Europa socialista: L'europeismo genetico nel socialismo italiano e il suo contributo al processo di integrazione europea
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Socialismo e sogno europeo sono elementi propri di un discorso politico e culturale che affonda, secondo l'autore, nella lunga promessa della rivoluzione proletaria delineatasi nell’Ottocento. L’avvento del socialismo, in altre parole, come realizzazione contestuale di un’Europa dei lavoratori nella quale - e solo in quella dimensione - il disegno europeo acquista il suo senso progressista, democratico, pacifista ed emancipatore. Fu questo il cuore della riflessione di figure centrali del socialismo italiano e del sogno europeista (gli "Stati Uniti d’Europa"), a partire da uno dei padri nobili, Filippo Turati, per passare a personaggi come Eugenio Colorni, accanto ai più noti politici come Basso, Nenni, Lombardi, Morandi, Rollier e molti altri citati in questo lavoro. Il federalismo europeo di marca socialista, strutturalmente antifascista, diventa una delle anime dell’utopia egualitaria, differenziandosi dal progetto perseguito dai partiti comunisti; ma è un’anima minoritaria, nei limiti condizionanti imposti dalla guerra fredda
(dalla prefazione di Umberto Gentiloni Silveri)
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Anteprima del libro
Europa socialista - Federico Testa
Federico Testa
Europa socialista
L’europeismo genetico nel socialismo italiano e il suo contributo al processo di integrazione europea
Prefazione di Umberto Gentiloni Silveri
In collaborazione con Fondazione Pietro Nenni
Collana di studi storici e politici della Fondazione Pietro Nenni
© Arcadia edizioni
I edizione, giugno 2023
Isbn 9788832104745
È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,
del materialese non a fronte di esplicita autorizzazione scritta
dell’editore e con citazione esplicita della fonte.
Tutti i diritti riservati.
In copertina:
Immagine tratta dal periodico Europa Socialista, 23 febbraio 1947,
settimanale di politica e cultura diretto da Ignazio Silone.
Ai miei genitori e a mio fratello
Prefazione
Umberto Gentiloni Silveri
Socialismo e sogno europeo sono elementi propri di un discorso politico e culturale che affonda, secondo l’autore, nella lunga promessa della rivoluzione proletaria delineatasi nell’Ottocento. L’avvento del socialismo, in altre parole, come realizzazione contestuale di un’Europa dei lavoratori nella quale – e solo in quella dimensione – il disegno europeo acquista il suo senso progressista, democratico, pacifista ed emancipatore.
Fu questo il cuore della riflessione di figure centrali del socialismo italiano e del sogno europeista (gli Stati Uniti d’Europa
), a partire da uno dei padri nobili, Filippo Turati, per passare a personaggi come Eugenio Colorni, accanto ai più noti politici come Basso, Nenni, Lombardi, Morandi, Rollier e molti altri citati in questo lavoro. Il federalismo europeo di marca socialista, strutturalmente antifascista, diventa una delle anime dell’utopia egualitaria, differenziandosi dal progetto perseguito dai partiti comunisti; ma è un’anima minoritaria, nei limiti condizionanti imposti dalla guerra fredda.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il disegno terzaforzista, mentre guarda all’esperienza del Labour Party al governo in Gran Bretagna, deve misurarsi inevitabilmente con l’involuzione del quadro internazionale. L’autore dà conto minuziosamente di questa tensione tra dibattito pubblico/privato – variegato e plurale – e reali possibilità di manovra. Gli spazi si restringono, mentre infuria il dibattito nel Partito socialista e si moltiplicano rotture e riaggregazioni, a partire dalla nota scissione di Palazzo Barberini, nel 1947.
L’integrazione europea rimane sullo sfondo di un dialogo difficile con le forze della Democrazia cristiana e del Partito comunista italiano, alla luce di un confronto sui grandi valori e parole-guida del Novecento: la pace, la giustizia sociale, la libertà. La meta del terzaforzismo è incerta; le forme per arrivarci ancora meno chiare, di fronte all’affermarsi di modelli di sviluppo e di politiche estere fortemente influenzate dalla cultura e dalla politica americane e dal confronto bipolare. Il Piano Marshall costituisce uno di questi banchi di prova, mentre l’economia nazionale si avvia a rapide trasformazioni. Le neo-formazioni di ispirazione
socialdemocratica diventano in quel quadro funzionali al perseguimento di una politica economica di stampo capitalistico che tuttavia non abbandoni la strada delle riforme sociali, che non trascuri il nodo delle diseguaglianze e il peso di lungo periodo imposto dalla questione meridionale. Produttività, occupazione e riforme sono bandiere di quell’area socialista spesso guardata con grande interesse da settori qualificati dell’amministrazione statunitense già nella crisi del 1947.
L’incipiente decolonizzazione e il legame, al contempo identitario e difficile, con l’Unione Sovietica accelerano ripensamenti e auto-critiche. Il richiamo internazionalista convive, come per il Pci, con una dimensione nazionale nella quale permangono irrisolti i nodi del sogno rivoluzionario: le riforme di struttura, da un lato; la rivoluzione socialista, dall’altro. L’Europa potrà essere solo quello che vincoli e condizioni dettate da altri permetteranno che sia. È una politica socialista così fortemente condizionata, tra spinte a stare nel sistema e contro il sistema, tra riformismo e rivoluzionarismo, in una logica di confronto serrato e mai del tutto esaurito con i partiti di governo, i compagni
comunisti, le socialdemocrazie degli altri paesi dell’area occidentale.
L’Europa potrebbe essere lo scenario entro il quale contraddizioni e limiti si risolvono; ma troppo complessa è la questione di cosa dovrebbe essere l’Europa e cosa effettivamente è. Ciò significa partecipare attivamente e confrontarsi con la realtà di quella costruzione storica; con quelle forze, economiche e politiche, che di fatto guidano il processo dell’integrazione europea. La Ceca prima, il 1956 con la crisi in Ungheria e il 1957 dei Trattati di Roma poi, sono un punto di non ritorno del socialismo italiano; ma anche un passaggio nodale intorno al quale il tema della libertà torna a misurarsi in termini nuovi e problematici con quello della giustizia sociale e di uno sviluppo redistributivo.
L’Europa come contenitore di forze eterogenee. Ma con un limite oggettivo: un disegno potenziale che resta costretto nell’alveo di una cultura politica, quella del socialismo italiano, che fa fatica a risultare espansiva, pur continuando a rappresentare, dalle alleanze del primo centro-sinistra in poi, l’unico soggetto politico della sinistra italiana legittimato a governare con la Dc e a declinare verso il futuro il sogno europeo.
Introduzione
Lo storico Gaetano Arfè ha sottolineato come metodologicamente sia alquanto improbabile parlare di un europeismo comune ai partiti socialisti e quindi di una visione unitaria del problema europeo, tuttavia, c’è «in ciascuno dei suoi partiti, in tutti gli ambienti politici e culturali che al socialismo per tramiti vari si richiamano, un fervore intorno a questo tema che non si spegne mai»(1).
Nell’indagare le caratteristiche di questo europeismo nazionale
occorre comprendere, soprattutto per ragioni metodologiche e dunque per studiare al meglio il fenomeno, come esso si sia articolato alla prova dei fatti, cioè rispetto al processo storico europeo con il quale i partiti socialisti italiani a fortiori si sono trovati a rispondere; un’operazione che ci indicherà quale sia stato il peso storico di tale europeismo che si esprimeva maggiormente nel Partito Socialdemocratico Italiano (PSDI) e in maniera minoritaria nel Partito Socialista Italiano (PSI). Altresì appare evidente come la dimensione nazionale dell’europeismo, sviluppatasi tra i socialisti nel periodo antecedente ai fatti degli anni ‘50, sia indispensabile per lo sviluppo del pensiero sull’europeismo stesso, poiché sembra che sia inscritto nella genetica
del socialismo italiano; perciò si partirà proprio dal capire questa naturale
propensione europeista da dove nacque e come si articolò.
In generale sul piano continentale la comparsa delle idee federaliste di inizio secolo è caratterizzata dal progetto di Pan-Europa
, ipotizzando e proponendo alle classi dirigenti dell’epoca uno scenario in cui i vari stati europei si trovassero a condividere degli obbiettivi comuni, quali la pace fra le nazioni e il disarmo, raggiungibili attraverso un depotenziamento dello stato nazionale. Tale era la visione di Coudenhove-Kalergi in cui tuttavia, seppur il richiamo al territorio americano fosse centrale, vi era in realtà una connotazione prettamente confederale che in quel richiamo auspicava a un’imitazione dell’«Unione panamericana, ovvero a un’alleanza di tipo confederale, non a un’autentica federazione statale quale gli Stati Uniti o la Svizzera postquarantottesca»(2).
L’accoglienza da parte di più correnti politiche del federalismo avverrà progressivamente verso la fine degli anni ’30, poiché la guerra civile spagnola insieme a quella avutasi in Abissinia preclusero ogni possibilità che la Società delle Nazioni (SdN) potesse realmente ergersi a garante della pace, un fatto che verrà assimilato per certo nel momento in cui Stalin troverà l’accordo con Hitler nel 1939. Perciò il federalismo verrà riconsiderato, anche in ambito socialista, tanto da venir già propugnato da Trockij nel "La guerra e l’internazionale dove appariva chiaro come il «crollo della forma
Stato nazionale" era in definitiva legato, nella visione di Trockij alle esigenze della maturità della forma economica transnazionale capitalista e al suo rivoluzionamento socialista.»(3).
Per indagare la questione dell’europeismo nel socialismo italiano, facendo riferimento a un’ampia bibliografia e ai periodici affiliati ai partiti, saranno trattate inizialmente nell’elaborato le radici del socialismo italiano facendo riferimento a Filippo Turati, rendendo conto dello sviluppo di alcune correnti che enfatizzavano e proponevano il federalismo in seno al partito fra le due guerre. Infine, si tratterà, ripercorrendo il periodo della Resistenza, l’importanza di Eugenio Colorni nel definire una politica europeista che sarà ripresa soprattutto dagli ambienti giovanili socialisti.
Nel secondo capitolo, focalizzandosi maggiormente su alcune fonti d’archivio e i dibattiti parlamentari, verrà analizzato il processo d’integrazione europea degli anni ‘50, nel contesto della Guerra Fredda, cercando di comprendere le posizioni dei due partiti e il loro atteggiamento rispetto ad esso, osservando una certa continuità con quella tradizione europeista specifica degli ambienti del socialismo italiano.
L’ultimo capitolo vedrà l’analisi di alcuni documenti del Gruppo dei Partiti socialisti europei al Parlamento europeo
insieme a quelli del Movimento Socialista per gli Stati Uniti d’Europa
, per comprendere come il processo d’integrazione europea sia stato elaborato dagli ambienti socialisti europei presenti in alcuni enti, nonché per definire al meglio quali fossero i fattori presi in esame, così da rivedere alcune posizioni sull’europeismo in atto e distinguere sul piano politico-ideologico le varie posizioni su tale questione.
Tramite questo percorso si cercherà di delineare infine, se vi sia stato o meno, alla luce anche dei cambiamenti economici e storici in atto negli anni ‘50, un tentativo prima nell’Internazionalismo socialista e poi nella dialettica all’interno delle prime istituzioni comunitarie di attuare una politica europeista comune e di come ciò abbia pregiudicato uno sviluppo più coerente nel socialismo italiano di una precisa politica europeista, cercando infine di ricavare le caratteristiche principali di quest’ultima.
Capitolo I
La cultura europeista nel socialismo italiano
Le origini del pensiero europeista in Filippo Turati
Il pensiero socialista si trovò già da prima del secondo dopoguerra nella condizione di dover ripensare la questione europea, questo poiché le vicissitudini avutesi subito dopo la fine del primo conflitto mondiale misero in luce alcuni fatti inequivocabili: dinanzi all’imminente scoppio della guerra si palesò il fallimento della SdN con l’affermarsi incontrastato del nazifascismo, l’importanza crescente degli Stati Uniti d’America e dall’altra parte del globo sia la minaccia giapponese che la sperimentazione del socialismo reale sul suolo russo.
Il delinearsi di questo rapporto di forze fece sì che si incominciasse a riflettere più approfonditamente sulla questione europea e in particolare sul nuovo ruolo dell’Europa data la situazione globale, apparendo sempre meno come modello di civiltà esemplare ed espressione dello sviluppo economico. Il socialismo italiano, inserendosi e agendo di concerto a quello europeo(4), si contraddistinse sin dalla sua fondazione per alcuni tratti fondamentali: innanzitutto un legame sempre più marcato fra gli aderenti al partito e la lotta politica parlamentare; questo legame «rifletteva un processo generale di trasformazione dell’informazione, che stava diventando un quarto potere
, anche in seguito alla diffusione della scolarità e ad un relativo maggior benessere economico»(5).
La grande diffusione e importanza degli organi d’informazione non deve far supporre tuttavia una conseguente grande affermazione sul breve termine del socialismo; la stessa figura del leader politico non si traduceva in una figura carismatica o in un uomo da apparato, ma proprio per il modesto numero degli affiliati al partito, si creava invece un rapporto più intimo in cui il leader era un traduttore di idealità e bisogni della classe di riferimento(6).
In questa prospettiva la dottrina di riferimento era ovviamente quella marxista che assumeva in base ai contesti diverse sfaccettature, ma rimaneva essenziale la coerenza che i leader dovevano conservare fra la dottrina e i cambiamenti della realtà, tanto che in Italia la corrente riformista fu giustificata, dopo aver dato appoggio al governo Zanardelli-Giolitti nel 1901, proprio attraverso il leader storico Filippo Turati con una prospettiva evoluzionista e positivista. Infatti «l’avvento del nuovo ordine sarebbe derivato dall’evoluzione graduale del capitalismo verso il socialismo […] compito del partito era quello di contribuire a questa evoluzione»(7).
In seguito alla parentesi del sindacalismo rivoluzionario, solo nel 1908 Turati riuscì ad ottenere l’egemonia del partito e a diffondere la sua visione, tuttavia con il conflitto mondiale e l’acuirsi dell’atteggiamento massimalista, egli fu espulso nel 1922 e fondò subito dopo il Partito Socialista Unitario.(8) Il riformismo di Turati rifletteva la questione internazionale scaturita con la revisione del marxismo che si contrapponeva all’ortodossia, incentrata invece su una «ideologia dell’assoluta opposizione»(9), proponendo una riflessione che attraverso Bernstein e Kautsky definiva una differente strategia politica, così:
Kautsky cerca di conservare la caratteristica del marxismo come ideologia dell’assoluta opposizione […] Però egli vuole nello stesso tempo tener conto delle esigenze che pone la lotta per il miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia e per l’allargamento dei suoi diritti politici, nonché per le riforme sociali e politiche, insomma della necessità per il movimento operaio di massa di non limitarsi soltanto all’istruzione ed all’organizzazione della classe operaia nell’attesa della rivoluzione. Si potrebbe dire che egli vuole mantenere le principali caratteristiche del marxismo inteso come la filosofia della rivoluzione, la filosofia della dicotomia sociale ma allo stesso tempo vuole anche fornire le basi teoriche alla politica delle riforme e trarne le conseguenze. […] Bernstein vuole che la socialdemocrazia abbandoni totalmente l’ideologia dell’assoluta opposizione poiché secondo lui essa non esprimeva adeguatamente la prassi politica concentrata nella lotta per le riforme sociali e anzi impediva una coerente fruttuosa evoluzione di questa prassi. Secondo la sua concezione il passaggio al socialismo, che rimane il fine di Bernstein, sarà compiuto non, per così dire, dall’esterno
ma dall’interno
del sistema esistente; la socialdemocrazia deve penetrare nelle strutture esistenti trasformandole nello stesso tempo.(10)
La ricezione in Italia di questa diatriba interna alla crisi del marxismo, si manifesta con Turati nel suo riformismo sui generis procedendo sul livello della dottrina marxista verso un continuo revisionismo, che tiene insieme realtà delle condizioni materiali favorevoli (o meglio evoluzione delle cose) e principi, senza mai propendere solo per l’una o per gli altri poiché altrimenti si avrebbe rispettivamente o l’opportunismo o il dogmatismo(11).
D’altra parte, vi era una critica feroce di Arturo Labriola che puntava il dito contro la borghesia italiana, con la quale non era possibile alcun compromesso e serviva dare «guerra a capitalismo e borghesia su una piattaforma ben articolata, i cui bersagli sono la monarchia, presidio di ogni interesse costituito, il militarismo, strumento di ogni reazione, e il protezionismo, posto a tutela degli interessi capitalistici»(12) sviluppando una linea intransigente. Benché le controversie fra i due livelli di strategia permasero all’interno del partito, comunque Turati portò sempre avanti strenuamente una sua concezione del socialismo che rifletteva la sua particolare concezione della Storia; infatti, il suo intento risultò essere quello di comprendere le fasi del socialismo italiano, leggendo perciò ogni evento alla luce di quelli storici, per dedurne delle leggi generali di evoluzione e sviluppo(13).
La relazione che Turati pone fra fatti presenti e storia non è di secondo ordine poiché è nell’esistenza di due tipologie di punti di vista con cui inquadrare tale relazione che il pensiero di Turati acquista una sua originalità. Si hanno perciò due modalità con cui guardare il passato: inteso come ciò che è vivo nel presente, «quella categoria complessa di medioevo
sopravvissuto»(14) senza tuttavia mai indagarne la storicità ma riferendosi a una concezione evoluzionista; dopodiché vi è il passato da guardare per capire gli sviluppi futuri, ovvero quello delle altre realtà europee data l’arretratezza italiana.
Ma la realtà risulta essere come «il mare incomposto, incoerente»(15) e in questa incertezza vi sono due livelli del reale: l’agire politico che è la componente superficiale e la Storia che è il profondo, ciò di cui si è in balia e poco o niente si può conoscere. Il problema fondamentale per Turati, dunque, diventa comprendere come questi due piani, quello apparentemente volontaristico e l’altro deterministico del profondo della materialità storica, siano fra loro legati, ovvero: si potrebbe parlare ancora di un agire politico capace di prevedere e capire la realtà in movimento se il fattore dell’inevitabilità e dell’inconscio della storia prevalesse sul serio?
Potrebbe sembrare come se Turati fosse alla ricerca di una sintesi fra il determinismo e il volontarismo nella dottrina marxista, ma vi era invece la preoccupazione di come essere realmente responsabili di fronte ai fatti storici. Turati non negava l’importanza dell’azione volontaria ma criticava l’economicismo dei primi marxisti(16), cercando quindi di adoperare una linea politica che fosse consapevole dell’interpretazione di un «ruolo cosciente nella storia necessaria»(17). Questo lo si otteneva attraverso una metodologia gradualista e analitica, dove per analitica si intendeva un frazionamento delle lotte politiche della classe operaia da attuare singolarmente, di modo che si desse la possibilità di colmare la distanza fra i piani dell’azione e dell’inconscio storico, rimanendo tuttavia ambiguo sulla questione della libertà, cioè non chiarendo se essa infine fosse reale o meno. In ultima analisi viene reso esplicito da Turati come la storia sia da padrona, quindi di come la lotta di classe detti le regole, ma si evidenzia anche la possibilità di un cambiamento sostanzialmente qualitativo provocato dall’azione consapevole, che cogliendo le caratteristiche fondamentali degli eventi da cui ricavare le leggi di tendenza, la renda efficace e degna della concentrazione particolare degli sforzi politici. Nei riguardi del problema europeo il movimento socialista italiano, scosso ancora dalla scissione comunista di Livorno del 1921, provò ad abbozzare alcune riflessioni dove protagonista fu lo stesso Turati.
Negli anni ’20 fu tra coloro che incominciarono a vedere con sospetto e timore la debolezza del sistema stabilito a Versailles, che avrebbe dovuto garantire la pace fra gli Stati europei, prevedendo in primis un controllo efficace sull’eventuale