo a culture più stabili, la cui economia era basata da una parte sullo sfruttamento dei cereali selvatici, come ad esempio il miglio, e dall’altra testimoniano attività legate alla pastorizia, come l’allevamento dei bovini. Il passare del tempo, le condizioni climatiche favorevoli e un ambiente sempre più produttivo furono positive occasioni per un estensivo cambiamento delle società che da tribali e nomadi divennero stanziali; si favorì così un processo di trasformazione e creazione di vere e proprie comunità che lentamente abbandonarono il deserto a favore della valle del Nilo. Il passo verso la comparsa di culture complesse come quella di Naqada fu breve: è difatti in queste vivaci combinazioni che affondano le radici della lenta distinzione tra le varie comunità che cominciarono, appunto, a contraddistinguersi, caso vuole, proprio in due aree geografiche diverse, quelle stesse aree che in epoca faraonica coincideranno con i due grandi regni: l’Alto e il Basso Egitto.

    Le prime comunità

    Per poter parlare di vere e proprie comunità lungo le rive del Nilo, luoghi da cui gli Egizi non si allontaneranno mai più, dobbiamo arrivare però al 5000 a.C. (poco meno di 3000 anni prima della costruzione della Grande Piramide). Nel giro di 5000 anni gli stanziamenti si trasformarono in veri e propri centri vitali, forti di una nuova, importantissima tecnologia: la lavorazione dei metalli.

    Sia chiaro che stiamo parlando della preistoria egizia, caratterizzata da una diversità culturale così ampia e screziata da impedirci di utilizzare gli stessi criteri per tutte le culture che in essa nacquero e si svilupparono. Queste comunità, però, divennero così complesse e particolari da segnare il passaggio tra la preistoria e la storia dell’Egitto. Ed è proprio su questo humus culturale che si svilupperanno alcuni dei nodi concettuali, anche artistici, caratterizzanti delle epoche successive: è adesso, a questo punto della Storia, che nacquero alcuni degli aspetti che più amiamo di questa civiltà. Uno per tutti, l’interesse per l’aspetto ultraterreno dell’esistenza, che gli Egizi alimentarono dimostrando una consapevolezza unica nella certezza che, una volta abbandonate le spoglie mortali, gli abitanti della Kemet avrebbero avuto accesso a un altro mondo. Come testimoniano le migliaia di tombe rinvenute a Naqada dal famoso egittologo inglese Flinders Petrie alla fine dell’Ottocento.

    Una parte dei reperti scavati a Naqada è oggi esposta nel museo a lui dedicato: il Petrie Museum of Egyptian Archaeology di Londra, sito all’interno dell’Università di Londra (UCL). Il Petrie è un museo universitario, istituito nel 1892 come risorsa didattica per il Dipartimento di Archeologia e Filologia Egiziana e vanta una collezione che supera gli 80.000 reperti, considerata una delle più insigni fuori dall’Egitto. La straordinarietà di questo museo universitario sta nella grande varietà di reperti che spaziano cronologicamente dalla preistoria, passando attraverso le grandi epoche faraoniche fino ai periodi più tardi, quello tolemaico, romano, copto e islamico. Fu proprio grazie all’instancabile opera di Petrie, ai suoi scavi ventennali e più, alla sua meticolosa opera di classificazione e di studio anche del più piccolo dei reperti recuperati (che altri avrebbero considerato insignificante), se oggi conosciamo una delle culture predinastiche più importanti dello sviluppo della civiltà egizia precedente la fase faraonica. Ma di Flinders Petrie, dei suoi primi anni di scavi in Egitto e anche dell’invenzione di uno straordinario sistema di classificazione della ceramica ancora oggi in uso vi parlerò più avanti…

    Abbiamo visto che quando la generale desertificazione spinse le numerose comunità a migrare a valle, queste diedero vita a una variegata collettività composta da decine di tribù, ognuna diversa dall’altra. Sparse in un territorio immenso, queste culture svilupparono caratteri molto diversi, differenziandosi sempre di più con il passare del tempo. La frammentarietà delle notizie relativa a queste prime fasi è stata uno dei motivi per i quali la civiltà dinastica ha preso il sopravvento ed è ancora oggi, sebbene sempre meno, una delle più studiate di sempre, forse di tutto il mondo antico. Ma se queste prime, piccole e semisconosciute comunità non si fossero poste in relazione l’una con l’altra, non avremmo avuto neppure quella che diede i natali a personaggi come Ramses. Tutto ebbe inizio da qui, dall’incrocio e dalla ricchezza degli scambi tra queste prime tribù, dall’innesco di relazioni umane in un territorio enorme, composto da luoghi tanto ameni quanto difficili da vivere. La valle del Nilo, come una grande madre, accolse e promosse il processo di relazione tra le culture divenendo culla di un fenomeno la cui portata, come la piena del Nilo, ebbe come conseguenza l’omogeneizzazione dello sviluppo successivo. La pluralità avviò un processo di maturazione culturale, politica ed economica; in realtà non esistono un prima e un dopo ma un continuum che fece da ponte tra le culture pastorali e quelle agricole con le loro abilità tecnologiche; le popolazioni sahariane con quelle nubiane, unite in un «percorso comune di trasmissione culturale», per usare le parole di Isabella Caneva².

    Come si arriva dunque, partendo da qui, all’affermazione di un potere unico, quello che oggi chiameremmo stato? Di sicuro un ruolo decisivo lo giocò il contatto sempre più stretto con la Mesopotamia a partire dalla fine del V millennio a.C. fino alla metà del IV, periodo che rappresenta una svolta notevole in Medio Oriente nella creazione del concetto di potere centralizzato. La necessità di dover organizzare la pluralità crescente di tradizioni e culture fu alla base di un meccanismo tanto veloce quanto efficace: ancora oggi stupisce in effetti la velocità con la quale fu abbattuto il periodo di transizione tra una terra popolata da migliaia di culture conviventi, a una retta da un potere fortemente centralizzato e potentemente accentratore. Fu l’inizio della creazione di un potere concettuale, che nel giro di duecento anni raccolse in sé punti focali della vita comunitaria: politica, religione, tradizione, storia, credenze, tutto confluì nel periodo storico denominato predinastico, cardine del passaggio tra la preistoria e la protostoria egizia.

    Questa spinta verso l’unitarietà è ben testimoniata anche dalla produzione ceramica, così come dalle prime costruzioni stabili. Il fine era chiaro: creare uno spazio comunitario fisicamente riconoscibile sul territorio, spazio che si trasformerà successivamente in città. Non possiamo farci meravigliare nell’apprendere la velocità con la quale tutto ciò accadde: pensiamo ad esempio alla formidabile cultura di el-Badari. La regione si trova nel moderno governatorato di Asyut, e in epoca predinastica era abitata da numerose comunità che ci hanno lasciato imponenti necropoli (el-Mammamia, el-Badari e Mostagedda ne sono un esempio).

    Questi stanziamenti raccontano la vita dei primissimi agricoltori le cui origini sono da rintracciarsi addirittura in Sudan, come farebbero pensare alcune lavorazioni ceramiche; i cimiteri però sono il vero specchio sociale: sappiamo che indossavano abiti di lino intrecciato a pelli e foglie, che portavano i capelli raccolti in trecce e che, oltre a essere abili agricoltori, avevano dimestichezza con l’allevamento, con la caccia e con la pesca. Si cibavano di cereali come l’orzo ma tra loro era diffusa anche la lenticchia. I cimiteri hanno restituito, oltre alla ceramica a bocca nera (l’orlo del vaso dipinto di nero e il resto rosso) anche delle figurine antropomorfe risalenti alla cultura di Naqada I (4000-3600 a.C.), finemente intagliate in prezioso avorio, bellissime e rarissime poiché ne esistono solo tre al mondo. Due di queste sono esposte in musei europei, una al British Museum di Londra e una al Louvre di Parigi, e raffigurano silhouette femminili con caratteri somatici e fisici volutamente marcati: grandi occhi spalancati, a volte decorati con pietre preziose come il lapislazzuli, seni generosi e organi genitali sottolineati con delicate tracce di colore. Le stesse statuine, a distanza di migliaia di anni, le ritroveremo durante l’Antico e il Medio Regno.

    I preziosi reperti figurativi di el-Badari non sono solo una rappresentazione delle idee legate alla vita dopo la morte, ma anche l’emblema di una rete commerciale attivissima già in un’epoca così remota: il lapislazzuli, utilizzato per decorare in alcuni casi gli occhi, poteva essere reperito solo in Afghanistan, distante migliaia di chilometri da Badari. Questi oggetti erano posti nelle sepolture, molto spesso maschili, da cui il nome concubine del defunto; in realtà gli studiosi suggeriscono che la loro funzione fosse piuttosto legata all’aspetto magico che era loro conferito, poiché rappresentavano sicuramente un augurio, un segno tangibile di pensieri che oggi sono spariti. Un messaggio che ben doveva adattarsi anche a tombe femminili e di bambini, come testimoniano altri ritrovamenti.

    Le statuine però non ci devono trarre in inganno facendoci pensare a sontuose sepolture con chissà quali tesori: i corpi venivano avvolti in stuoie di paglia o pelli di animali, circondati di oggetti personali come collanine, piccoli vasetti e perline. Se volete avere un’idea di come fosse una sepoltura egizia del IV millennio a.C. è sufficiente visitare due musei: il British Museum di Londra e il Museo Egizio di Torino. Qui sono ospitate due incredibili mummie naturali, osservabili da vicino in tutta la loro straordinaria bellezza. Quella di Torino (S.293), all’inizio del nuovo percorso di visita del museo, risale al 3700 a.C. ma la provenienza purtroppo è sconosciuta; entrò a far parte della collezione torinese grazie all’acquisto in Egitto da parte di Ernesto Schiaparelli nel 1900. La sepoltura, ricostruita in un secondo momento, è molto semplice: una fossa ovale nella quale il corpo oggi come allora era deposto; attorno una serie di oggetti che, sebbene non siano pertinenti a questa mummia, furono ritrovati in contesti simili. È di grande impatto emotivo trovarsi di fronte a questo corpo, la cui posizione fetale rivela forse che gli Egizi a quel tempo volevano già sfidare la morte, pensando di non andarsene per sempre ma di addormentarsi sul fianco sinistro, con le speranze e gli occhi rivolti verso il tramonto del sole. Anche la mummia del British (EA32751) – detta Ginger in onore di Ginger Rogers per via dei capelli ramati in ottimo stato di conservazione – ci racconta molto di sé. Risale al 3400 a.C. e fu scoperta agli inizi del XX secolo a Gebelein; qui nel 1896, Wallis Budge, l’allora direttore del Dipartimento di Antichità egiziane del British Museum, fu avvicinato da un residente locale il quale asseriva di aver trovato numerose sepolture con corredi e lo invitava ad andare a dare un’occhiata. L’uomo aveva ragione, e gli scavi iniziarono di lì a poco: furono riportati alla luce ben sei corpi (tre maschi adulti, un adolescente e una giovane donna) a Baḥr Bila Mâ, alle pendici orientali della collina più a nord di Gebelein³. Come nel caso torinese, anche Ginger⁴, maschio adulto, fu sepolto assieme ai suoi averi: vasi decorati, qualche catenina e piccoli contenitori.

    Tornando alle statuine delle concubine del defunto, esse sono i primissimi esempi di sculture tridimensionali che rappresentano un corpo umano; la ricercatezza delle linee e la ricchezza del materiale ci parlano di una comunità che di certo non è quella che si prefigura nell’immaginario collettivo quando si parla di preistoria. Purtroppo però le tracce materiali della vita quotidiana di coloro che le hanno realizzate sono andate perdute per sempre: come vivevano? Dove? Forse sono domande che non troveranno mai una risposta; quello che possiamo ipotizzare, però, è che vissero in capanne, più o meno elaborate, come testimonia il ritrovamento di ceppi di legno. Altro rebus da decifrare è la scoperta di grandi pozzi, forse un tempo usati come granai.

    Le sepolture di el-Badari, nonostante siano tutto quello che resta della fase preistorica egiziana (ve ne sono molte altre, ho inserito queste a titolo di esempio), sono un grande suggerimento che ci fa apprezzare e percepire il fervore di fondo che vivacizzava queste comunità e che contribuì alla loro graduale trasformazione in qualcosa di più strutturato e organico. Il Nilo, con la sua valle lunga oltre 7000 chilometri, è l’unico elemento unificatore poiché la parte a sud, il cosiddetto Alto Egitto – che trova il suo limite geografico ad Assuan, dove c’è l’ultima cataratta – era confinante con la Nubia. Questa è un’antica regione comprendente parte dell’Egitto meridionale e del Sudan settentrionale, che nonostante abbia fatto parte in alcuni periodi del regno d’Egitto, rimase sempre ben distinta sia culturalmente che geograficamente. Un territorio dunque esteso e pieno di sfaccettature, difficile da tenere unito in maniera uniforme; il Medio Egitto ad esempio restò sempre periferico rispetto alle grandi vicende storiche ad eccezione del periodo in cui Amarna divenne la capitale del regno di Akhenaton. Così come periferica rimase sempre l’area del Fayyum, nota prevalentemente in epoca tarda, grazie a Greci e Romani. Strano caso quello del Fayyum, se si pensa che proprio qua, nel lontano VI millennio a.C., sono attestati i primi esempi di agricoltura.

    Siamo solo all’inizio ma credo sia già abbastanza chiara la difficoltà dell’approccio alla storia egizia; insomma, si deve tenere conto di una pluralità incredibile di fattori se si vuole realmente capire quali furono i fenomeni socio-culturali che portarono alla nascita e allo sviluppo dell’Egitto più conosciuto, quello faraonico.

    Il Periodo Predinastico: Naqada e gli scavi di Flinders Petrie

    In epoca predinastica, nel 4000 a.C., ossia prima dei grandi re (e delle dinastie), sia in Alto che in Basso Egitto era in atto un delicato processo generalizzato di cambiamenti di natura economica e culturale. Cambiò il modo in cui si utilizzavano gli spazi delle comunità, così come cambiarono i luoghi, da modelli di vita in transumanza a situazioni di generale stanzialità. L’archeologia ci dice che esistevano vere e proprie comunità dedite all’agricoltura, beneficiate da un fiume che grazie all’abbondanza delle sue acque era un’inesauribile fonte di benessere, e richiamava a sé numerose comunità. Come stava accadendo nello stesso arco cronologico anche in Mesopotamia, ben presto si generò il surplus, l’abbondanza che diviene eccesso, al quale si comincia a pensare come strumento da utilizzare in relazione ad altre comunità. L’agricoltura garantiva in maniera quasi stabile di poter sfamare non solo gli stessi produttori e i loro nuclei famigliari bensì la collettività intera: accantonando ciò che avanzava si crearono vere e proprie riserve alimentari, da utilizzarsi in caso di necessità. Il surplus cominciò a diventare riserva per tempi difficili, fonte di reddito per la quale era necessario costruire un ricovero. I paesi lentamente cambiarono volto, e con essi i loro abitanti. Con l’aumento della produzione agricola si assiste a un aumento del potere redistributivo del capo e alla comparsa di ruoli di potere: la società si stratifica e il potere si centralizza.

    Il passo verso la soddisfazione di bisogni non solo primari fu repentino. Nacque il desiderio di soddisfare voglie e curiosità che mise in relazione più comunità, alcune delle quali lontane migliaia di chilometri ma il cui raggiungimento avrebbe consentito l’acquisto di beni di lusso, come le preziose pietre provenienti dall’Afghanistan. Fu così che probabilmente queste comunità cominciarono a ragionare in termini di valore di scambio (economico) dei beni che producevano. Non a caso in questo periodo prolifera la produzione di oggetti quali gioielli e palette per il trucco, alcune delle quali di una bellezza e maturità culturale quasi sconcertanti per l’epoca. Ancora una volta le necropoli ci aiutano a comprendere questo meccanismo avvolto nelle sabbie del tempo. Gli scavi di quelle di Naqada, il sito archeologico già menzionato, sono a dir poco illuminanti ma anche il Basso Egitto offre spunti di riflessione. E lo fa con una cultura tra le più significative per la storia egizia del IV millennio a.C.: quella di Buto-Ma’adi, nella regione del Fayyum, nel pieno centro del Delta.

    Nonostante venne gradualmente inglobata e forse anche sostituita da quella di Naqada (gli studi però sono ancora molto prudenti nel generalizzare questi processi, che si conoscono assai poco), Buto-Ma’adi è un chiaro esempio di come esistessero all’epoca numerose comunità locali con peculiarità uniche e ben distinte, più o meno forti, più o meno manifeste. Come Naqada, dalla quale però si distingue nettamente, anche questo sito suggerisce l’idea di un generalizzato sviluppo culturale nel quale coesistono e spiccano originalità locali; l’insediamento ha restituito oggetti probabilmente introdotti qui dalla Palestina, come grandi raschiatoi circolari e lunghe lame affilate. L’economia locale era basata sull’agricoltura, sull’allevamento e sulla pesca e gli strumenti domestici ritrovati durante gli scavi testimoniano un alto grado di specializzazione produttiva che favorì, assieme al commercio fluviale e carovaniero, un’articolata complessità sociale. Una curiosità: a Ma’adi è stato trovato il primo esempio in assoluto di scimmia addomesticata, che gli archeologi suppongono essere stata moneta di scambio con il Medio Oriente, introdotta qui come controvalore economico. Anche l’abbondanza di rame racconta di scambi addirittura con le miniere del Wadi Araba in Giordania. Il sito non smette di stupirci (cosa non lo fa in Egitto?), perché ha un’ulteriore peculiarità: ben due necropoli site a poca distanza dal centro abitato. Nella prima sono state scoperte 76 tombe, tutte solo ed esclusivamente di bambini, alcuni dei quali mai nati o nati morti, mentre nella seconda 15 delle 471 sepolture erano esclusivamente dedicate ad animali.

    Con questo esempio credo sia più facile capire che una società non avrebbe mai potuto relazionarsi a concetti come ad esempio la vita ultraterrena predisponendo sepolture diversificate se la sua comunità umana non avesse raggiunto un livello di complessità e consapevolezza superiore a quello che possiamo immaginare oggi. E non è solo una questione di come costruirono le tombe ma di come cominciarono a percepire il mondo, terreno e ultraterreno, e di quanto le loro idee trovassero poi riscontro nella sfera sociale.

    Possono questi indizi aiutarci nella comprensione di come si arrivò alla formazione dello stato? Che cosa contribuì in maniera significativa? Quali furono gli elementi che ne supportarono lo sviluppo? Sorprende pensare che ancora oggi quel delicatissimo processo sia ancora al vaglio degli studiosi. Tante, forse troppe sono le cose sulle quali non v’è certezza, anche perché, è bene ribadirlo sempre, l’archeologia da sola non può fornire una risposta univoca a tutto, ci mancherebbe! Gli interrogativi sono ben lungi dall’essere risolti, soprattutto quelli relativi alle dinamiche del cambiamento: successe tutto assieme? Quali ripercussioni ebbe? Partì da un solo contesto geografico o fu la somma di tanti motivi simultanei? Annose questioni per addetti ai lavori… Concentriamoci invece su ciò che possiamo stabilire senza troppi indugi. Una delle teorie più diffuse è quella che sostiene un graduale passaggio dalle piccole comunità a entità strutturate di natura agricola, che col tempo si trasformarono in veri e propri centri urbani; un ulteriore passaggio evolutivo avrebbe creato poi la città-stato, che a sua volta avrebbe generato lo stato vero e proprio. Culture importanti come Naqada e Abido, secondo l’egittologo Barry Kemp⁵, avrebbero dato origine al primo stato nell’Alto Egitto, unendo territori sparsi sotto un’unica guida, passando così di fatto ad avere una forma di governo caratterizzata da identità politica autonoma. Città e villaggi che prima erano indipendenti strinsero alleanze, unendosi sotto l’egida di un unico capo, dando l’esempio ad altri che seguirono a ruota. Il grande vantaggio era che uniti, questi insediamenti, diventavano molto più competitivi e forti nei confronti di chi preferiva restare autonomo; se pensiamo al moltiplicarsi di questi processi e alla complessità nella loro gestione, possiamo facilmente renderci conto anche del perché a un certo punto solo i più forti prevalsero, inglobando tutti gli altri. Ma è Naqada, come abbiamo più volte sottolineato, che può rappresentare la vera e propria culla della civiltà egizia: simbolo per eccellenza del meccanismo storico e sociale che trasformò la terra dei faraoni in uno dei regni antichi più longevi in assoluto, può essere dunque presa ad esempio. La cultura di Naqada si sviluppò intorno al 4000 a.C. nell’Egitto meridionale ed è considerata la più rilevante del periodo predinastico. Le sue tracce, grazie alla differente situazione climatica, sono più estese e manifeste di quelle rilevate nel Delta per la cultura di Buto-Ma’adi, della quale l’alta percentuale di acqua nei terreni (una grossa parte sono depositi alluvionali) ha col tempo fatto sparire anche le impronte più marcate. Di Naqada gli studiosi hanno identificato le principali fasi evolutive, caratterizzate da attributi culturali ben identificabili. Il periodo nel suo complesso, diviso in tre fasi e comunemente definito Periodo Predinastico (ossia prima delle dinastie), è strutturato come segue:

    1. Naqada I o cultura Amraziana (da El-Ahmra): dal 4000 al 3500 a.C.

    2. Naqada II o cultura Gerzeana (da Gerzeh): dal 3650 al 3300 a.C. circa.

    3. Naqada III concluse cronologicamente il IV millennio ed è la fase più nota e meglio documentata. A sua volta viene divisa in 4 fasi: IIIa, IIIb, IIIc e IIId.

    Per motivi di spazio non analizzeremo le fasi più antiche ma ci concentreremo sull’ultima poiché è proprio qui che vide la luce la cosiddetta Dinastia 0, quella dei sovrani in gran parte sconosciuti che precedettero colui che fu ritenuto il primo faraone d’Egitto: Narmer. Possiamo però riassumere ciò che accadde su larga scala. Il primo e più evidente cambiamento si evidenziò nello stile di vita che da nomade divenne sedentario, con una ricchezza derivata dallo sfruttamento delle risorse locali (flora e fauna) e da una notevole specializzazione nell’allevamento del bestiame. Le differenze sociali cominciarono a farsi più nette e a rispecchiarsi anche nelle tombe, all’inizio molto semplici e poi via via sempre più strutturate. Nasce in quest’epoca l’affermazione della persona in quanto tale, come colui o colei che ricopre un ruolo socialmente riconosciuto. Nei centri abitati le attività divennero ulteriore strumento di differenziazione sociale dando il via alla specializzazione dei mestieri; una fra tutte, la capacità di lavorazione delle pietre dure e dei materiali lapidei, che cominciano a circolare con insistenza e spesso provengono da zone molto lontane. La competenza nella scelta e nella lavorazione di questi materiali, i cui fulgidi esempi sono le tavolette da trucco (vedremo in particolare la descrizione di quella appartenuta al primo faraone d’Egitto), creò l’offerta e la richiesta di oggetti che col trascorrere del tempo assumevano su di sé significati simbolici e rituali. Appaiono in quest’epoca le teste di mazza, uno dei massimi simboli di potere, così come si diffonde la lavorazione di oro e argento. Naqada diviene uno dei centri più noti, come testimonia il suo antico nome: Nubt, città dell’oro.

    Il sito di Naqada si trova a una trentina di chilometri a nord dell’odierna Luxor; si trattava di un complesso territoriale composto dalla città principale – da cui il nome alla cultura derivante –, da diverse necropoli e da una serie di insediamenti sulla riva occidentale del Nilo. Flinders Petrie scavò alcuni insediamenti noti come Città Settentrionale e Città Meridionale, formati da capanne (sono rimaste le buche dei pali di fondazione) e da alcune strutture in parte realizzate con mattoni crudi, probabilmente dei magazzini (quei luoghi dove stoccare il surplus di cui abbiamo parlato in precedenza); e le tre necropoli, il cui numero di sepolture supera le 2200 unità. È interessante confrontare le complesse sepolture di Naqada con quelle di Buto-Ma’adi, poiché qui invece le tombe erano tutte uguali, così come una certa uniformità è da leggersi nelle tipologie di corredi funerari. A Naqada le cose sono ben diverse: nella necropoli più grande, quella a sud della città, le tombe più antiche fase Naqada I sono molto modeste sia nelle dimensioni che nel corredo mentre quelle della fase Naqada II cominciano a diversificarsi avendo al loro interno importanti collezioni di vasi; secondo alcuni, la Necropoli T potrebbe essere addirittura stata il cimitero dell’élite cittadina. Qui ben 69 sepolture dalle ampie dimensioni, alcune delle quali ritrovate quasi intatte dagli scopritori, custodivano al loro interno veri e propri tesoretti composti da preziosi gioielli lavorati, vasi finemente decorati (in una tomba ne furono rinvenuti addirittura 85!) e materie prime esotiche. Oltre alla qualità e alla quantità degli oggetti in esse deposti, anche la struttura delle tombe cominciò a cambiare: nella fase Naqada III le tombe più importanti furono realizzate con coperture in mattoni crudi e all’interno apparvero per la prima volta superfici decorate da nicchie, uno degli elementi che più spesso troveremo nelle sepolture egizie.

    Ma come e perché si giunse alla costruzione di necropoli così grandi? Potremmo ipotizzare che il riconoscimento sociale in vita portò inevitabilmente al bisogno di trovare un equivalente anche dopo morti. Il ruolo politico assieme a quello sociale dovettero essere una discriminante sostanziale che ben giustificherebbe l’opulenza di alcuni corredi funerari, così come la dimensione della tomba. Nonostante ciò nulla sappiamo del ruolo che il defunto svolse in vita. La deposizione dei corredi, che era avviata da tempo e non nasce con gli Egizi, potrebbe, in questa circostanza, essere indice di una riflessione legata alle aspettative ultime dell’uomo, su ciò che il defunto ad esempio si sarebbe trovato ad affrontare e/o svolgere una volta raggiunto il mondo ultraterreno. La disposizione delle sepolture nelle immediate vicinanze della città potrebbe essere segnale di non volersi allontanare mai del tutto dalla vita della comunità. Rimanere vicini alla città e alle strutture di potere significava, probabilmente, non separarsi mai definitivamente dallo status quo raggiunto in vita; alcuni studiosi vedono nella scelta di vicinanza un simbolico atto di invocazione del

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