Come volevasi dimostrare: Un grosso guaio per l'avvocato Lisbona
Di Livio Galla
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Anteprima del libro
Come volevasi dimostrare - Livio Galla
DIMOSTRARE
Un grosso guaio
per l'avvocato Lisbona
Capitolo uno
Per radersi a dovere ci vorrebbe una canzone, magari scelta la sera prima, inserita nel lettore cd vicino alla parte sinistra del letto, la mia. Mica sempre la stessa, no: parlo di un pezzo diverso a ogni risveglio, perché l’ansia che percepisci all’inizio della settimana necessita di sonorità tranquillizzanti; la musica del venerdì, invece, quella che precede la serata migliore della settimana, ti deve introdurre al week end con la giusta pressione.
Domani compio quarant’anni.
Ho ideato una festa sobria, senza eccessi. Ottanta invitati, menu di pesce, vino bianco friulano, cannoncini alla crema composti a piramide egizia e cementificati dalla glassa, il tutto accompagnato da una band di una dozzina di elementi.
Mia moglie avrà un tubino nero. Quasi tutte le donne della festa avranno un tubino nero. Non ho imposto un dress code, ma è assolutamente certo che le donne indosseranno tubini neri mentre gli uomini avranno pantaloni cachi e camicia bianca slim, rigorosamente fuori dai pantaloni. Non è colpa di nessuno. A quarant’anni ci si veste così: donne in tiro e uomini in relax.
Alla festa ci saranno parecchi avvocati. Li frequento assiduamente, i colleghi, forse perché riescono ad esprimere con pari enfasi ragione e sentimento. Molti di loro hanno una sensibilità artistica fuori dal comune: dipingono, suonano, scrivono poesie, recitano, cantano o compongono canzoni. Il tutto a dei livelli accettabilissimi, tanto da illuderli di avere una valida alternativa alla professione. Poi nessuno molla l’avvocatura perché i cantastorie continuano a morire di fame e le mogli separate a pretendere gli alimenti.
Trovo che alcuni di loro siano una inesauribile fonte di grandi insegnamenti. Altri gli insegnamenti te li chiedono, invece.
Alessandra è una di queste. Non passa settimana senza che mi consulti per ogni argomento le venga in mente. La sua continua necessità di riscontri rasenta la molestia, ma le va riconosciuto uno spiccato sentimento di riconoscenza che si manifesta ogni venerdì, quando arriva puntuale in studio alle cinque con un dolce sempre diverso. È in fissa con la pasticceria portoghese, meglio se elaborata nei conventi intorno a Lisbona. Si era sposata subito dopo la laurea, inseguendo l’amore del liceo e si era ritrovata a scimmiottare la moglie perfetta dividendosi tra la cucina e la pratica professionale. A trent’anni aveva aspettato il marito, brillante commerciante di auto tedesche, mentre rincasava per cena, ogni mese sempre più tardi. Dopo un anno e mezzo si erano dati appuntamento nel ristorante giapponese dove festeggiavano gli anniversari e avevano reciprocamente preso atto che a trent’anni avevano già abdicato alla parte divertente della loro vita. Si erano serenamente lasciati, tornando a vivere con i genitori. Da allora Alessandra tarda a elaborare la consapevolezza che l’adolescenza non può prolungarsi oltre i trentacinque anni senza diventare patetica.
Francesco invece non chiede mai. Lui sa. Lui vive sicuro. Sa anche di essere irresistibile, anche se non lo fa pesare. Vive frustrato nell’impossibilità di accoppiarsi con quasi tutte le donne del mondo, anche se lo consola il fatto che l’universo femminile continuerà a innamorarsi dei finti bastardi: gli uomini ipersensibili che si atteggiano da stronzi – loro malgrado – unicamente per tutelare la propria incolumità emotiva.
E poi naturalmente ci sarà Lisa, rivista dopo anni di adolescenza burrascosa e un matrimonio in bilico. Delusa da un uomo di dieci anni più vecchio, un artista mancato, mi aveva chiamato nell’ultimo mese almeno cinque volte perché risoluta a presentare le carte per la separazione. Lui beveva anche al mattino ed era diventato rivoltante alla vista e all’olfatto, diceva lei.
Capitolo due
Mi vesto, ché è ora di uscire. La mattina sarà assorbita da una vertenza di lavoro in cui mi ha coinvolto Alessandra, l’eterna adolescente.
Alessandra mi presenta Bizzotti, il titolare dell’azienda. Magro, brizzolato, sulla cinquantina orgogliosa, occhi cerulei. Il Bizzotti la bacia sulla guancia mentre le cinge la vita. Mentre elaboro il sospetto che i due se la intendano, Alessandra mi lancia uno sguardo imbarazzato. Ecco, ora ne ho la certezza.
Mi presentano agli avvocati milanesi con cui dovremo condividere la difesa. Il più anziano avrà settant’anni, e pure uno stomaco enorme fasciato da un doppiopetto gessato, grigio fumo di Londra. Il suo assistente ne avrà ventisei o poco più, con una tonalità della pelle che denuncia una certa affezione alle lampade UVA.
Il vecchio collega mi consegna il biglietto da visita. Lo guardo distrattamente prima di infilarmelo in tasca. Leggo Milan, London, Praha e una serie di soci col nome che suona tipo Fedro – Grimm & Andersen, ma non ci giurerei.
Ci sediamo attorno ad un tavolo ovale dove ci servono un orribile caffè tiepido.
«Allora, carissimo collega Lisbona». Eccolo. Ghigna: «Il dott. Bizzotti evidentemente non si fida di noi e ha voluto che lei e la sua graziosa collega ci affiancaste in queste vertenze. Immagino che l’abbiano avvertita».
Annuisco col capo. Lo so di avere una faccia scoglionatissima, ma il caffè non è che mi abbia giovato alla distensione dei lineamenti.
Continua a toccarsi la cravatta, il milanese, come se qualcuno gliela volesse rubare.
«Benissimo. Allora guardi: l’incontro di oggi è volto a cercare una soluzione alternativa alle vertenze. I sindacalisti sono quattro...»
«Come quattro? E quante sigle avete in azienda?»
«Ahimè tutte, caro il mio giovane collega, ma questo ora non conta nulla. Veda, tutti e quattro i lavoratori sono difesi da un solo sindacato. C’è il quartier generale della CGIL, di là».
Ammazza che onore.
«Abbiamo seguito noi tutto l’iter dei licenziamenti, direi che ci possiamo difendere egregiamente. Guardi, gli offriamo tre mensilità a testa e che si levino dai coglioni», tossisce l’anziano legale.
Rientra la ragazza dei caffè e annuncia sottovoce al Bizzotti che di là ci stanno aspettando tutti e che hanno chiesto di cominciare.
Mi alzo per primo, avrei bisogno di un caffè vero per combattere l’imminente calo di zuccheri. Magari anche di un cornetto croccante, con la crema morbida e non ancora assorbita dalla pasta.
Entriamo in una sala riunioni immensa. Tavolo in legno scurissimo da quaranta posti, schermo gigante, microfoni e carta da appunti a ogni postazione.
I quattro lavoratori ci guardano. Sono in tuta blu, forse perché si aspettano una reintegrazione immediata. I sindacalisti invece sono tutti in maglione. Due beige, ma con anzianità e infeltrimento diversi, uno verde; il più giovane ha azzardato un pervinca con scollo a V.
«Bizzotti, quattro avvocati hai portato. Perché invece non risparmi i soldi per i tuoi operai?» Il più anziano dei sindacalisti saluta così. Suona da copione, pensata troppo.
«Beh, siamo uno a testa. Non vedo esuberi». Rispondo tanto per far sentire la mia voce.
Segue un silenzio infinito, nel quale ognuno di noi si atteggia da comparsa in attesa di sentire la voce del regista, che tarda ad arrivare.
In queste riunioni la cosa essenziale è capire chi conduce i giochi, insomma il regista o il direttore d’orchestra. Il titolare non ha le competenze, i sindacalisti hanno impugnato per cui attendono una proposta, i milanesi meno parlano meglio è, Alessandra ha portato me apposta per non dover parlare. Rimango io. Appunto. Io.
Rompo il ghiaccio:
«Signori, buongiorno. Sono l’avvocato Sergio Lisbona e se siete d’accordo direi di andare subito al punto».
Sembrano d’accordo, visto che nessuno parla.
«Ho esaminato con attenzione l’incartamento che vi riguarda e ho parlato seppur brevemente con i colleghi codifensori dell’azienda. Devo dirvi con franchezza che mi pare che i licenziamenti di cui si discute oggi, ferma restando l’odiosità, ma anche la necessità del provvedimento espulsivo, siano supportati da solide motivazioni. L’azienda ha soppresso le figure professionali rivestite dai vostri assistiti, essendo state le loro mansioni assorbite dai colleghi di reparto, più anziani e più esperti, al fine di una rimodulazione dei settori dell’azienda più confacente alle nuove dinamiche di mercato che sempre più richiedono...»
«Lisbona, ma li hai visti questi?» Il sindacalista più anziano mi interrompe bruscamente, mi sventola dei fogli e poi me li lancia sul tavolo. Li prendo al volo e li esamino con simulato disinteresse. Sono quattro contratti di somministrazione. Mi vibra il cellulare con tempismo benedetto.
«Signori ho una conferenza telefonica con lo studio che non posso prorogare oltre. Mi date cinque minuti?» I lavoratori annuiscono. Gli sono simpatico oppure si stanno già godendo il mio futuro imbarazzo. Esco. Incrocio prima gli occhi del titolare e poi dei milanesi e impongo loro di seguirmi.
Siamo in piedi nella saletta di poco prima. Ho il telefono in mano, ma non ho alcuna intenzione di telefonare.
«Cosa significano quei contratti?»
«Nuove strategie, caro collega. Si ricorre massicciamente alla somministrazione».
«Non è che avete sostituito i licenziati con personale somministrato vero?»
«Carissimo, non vedo il problema. Sono dipendenti della società di somministrazione, mica nostri».
Butto il cellulare sul tavolo e mi tocco i capelli cercando invano di contenermi. Il titolare mi guarda spaventato. L’assistente abbronzato è raggiante. Sicuramente lui in cuor suo l’operazione della somministrazione l’avrebbe sconsigliata. Magari, lui, il diritto del lavoro l’ha pure studiato.
Alessandra mi si avvicina preoccupata.
«Che succede?»
«Succede che ce l’abbiamo nel culo».
Rientriamo nella sala immensa. I lavoratori sorridono. I sindacalisti sono gerbere a primavera, a parte il giovane in pullover pervinca. Lui continua a strofinarsi le mani. Il blocco degli appunti sembra ondulato, come se fosse stato inumidito.
La motivazione dei licenziamenti non regge. Non è vero che le mansioni sono state assorbite dagli operai anziani. Quelle attività sono state affidate a personale interinale. Il giudice ci farà a pezzi e questo gli amici che ho di fronte lo sanno benissimo.
Torno con lo sguardo al giovane sindacalista. È sudato. Non partecipa alla conversazione raggiante dei vincitori e continua a toccarsi il naso. Ha le pupille dilatate, muove le gambe in continuazione, tamburella le dita sul tavolo, ma ha i muscoli facciali testi e immobili. Col sudore della fronte e delle mani in continuo movimento sta inzuppando il blocco di fogli. Incrocia per un attimo lo sguardo con il mio, ma lo abbassa. Mi evita. Avrà una trentina d’anni, ma ha il viso da bambino con poca barba bionda e i capelli ricci da cherubino.
Bluffo. Non mi viene altro in mente. Con tono annoiato chiedo:
«Scusate, chi di voi ha curato le impugnazioni dei licenziamenti?»
Il licenziamento, se non ti sta bene, lo devi impugnare entro sessanta giorni da quando hai ricevuto la relativa lettera. Impugnarlo significa scrivere una raccomandata al datore di lavoro in cui dici «impugno il licenziamento». Devi però imbucare la lettera entro sessanta giorni, altrimenti decadi dalla possibilità di ottenere tutela dal giudice, come la reintegrazione o il risarcimento.
«Le impugnazioni le ha curate il Sandretti, promessa della scuderia sindacale veneta e sogno infranto delle operaie tutte». Risatine degli astanti.
Sandretti - il Pervinca - mi guarda. Ora vuole reggere lo sguardo a tutti i costi, ma lo tradiscono le mani mai ferme.
Scartabello le lettere di licenziamento. Tutte firmate per ricezione il 3 febbraio. Controllo le lettere di impugnazione della CGIL. Tutte con timbro del 4 aprile. Si son presi al sessantesimo giorno, ma ce l’hanno fatta. Forse si divertono a creare suspance.
Comincio ad agitarmi sulla sedia. Il più anziano dei sindacalisti mi sorride con gli occhi strizzati e mi chiede:
«Lisbona, altra telefonata?»
«Eh meglio, sì».
Il milanese mi squadra con disapprovazione. Esco senza guardare nessuno, cercando nella tasca della giacca le sigarette.
C’è. La soluzione c’è e sta tutta nel sudore del Pervinca. Ha sbagliato qualcosa nelle impugnazioni dei licenziamenti. Le lettere sono controfirmate dai lavoratori e quindi non c’è difetto dei poteri, i timbri della posta son leggibili e riportano la data del sessantesimo giorno utile. I giorni li avevamo già contati con Alessandra in macchina, tutti e sessanta quei maledetti giorni.
Gli orgasmi, se sei in piedi, li senti arrivare dalle cosce; se sei disteso, dalla pancia.
La soluzione, invece, me la sento arrivare dalla nuca, leggera come un soffio di vento, quando ormai ho lanciato il mozzicone in mezzo al parcheggio della fabbrica, per poi pentirmene quasi subito.
Rientro e chiedo alla ragazza mulatta di chiamare il titolare e gli avvocati per comunicazioni urgenti.
Mi siedo al tavolo della saletta nella quale un’ora fa è cominciata questa riunione surreale e mi allento il nodo della cravatta.
Uno a uno rientrano tutti, in silenzio e con espressioni preoccupatissime. Alessandra mi tocca un braccio temendo imminenti bollettini catastrofici, i milanesi sono visibilmente agitati, il titolare pende dalle mie labbra e ha le narici irritate da recenti inalazioni.
«Allora signori: sarò molto chiaro. La motivazione dei licenziamenti è saltata, visto che le mansioni dei licenziati non sono state assorbite dai compagni di reparto, bensì da personale interinale».
Bizzotti guarda l’anziano milanese con sguardo d’odio. L’altro fa finta di non vedere e continua a fissarmi.
«Questo significa che se la circostanza emerge nel corso del giudizio, cosa che mi sento di dare per certa, si perdono tutte e quattro le cause alla velocità della luce».
Alessandra si tocca la collana di perle e sembra sgranare il rosario.
«Tuttavia...»
Alessandra rialza gli occhi e mi guarda con il sorriso della speranza e gli occhi dell’ammirazione compiaciuta.
«… tuttavia va considerato che lo scorso anno abbiamo avuto uno tsunami, due terremoti e svariati lutti nel mondo della cultura e dello sport».
Mi guardano tutti con gli occhi sgranati.
«... un anno denso di sventure e lutti, come si addice...»
Sto tirando troppo la corda per i nervi degli astanti.
«... come si addice a un fottuto anno bisestile».
Due secondi di silenzio.
«Cazzo son decaduti!» Urla Alessandra saltando sulla sedia.
«Sissignori. Avevamo sbagliato i conti. I giorni per impugnare decorrevano a cavallo di febbraio, che l’anno scorso, in quanto bisestile, ne contava ovviamente ventinove».
Siamo tutti in piedi come quando si aspetta un rigore.
«Ciò significa che hanno impugnato il sessantunesimo giorno e che sono irrimediabilmente decaduti. Questo spiega il nervosismo del nostro giovane sindacalista dal maglione pervinca, che evidentemente non ha svelato l’errore ai colleghi presenti al tavolo».
Bizzotti è in piena erezione. Vorrebbe abbracciarmi e invece si sfoga dando un pugno vigoroso sul tavolo, accompagnato da una sonora bestemmia in idioma locale, che tutti fingiamo di non sentire.
Il lampadato mi sorride senza ritegno, esibendo una dentatura sbiancata artificialmente, che contrasta magnificamente con la pelle conciata. Il collega milanese più anziano abbassa lo sguardo e tamburella pensoso tre dita sul tavolo. Sembra che abbia qualcosa da aggiungere, ma non si fida o forse attende che sia scemato l’entusiasmo per gratificarci con una lucentissima perla d’esperienza forense.
Bizzotti sudatissimo e con la voce da guerriero ha sostanzialmente perso il controllo: «Ora li mettiamo in fila indiana e ce li inculiamo tutti, sindacalisti compresi».
«Piano, piano». Dico io.
«No!» fa il trippone milanese.
Almeno su una cosa siamo d’accordo
«Sentite» – proseguo – «anche se sono decaduti e non hanno alcuna speranza di vincere le cause, sempre che trovino un avvocato disposto a patrocinarle, far perdere la faccia ai rappresentanti sindacali è la cosa più idiota che si possa fare».
Bizzotti ha lo sguardo incredulo come se mi stessi esibendo cosparso di panna a un addio al nubilato.
«Considerate una premessa: i rapporti sindacali sono molto più vicini alla politica che al diritto. I sindacati non sono la controparte, ma gli interlocutori. Necessari peraltro. Se evitiamo di sputtanarli con i lavoratori, ci possiamo giocare il credito alla prossima occasione, dove magari non avremo la fortuna di oggi e la nostra posizione sarà traballante». Il milanese adesso mi sorride. La sua stima nei miei confronti rasenta l’erotismo.
«Lasciate che io parli a quattr’occhi col sindacalista più anziano e autorizzatemi a offrirgli comunque una minima indennità, a fronte dell’accettazione del licenziamento».
«Ma cazzo no, avvocato!» Bizzotti si gira, getta le chiavi dell’Audi sul tavolo e impreca a maglie larghe.
«Bizzotti, si fidi. Per lei sono pochi soldi e forse rappresentano un investimento per i futuri rapporti con le maestranze in questa azienda».
Il titolare scuote la testa, passeggia per la stanza fissando il pavimento.
Bizzotti cammina per qualche minuto, si ferma, alza la testa e mi fa un cenno di assenso sconsolato. I presenti nella sala riprendono a respirare.
Concludo il lavoro parlando col sindacalista spiritoso, lo avverto che il massimo che possono ricavarne è una sonora figura di merda e che non credo che la circostanza farà piacere ai vertici del sindacato.
Lui cambia espressione. Ci guardiamo per qualche secondo. Poi sta per dire qualcosa ma lo interrompo.
«Senti, io adesso ti salvo il culo, non dico niente agli operai che vi siete incappellati con la decadenza e concedo una mensilità a testa per rendere credibile l’accordo e voi tenete ben a mente che dovete un favore a Bizzotti».
«Questi ricatti te li puoi infilare dove preferisci».
Si gira verso gli altri sindacalisti. Continua senza nemmeno guardarmi.
«Devo parlarne con gli altri».
«Parlane con chi vuoi ma questo è il massimo. E ringrazia pure».
La riunione sindacale dura quattro minuti. Mi guardano tutti e mestamente cominciano a scrivere il verbale di accordo.
Sorrisi, strette di mano e caffè al bar, finalmente decente.