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Il Bacio Più Oscuro
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E-book322 pagine4 ore

Il Bacio Più Oscuro

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Info su questo ebook

Diviso in due parti secondo tematiche sovrapponibili, il libro narra dell’amore del narratore per Kathy, e della sua discesa nella paranoia.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita21 apr 2021
ISBN9781071597255
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    Anteprima del libro

    Il Bacio Più Oscuro - Jonathan Finch

    JONATHAN FINCH

    ––––––––

    TRADUTTRICE LIVIA ROMANO

    Dedica

    A Kathy, naturalmente, che mi ha detto: Ho sognato che mi costruivi una casa delle bambole, fatta di righelli – era molto ingegnosa.

    L’autore si scusa se il presente brano di narrativa dovesse mostrare delle somiglianze con la realtà o con persone viventi. Chi vedesse tali similitudini, è benvenuto a condividere i diritti d’autore, ma dovrà prima essergli riconosciuta l’infermità mentale.

    PARTE PRIMA – IL VIAGGIO INSIEME A BEN

    Capitolo Uno

    Come l’Autore Ottenne il Lavoro

    (Mettersi all’opera)

    Un giorno, subito dopo Pasqua, non avendo altro di meglio da fare nella vita, decisi di presentare domanda per un impiego da lavapavimenti in un condominio nei pressi del mio alloggio in affitto. Telefonai al numero opportuno, preso da un annuncio pubblicato su un giornale locale che sfogliavo tutti i giovedì mentre consumavo una colazione enorme. Consumo colazioni enormi regolarmente. Trovo che ciò alleggerisca la mia coscienza ‘economica’. Sento che così incremento le vendite di qualche ditta di cereali e aiuto la depressione economica a deprimersi un po’ di meno.

    Nessuno rispose alla mia chiamata. Insistetti e chiamai ancora. Drin. Drin. Stavolta una voce all’altro capo mi informò che stavo ascoltando un messaggio registrato e che avrei dovuto annotarmi le indicazioni qualora mi fossi ritenuto idoneo. Non essendo mai stato tipo da perdersi un’opportunità formativa (a quanto pareva erano necessarie delle capacità riassuntive), e anche un po’ sorpreso che a un annuncio di lavoro rispondesse una segreteria, posai il ricevitore e corsi a cercare una biro. Sapevo che ce n’era una in cucina, e rovistando sotto diversi pacchi di cereali depressi, riuscii infine a trovare proprio la penna che cercavo. Tornato al telefono, sollevai il ricevitore - che mi cadde e riafferrai in fretta - e mentre lo bloccavo con l’orecchio e la testa, udii quanto segue:

    ...e se desiderate riascoltare il messaggio registrato, vi preghiamo di ricomporre lo stesso numero. Ci auguriamo che verrete a trovarci per approfittare della nostra offerta. Grazie ancora per aver chiamato.

    Troppo tardi, troppo tardi. Imprecai diverse volte, invano. Scrissi persino uno degli insulti sul taccuino accanto al telefono – errore che mi portò a constatare che la penna non funzionava. Imprecai di nuovo rimestando l’aria mattutina con parole scurrili, tornai in cucina, spostai delle confezioni di zuppa a sinistra, dei pacchi di biscotti a destra, calpestai una zolletta di zucchero caduta e afferrai la matita che spuntò fuori, che risultò essere sbeccata. La cosa mi fece inveire di nuovo, ma la temperai e ritornai al telefono. Ora dov’è che era il numero? Lo avevo perso. Lo ritrovai e chiamai ancora, succhiando la mina temperata e tenendomi pronto a trascrivere qualunque cosa udissi, magari anche di più. Incredibile! Stavolta risposero subito, e una voce autoritaria fece, Sì? Parlava forte, e credetti di sentire qualcosa come ‘Picasso’, ma non ne fui sicuro. A ogni modo, dissi scioccamente, È un messaggio registrato?

    Che? proruppe la voce, un’eruzione di sdegno e incredulità. Sapevo di essere stato un’idiota, ma uno può forse rimangiarsi le parole, soprattutto se stupide, una volta che queste siano uscite dall’orifizio conosciuto come bocca? Io no di certo. Pensai anche che quello che avevo chiamato prima fosse il numero sbagliato, ecco perché avevo beccato un messaggio registrato. Balbettai. Mi scusai. Dissi che stavo chiamando per l’annuncio sul giornale locale.

    Se è così, disse la voce autoritaria in tutta la sua autorevolezza, perché sostieni che sono un messaggio?

    Non lo sostengo affatto, dissi.

    Sai con chi stai parlando?

    No, risposi il più umilmente possibile.

    La voce urlò, Stai parlando con Pikehassle!

    Ci fu un lungo silenzio interrotto soltanto dal mio, Oh.

    Sì, ecco chi è, disse la voce. E per quanto riguarda il lavoro, non è ben pagato. Noi Pikehassle siamo rinomati per la nostra franchezza, e a essere franchi il lavoro non è ben pagato. Assumiamo anziani in pensione che non hanno di meglio da fare nelle loro miserabili vite, li paghiamo quasi zero, e quelli non se ne lamentano perché se lo fanno, noi li denunciamo alle autorità, e allora devono pagare le tasse. Di conseguenza, no? Giusto? Tu sei un vecchio pensionato? Sii franco! urlò Pikehassle.

    Giusto, risposi.

    Parli cinese? fece lei.

    Mi riferivo al fatto che è di conseguenza, chiarii.

    Quanti anni hai, figliolo? chiese, facendosi interessata.

    Non potevo mentire. Mi aveva già chiamato figliolo. Le dissi che ne avevo venticinque.

    In realtà ho solo venticinque anni, Mrs. Pikehassle, dichiarai con una vocina piena di scuse reali, immaginarie ed eventuali.

    Venticinque! ruggì lei. Eccolo qui, un bell’impostore in linea al telefono! E perché mi hai chiamata, imbroglione, e cosa diavolo era quell’idiozia riguardo al messaggio registrato?

    Sì, mi scuso per quello, dissi. Credo di poterglielo spiegare, se volesse concedermi un colloquio. Le giustificazioni sembravano all’ordine del giorno. Trattenni il fiato, sperando che la formidabile signora all’altro capo della linea si ammorbidisse un po’. E lo fece! Le mie scuse e il tono della voce ebbero un effetto analogo a quello del sole di luglio su Brighton dopo tre giorni di pioggia. Uscì allo scoperto. Come i nudisti, i cui didietro brufolosi rabbrividiscono al minimo accenno di sole.

    Venticinque, venticinque, rimuginò sottovoce. Poi, magnanimamente, Suppongo tu non possa farci nulla...

    Infatti, precisai.

    Non interrompermi! Beh, vieni pure a conoscermi. Cioè, se non ti importa della paga bassa e di una probabile segnalazione all’Agenzia delle Entrate in caso ti dimostrassi indiscip... L’incredibile Pikehassle fece una pausa per raccogliere i pensieri, poi proseguì con, Ma ti avviso che il posto è difficile da trovare e non molte persone ci riescono. Si interruppe per lasciare che quest’ultima cosa sedimentasse e avesse effetto sul mio sistema di risposta già in calo. E così fu, perché dissi solamente,

    Oh.

    Come attivata o confortata dal mio monosillabo, la terribile signora disse, Ragazzo? Ci sei, figliolo? Ora ascolta il più attentamente possibile... un’enorme esplosione di tosse deflagrò lungo la linea, Stai ascoltando?

    Sì, sbottai, per poi ripetere pateticamente, Sì.

    Lo so, fece lei, ma non facciamoci distrarre.

    Va bene, concordai, intuendo che il modo migliore per gestire quella donna fosse una totale sottomissione.

    Dove vivi, ragazzo? abbaiò lei. Glielo dissi. Non male, non male, mormorò allegra, e la immaginai strofinarsi le mani. Affatto male! Ora ascolta! Prendi il treno di zona fino a Kneewrench East. Scendi. Aggira la stazione sulla sinistra. Non sulla destra, sulla sinistra. Ai semafori vai a destra, ok? A sinistra dopo la prima fermata degli autobus. Prendi la curva, poi a destra e poi a sinistra. Continua a camminare... Sei ancora lì?

    Sì, risposi.

    Continua a camminare, è molto importante. Hai i capelli lunghi? Se ce li hai, evita la signora col bastone. Supera molto in fretta la casa grigia sulla sinistra. Se il cane è fuori, non guardarlo, continua solo a correre, per l’amore santo di Dio, scappa via da quel cane rabbioso. Ora, se ti ritrovi in un vicolo, hai sbagliato strada. Sennò, e mi auguro tu stia ricordando tutto, arriverai a una serie di negozi, con un ufficio postale che si staglia al centro della fila di botteghe, incombendo sui suoi minuscoli compagni con quel suo rosso regale a sottolinearne il sangue blu... Si interruppe e poi riprese ridacchiando, E ora, ragazzo mio, qui si fa dannatamente difficile.

    Oh no, mormorai.

    Che hai detto?

    Niente.

    Sicuro? Credo di aver sentito qualcosa.

    No, no, non era nulla, la rassicurai.

    Superata quella patetica fila di negozi, c’è un supermarket sulla sinistra - non comprarci la carne, se hai a cuore la vita – procedi per un centinaio di metri e che si inchiappettassero mia zia se non vedi gli appartamenti dove si trova il mio ufficio.

    E perché dovrebbe essere difficile?

    Non interrompere, ragazzo, e imparerai più da me che dopo vent’anni in un museo pieno di ‘Encyclopaediae Britannicaes’.

    Va bene, dissi demoralizzato.

    "Non interrompere con tutti questi ‘vabbene’, va bene? E questa è Encyclopaediae Britannicaes! Allora, dov’ero rimasta? Feci per dirglielo. Non interrompere. Ammutolii. Resta solo in silenzio, disse lei. Cominciavo a essere arrabbiato. Non comprarci la carne! Cominciavo a essere ancora più arrabbiato. Davanti a te vedrai degli appartamenti. Aggirali sulla sinistra, prendi il portone a destra, sali al secondo piano, che in realtà è il primo. Fai due rampe di scale e troverai il mio ufficio. Se mi troverai o meno, dipenderà dall’orario in cui arrivi. Che, esattamente, quale sarà? Si interruppe sospettosa, per poi ricominciare ad alzare la voce. Ti sto chiedendo per l’ultima, benedetta volta, l’ora precisa spaccata, secondo più, secondo meno."

    Ero sconcertato. Ci fu una lunga, lunghissima pausa. Lei era lì che aspettava. Azzardai, Posso venire a qualunque ora desideri, precipitando le parole come se ne andasse della mia vita.

    Qualunque ora desideri, qualunque ora desideri, fece lei, rimuginando su quei termini come se le dessero un incredibile piacere. Per Dio! Sei disponibile come mai giovane abbia solleticato il bulbo del piacere di una signora!

    Grazie, dissi con un sorrisino, ma anche preoccupato che la mia interrogatrice avrebbe urlato, Togliti subito quel sorriso dalla faccia! Ma non lo fece.

    Ci ho riflettuto parecchio, proseguì invece. Sei giovane, venticinque anni, non puoi farci nulla. Sei l’educazione in persona. Prendi un taxi alla stazione, pago io, cioè paga l’azienda, fuori budget - il loro. Hai già il lavoro, vedi solo di presentarti qui.

    Sul serio? dissi.

    Senza alcun chiarimento riguardo ai suoi criteri di fare i colloqui, mi disse, Gli appartamenti che pulirai si chiamano Fierce Rakers Flats. Il mio ufficio è al secondo piano. La porta è grossa, di quercia, e finché ci sono, mi trovi lì.

    È sicura che sia tutto a posto?

    Cosa?

    Il taxi.

    Dipende, rielaborò lei. Qualcuno può avere della marmellata sparsa sui i sedili. Devi scegliere bene, avere fortuna. Proprio l’altro giorno ne ho preso uno per andare al supermercato all’altro lato della strada. Non ho guardato dove sedevo e sono finita su tre cipolle in salamoia. Quando ho fatto per scendere, qualche zotico aveva appiccicato un chewing-gum sulla maniglia dello sportello.

    Beh, la ringrazio, Mrs. Pikehassle, dissi educatamente. Vengo subito.

    No, fece lei, e che vuoi dire con ‘subito’?

    Che parto adesso.

    Ma non sei qui. Non puoi partire, se ancora non sei arrivato, sottolineò alzando il tono della voce. Credo di averla sentita borbottare, ...stupidi... volentieri... ma non ne fui sicuro. Si fece sospettosa. Sei per caso dietro l’angolo o fuori della porta di quercia?

    Con ‘parto adesso’... cominciai a spiegare, ma venni interrotto.

    Non è che sei matto? volle sapere lei.

    No. Volevo solo dire che partirei immediatamente da casa mia.

    Non farlo. È l’ora del tè.

    Va bene.

    Ci sono! urlò col suo vocione forte. Ci sono! ripeté con enfasi. Manderò fuori Ben; è l’altro mio portiere. Potrà dare un’occhiata, controllarti, portarti giù e dentro, se ce la fai, - sul ‘ce la fai’ ridacchiò – a farti arrivare qui tutto d’un pezzo. Uno dei pensionati è caduto nella tromba dell’ascensore.

    Cosa! esclamai.

    Scherzo, si spiegò. Ci vediamo, figliolo. Stavo per mettere giù il telefono quando la sentii ridere e tossire. Saprai chi è Ben quando lo vedrai. È grosso quanto due tavole di legno. Riattaccò. Dopo un minuto chiamò un’altra volta. Meglio che ti dia l’indirizzo.

    Può darmelo esatto?

    Certo! Me lo diede, aggiungendo, Non sono stupida! quindi riagganciò di nuovo.

    Con mille ripensamenti riguardo se andare o meno a conoscere la formidabile Pikehassle e Ben la tavola, decisi alla fine per il sì. Mi cambiai in abiti eleganti, invocai tantissimo coraggio, pazienza e anche silenzio, se necessario, e cominciai persino a sentirmi ansioso di vedere Ben, la mia guida, che avrei riconosciuto all’istante grazie alla sua somiglianza a due tavole di legno e all’intento di salvarmi da una caduta in qualche tromba d’ascensore.

    Era il primo pomeriggio quando sotto cieli grigiastri e nuvolosi arrivai nei pressi dei Fierce Rakers Flats. Il tassista aveva fatto di tutto per spiegarmi che una sua vecchia amica, un’affascinante signora che preparava delle tazze di tè straordinariamente squisite alle due e mezzo del pomeriggio, viveva lì nei paraggi, e che se mi avesse lasciato al posto in cui mi lasciò, avrebbe "fatto sicuramente in tempo, amico mio". Mi piacque il cambiamento da ‘figliolo’ ad ‘amico mio’, perciò accettai. Inoltre non avevo avuto occasione di lamentarmi, non essendomi seduto su cipolle in salamoia o ritrovato con la mano appiccicata a un ammasso di gomme da masticare usate.

    Eccoci agli appartamenti, amico mio, disse indicando un blocco rettangolare di scatole ripetute che parevano rannicchiarsi sotto quelle enormi nuvole che i cieli inglesi sembrano avere da sempre a mo’ di valido promemoria sul tempo che potrebbe cambiare in un nonnulla.

    In un nonnulla, dissi al tassista.

    Che cosa, amico mio?

    Dopo aver pagato, dato la mancia e salutato, mi trovai di fronte al terribile e spaventoso blocco di appartamenti, con sentimenti analoghi a quelli del protagonista de ‘La caduta della casa degli Usher’ quando scorse per la primissima volta l’abitazione malefica. Non essendo mai stato appassionato di scatole a ripetizione, soprattutto se delle persone devono viverci dentro, osservai i Fierce Rakers con antipatia. A sua volta il blocco d’appartamenti parve osservare me con la medesima avversione. Misi da parte quelle stupide sensazioni e mi incamminai per una stradina silenziosa.

    La zona era residenziale, un sobborgo di Londra piuttosto ordinario, e mi ritrovai a godermi la passeggiata. Ignorando le nuvole irose sopra Fierce Rakers, apprezzai la calda giornata estiva. Mormorai una canzoncina, accompagnato da un’appassionata allodola che, come me, era convinta ci fosse qualcosa per cui cantare e così faceva a una trentina di metri sulla mia testa, in un piccolo rettangolo di cielo blu, invisibile ai miei occhi. Non ero stato lasciato nel piazzale degli appartamenti. Dovevo camminare più di quanto mi fossi aspettato. Cominciai a guardare in giro se ci fossero delle trombe di ascensore che potessero essere piene di persone cadute e che reclamavano di essere tirate fuori. Dov’era l’ufficio di Pikehassle? Proseguii, svoltai a sinistra e sempre alla mia sinistra scovai una delle facciate dei Flats. Non erano sudici come i condominii al centro di Londra, ma erano pur sempre degli appartamenti, e per giunta brutti. Prendendo di nuovo a sinistra, ne vidi degli altri e mi ritrovai in quello che in seguito mi resi conto essere il tanto agognato piazzale. Notai in lontananza una piccola figura coperta da un grembiule giallo-marrone piuttosto lungo che veniva verso di me a grandi falcate. Senza pensare a ‘due-tavole’, mi chiesi chi potesse essere, ma naturalmente era proprio il portiere. Raggiungendomi a un ritmo costante, inquietante e sconsiderato per un settantenne, sembrava quasi sul punto di lanciarsi contro il mio petto, quando di colpo si fermò e col fiato grosso disse, Per gli Zad, tu devi essere il ragazzo! Dopo appresi il nome del vecchio. Era Ben. Lo ribattezzai Benaloid quasi immediatamente. Nonostante tutto, si rivelò essere un tipo a posto, davvero a posto.

    Lo guardai. Mi guardò. Facendosi indietro per avere una visuale migliore, mi osservò sospettoso: un buon affare, un ottimo affare. La parola ‘magnanimo’ contribuisce parecchio a descrivere lo sguardo diffidente con cui mi affrontò. Già, magnanimo e sospettoso, Ben il portiere mi squadrò dall’alto in basso.

    Sono venuto per il lavoro, dissi io.

    Ti stavamo aspettando, disse lui.

    Ah, sì? dissi io.

    Sì, disse lui.

    Oh, dissi io.

    Da questa parte, disse lui.

    Sì, dissi io.

    Io sono Ben, disse lui.

    Io John, dissi io.

    Allora ti chiameremo John, disse lui.

    La maggior parte delle persone fa così, dissi io.

    Direi di sì, disse lui.

    Oh, dissi io.

    Di qua, disse lui. Qui c’è l’ascensore.

    Sì, dissi io.

    Useremo le scale, disse lui.

    D’accordo, dissi io.

    Non si sa mai cosa uno possa trovarci, disse lui.

    No, dissi io.

    No, disse lui.

    Salimmo le scale. Il piede sinistro di Ben, non sollevandosi a sufficienza, lo fece inciampare un poco. Lui guardò lo scalino e mormorò qualcosa. Lo indicò come per accusarlo, redarguendolo. Se avesse potuto, gli avrebbe sputato, non avevo dubbi. Lo stava incolpando di essere cresciuto di un centimetro o due, o di aver cercato deliberatamente di farlo cadere? Si voltò verso di me. Cupo come non mai, disse, Lei è in ufficio, ma non farti scoraggiare dalla cosa! Eravamo arrivati. Ben fece una pausa come per raccogliere tutto il coraggio dei passati eroi di guerra, il viso scuro come la notte che rabbuia il giorno. Dopo aver aperto la porta, si fece indietro mettendosi rapidamente alle mie spalle e fui lasciato entrare in avanscoperta. Non parve necessario avanzare ulteriormente. L’ufficio stesso sembrò venirmi incontro ad accogliermi, e l’accoglienza fu ripugnante. Calore, fumo, odori indescrivibili, aria che moriva dalla voglia di ossigeno precipitarono fuori della stanza investendo me, il mio viso e i miei occhi irritati, che presero a lacrimare al contatto con quella robaccia affatto contenti dell’aria pastosa di quell’ambiente schifoso. Stravaccata nel bel mezzo del terribile tumulto di aria stantia e bruttezza, c’era una signora verso la fine dei cinquanta o l’inizio dei sessanta. Mi misi a tossire, ma riuscii a trasformare la tosse in una sorta di schiarimento della gola. Lei mi fissò attraverso il fumo, facendomi cenno di avanzare nel maelström che era il suo ufficio. Era vestita di blu, e l’abito era ricoperto di cenere di sigaretta. Il colore della cenere somigliava a quello dei suoi capelli. Era sovrappeso, e nel momento in cui entrai era indecisa su quale di due sigarette dovesse fare il prossimo tiro. I mozziconi sbordavano ovunque dal posacenere, sebbene questo sembrasse progettato da qualche eccezionale architetto che conoscesse bene le abitudini dei fumatori incalliti, dato che le cavità e le scanalature erano abbondantemente rifornite di cicche consumate. Vicino alla signora in blu era posizionata una stufa elettrica, come un animale privo di vita che rilucesse di rosso e si avvicinasse agli stinchi della donna per emanare calore alla sua straordinaria persona. Sopra la testa della donna c’era una griglia che sputava enormi gocce di aria calda, che contribuivano a tenere alla larga tormente, neve, stalattiti e ululanti venti atlantici. Tutto ciò che poteva esserlo era acceso, nonostante fuori il clima inglese fosse mite, e da quel formidabile canalone di calore, cenere, fumo e puzza, Pikehassle urlò: Non startene lì così! Vieni dentro! Feci un passo avanti. Siediti, ragazzo, ordinò lei. Ben sbucò all’improvviso e, premendosi un fazzoletto sul naso, mi spinse su una sedia. Poi arretrò di nuovo e si fermò accanto alla porta come se stesse di guardia, sorridendo ma anche ingoiando nel frattempo un po’ di aria fresca. Era ansioso di vedere come sarebbe progredito il colloquio e probabilmente voleva godersi il fatto che sarei stato fatto fuori prima ancora di cominciare. In vena di sadismo, sapeva anche che avrei iniziato a soffocare e voleva gustarsi il mio disagio. In seguito seppi che la mia intervistatrice gli aveva già detto che avevo ottenuto il posto, e la cosa lo aveva irritato come non mai.

    Sei qui per il lavoro. Aprii la bocca per parlare, ma riuscii soltanto ad annuire. Il mestiere è abbastanza facile. Non viene pagato molto. Non ci aspettiamo molto da te. E tu non dovresti volere granché. Se vuoi troppo, diventa troppo. Mi piaci ancora di più dal vivo che quando ti ho sentito per telefono. Puoi avere il posto, se lo vuoi. È per vecchi pensionati. Non aspettarti di essere trattato come un giovane, anche se lo sei. Guarda quello lì! indicò Ben con un cenno del capo. Lui è vecchio e in pensione, e si crede di essere il capo. Guardalo!

    Così feci. Mi voltai e lanciai un’occhiata a Ben. Era offeso e innervosito. Ancora una volta mi osservò con evidente sospetto, poi, rivolgendosi a Mrs. Pikehassle, disse furbamente, Non gli chiede perché vuole questo lavoro, visto che è solo un ragazzo e potrebbe prendere di più in qualunque altro posto?

    Sono io che faccio le domande, qui. Li do io, gli ordini! urlò lei infuriata. "E poi non è così giovane, ecco il motivo. Portalo a fare un giro, Ben. Mostragli come funzionano le cose. Mostragli come non funzionano. Assicurati di riportarlo indietro. Mena ai ragazzini, se li vedi. Menali dannatamente forte. Per il cielo! Dagli la bastonata della vita!"

    Andiamo, disse Ben, cupamente. Mi alzai. Andiamo, ripeté. Tipo subito. Uscimmo arrancando insieme. È un buon posto, disse mentre mi portava qui e là. Un buon posto, ripeté. L’unica cosa da non dimenticare mai è di svuotare i cestini la mattina. L’ho fatto io da solo per tre settimane. L’altro se n’è andato, disse, ridacchiando e strofinandosi le mani.

    Perché se n’è andato? domandai.

    Non essere troppo curioso, disse Ben. Se ne sono andati perché se ne sono andati. Chiaro? Uno si è ammalato. Ha semplicemente preso ed è andato via. L’altro si è ritirato. Si chiamava Doug. Noi lo chiamavamo Dung, letame. Diceva sempre che a sessantacinque anni si sarebbe ritirato e, diavolo, se glielo ha sbattuto in faccia. Ecco tutto. Quindi, proseguì, accalorandosi sulle cose più importanti da fare e istruendo il ragazzo, cioè me, la mattina, per prima cosa, svuotiamo la spazzatura. Lavoro più rilevante della giornata. Poi ci sediamo a prendere una tazza di tè. Poi laviamo i pavimenti. Passiamo l’aspirapolvere sui tappeti. Pranziamo. Controlliamo le luci. Prendiamo il tè e usciamo sempre poco dopo le tre. È un posto davvero buono. E devi vedere cosa si trova nella mondezza!

    Stavamo camminando lungo un corridoio illuminato artificialmente. Su entrambi i lati c’erano delle porte, sebbene fossero meno numerose da un lato che dall’altro. Gli chiesi il perché.

    È così che sono stati costruiti gli appartamenti. Ce ne sono duecentotrentadue.

    Tutti affollati in quest’unico piccolo spazio?

    Esatto. Non mi piacerebbe affatto viverci.

    Salimmo una rampa di scale esposta a ogni sorta di condizione atmosferica, attraversammo una specie di ponte che collegava l’edificio in cui eravamo prima a quello in cui ci trovavamo adesso, sempre appartenente ai Fierce Rakers, passammo attraverso una porta di metallo che Ben aprì aggressivo con una gomitata e che poi mi rimbalzò indietro sulla faccia. Mentre mi riunivo a lui, accese le luci strofinandosi il gomito e urlando, Scusa!, quindi ci affrettammo insieme lungo un altro corridoio.

    Lì le porte erano soltanto da un lato. Fronteggiavano vittoriose delle finestre bianche. Molte di queste finestre erano aperte, e grazie all’originarsi del vento e all’ingresso della luce naturale, mulinava ovunque una certa aria di libertà. Era piacevole, dopo la penombra delle false luci del corridoio in cui avevamo appena corso come due atomi impazziti che inseguissero le reciproche particelle attraverso un tubo contorto.

    Di qua! Vieni qui! ordinò Ben. Indicò una finestra dove un ampio giardino,

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