Cronache metafisiche
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Cronache Metafisiche è la storia di un mondo, il nostro mondo, che lentamente dà i numeri, e del tentativo di far naufragare anche il senno di chi legge. Sarà riuscito l'autore a portare a termine questa difficile missione?
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Anteprima del libro
Cronache metafisiche - Marco Saverio Loperfido
Del nostro eroe e del suo biografo
Sigmund Nietzsche abitava nel centro di Torino, in un monolocale in via Carlo Alberto 6 all’angolo con l’omonima piazza. Quando non era impegnato a fare le strane cose che racconteremo in questi fogli, faceva il macellaio. Ma non di quelli con una bottega tutta propria e l’insegna di marmo e la scritta rossa. No, Sigmund era macellaio in una macelleria industriale nella periferia della città, vicino alla FIAT e spaccava le ossa dei vitelli con la mannaia accanto ad altri quattro suoi colleghi, tra il rumore dei macchinari e delle pompe, sotto il giogo del tapis roulant, mascherato e in silenzio, continuamente assalito dagli schizzi di sangue. Sigmund faceva il proprio lavoro senza troppe smancerie, lo faceva bene e senza lamentarsi mai, anche perché era un uomo di poche parole.
Ma per apprezzare appieno il carattere di Sigmund bisogna tornare coi fatti a quando era ancora un bambino e spiegare, così, l’origine di quel talento tutto speciale che aveva nell’interpretare i casi più imperscrutabili, quelli dove la logica normale sembrava aver smesso di operare e anzi aveva ceduto il passo a qualcosa di inquietante e surreale.
Ma con calma e metodo, che racconteremo tutto.
Sigmund era piccolo e faceva la seconda elementare. Tutti lo consideravano un po’ strano, ma solo perché non parlava mai se non interrogato e faceva sempre tutti i compiti per bene. Oppure perché una volta, tornando a casa insieme agli altri bambini sotto a un temporale, non si era messo a correre come tutti, ma aveva mantenuto esattamente lo stesso piglio fino a destinazione. La mamma di uno dei compagni, guardandolo gocciare come uno scolapasta, gli aveva chiesto, mentre asciugava suo figlio con un panno: «Ma Sigmund, perché non ti sei messo a correre?» e lui aveva risposto genuinamente: «E perché avrei dovuto, signora?».
Quindi Sigmund andava a scuola come tutti, ma come tutti, lo si era già intuito, non era. Fino al giorno in cui non se ne ebbe la riprova definitiva.
La maestra aveva incaricato gli alunni di portare a scuola la cosa a cui tenevano di più e di parlarne davanti alla classe. C’era chi aveva con sé il videogioco, chi una bambolina e chi il pallone da calcio. Nulla da eccepire. Ma nemmeno nulla di così originale. Sigmund, invece, aveva tra le braccia una scatola da scarpe tutta bucherellata, e la maestra già faceva gli occhi a cuoricino.
«Cosa nasconde quella scatola, Sigmundino?» gli chiese con un tenero sorriso. Sigmund si limitò ad avanzare tra i banchi e a posargliela sulla cattedra.
«Cosa ci fai vedere? Un animaletto domestico? È il tuo?».
Sigmund non rispondeva, era imperturbabile, come sotto al temporale, e tutti attribuivano quel comportamento al suo carattere, al suo normale modo di fare.
«Apri la scatola Sigmund, fai vedere ai tuoi compagni cosa ami di più al mondo».
La maestra era ignara e raggiante, ma Sigmund non apriva la scatola. Allora fu lei a farlo, troppo incuriosita, trovandovi dentro un gatto morto, tutto rattrappito e con la bava alla bocca. Lanciò un urlo che risuonò per tutta la scuola e molti, negli altri piani, lo scambiarono per la campanella della ricreazione, che dunque suonò con quindici minuti di anticipo. In un attimo fu il delirio. La maestra gridò in faccia a Sigmund: «Ma ti sembra uno scherzo da fare questo?! Un gatto morto!».
Sigmund rispose laconico: «Il gatto lo uccide chi apre la scatola, maestra».
Così gli arrivò un ceffone e fu portato dal preside, il quale, dopo aver ascoltato l’accaduto, convocò immediatamente i genitori. Tutta la scuola origliava da fuori la porta della presidenza. Il professore di scienze era il più allibito, mentre spiava. Non voleva credere alle proprie orecchie, tant’è che quando fu tutto finito e Sigmund se ne stava tornando a casa con i genitori, contriti e dispiaciuti, fermò i tre per strada per farsi spiegare meglio.
«Sigmund nostro» disse la madre «amava Erwin più di se stesso. Accusarlo di averlo ammazzato apposta e di averlo portato in classe per fare questo brutto scherzo è ingiusto. Capiamo che le cose sembrino essere andate così, ma d’altronde non c’è certezza che il gatto non sia morto nello spostamento da casa a scuola».
«E poi,» disse il padre, un uomo schivo e mingherlino proprio come il figlio «dirci di stare attenti a che nostro figlio non peggiori e si corrompa ancora di più, perché i criminali e i pazzi assassini già si intravedono da piccoli, quella è stata proprio un’offesa. Sigmund ne è profondamente colpito».
Allora il professore si chinò all’altezza del piccolo e del suo nero grembiulino, e, guardandolo fisso negli occhi posti al fondo di quei minuscoli occhialetti, gli chiese: «Caro Sigmund, perché hai detto che è stata la maestra a uccidere il gatto?».
«Perché lei ha aperto la scatola».
«Ma il gatto era morto anche prima che lei la aprisse, no?».
«No, il gatto è morto quando lei ha aperto il coperchio. Quando era ancora chiuso noi eravamo tutti felici, quindi Erwin non era ancora morto».
Quella frase, detta con quel candore, sembrava plausibile e per un attimo l’insegnante tentennò.
«Sigmund… ma come… no, non dire così. Tu conosci quell’esperimento, vero?».
Ma sul viso di Sigmund si stampò un’inequivocabile quanto innocente espressione di sorpresa.
Allora il professore si fece più pressante.
«Sigmund, allievo Nietzsche, tu devi conoscere questo esperimento e ci stai prendendo a tutti per i fondelli, vero? Tu devi conoscerlo, altrimenti perché avresti chiamato il tuo gatto proprio Erwin?».
Si riferiva al famoso paradosso formulato dal fisico Erwin Schrödinger, quello per cui un gatto in una scatola è contemporaneamente vivo o morto fino a che qualcuno non apre quella scatola. Ma a quel punto i genitori, preoccupati dall’insistenza e dall’inquietante sguardo del professore, trascinarono via Sigmund, adducendo la scusa che era stanco e si