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L’alba della ripartenza
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E-book389 pagine5 ore

L’alba della ripartenza

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Info su questo ebook

Nella Radura il tempo si ferma. I suoi piccoli abitanti, seguendo i ritmi che scandisce la Natura, vivono in simbiosi con gli umani condividendo in armonia i ritmi lenti e cadenzati di una realtà fuori dall’ordinario, nel rispetto dei singoli spazi e delle singole esigenze. Avendo stipulato in precedenza un patto di non belligeranza, le due parti si assicuravano pace e serenità
garantendosi l’un l’altra una collaborazione fattiva.
Due giovani natii del luogo, Silvia e Lorenzo, dalle origini inverosimili, o almeno il narratore così ci vuole far intendere, si trovano in un periodo molto delicato della loro esistenza: presto affronteranno la prova impegnativa dell’esame di maturità e si ritroveranno catapultati in una realtà di adulti. Ma improvvisamente avviene l’impensabile: il mondo è stretto in una morsa letale a causa della pandemia da Covid 19. Solitudine e preoccupazione tra gli abitanti del luogo e nella Radura notizie sempre più approssimative e discordanti generano confusione. Silvia e Lorenzo confinati in un distanziamento inaspettato. Una realtà apocalittica, assurda ma purtroppo reale. L’alba della ripartenza, di Saverio Schiavone, esprime in generale il senso del disagio vissuto in ogni strato sociale, in ogni luogo, tra gli esseri umani e nel mondo animale. È un testo importante, nel quale l’allegoria e l’umorismo sono costanti. L’Autore tratteggia con precisione il profilo psicologico di ogni personaggio, inserendolo in un contesto narrativo di elevato livello.

Saverio Schiavone è nativo di Accadia e vive a Bergamo dal 1969. Ha insegnato materie letterarie prima nelle scuole medie e poi Italiano e Latino (Greco) nei licei per oltre quarant’anni. La tesi universitaria I Pentecostali di Accadia e del Sub-appennino Irpino riscosse un notevole consenso di critica. È autore di Elementi di grammatica accadiese e L’oro di Accadia in dialetto; di racconti fantastici Le avventure di Lorenzo e compagni 1° e 2° volume per gli alunni delle Primarie, con le quali collabora come volontario-esperto (testo poetico, narrativo; favole; teatro; territorio; giochi e mestieri di una volta). Dal Crispignano alle Orobie e All’ombra del Pignone sono parti integranti della trilogia La Spalacera. Silvia e Lorenzo, L’alba della ripartenza, è la sua ultima pubblicazione con il Gruppo Editoriale Albatros. Autore di testi teatrali ha inoltre allestito oltre 60 spettacoli come regista ed autore a livello amatoriale.
Dà anche lezioni nelle Università della Terza Età.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830673076
L’alba della ripartenza

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    Anteprima del libro

    L’alba della ripartenza - Saverio Schiavone

    LQ.jpg

    Schiavone Saverio

    L’alba della ripartenza

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6625-2

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di settembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    L’alba della ripartenza

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    ai lettori

    Le vicende legate a Lorenzo e Silvia nel periodo della preadolescenza sono narrate in due raccolte intitolate "Le avventure di Lorenzo e compagni". In questo romanzo i due protagonisti sono presentati alle soglie della maturità, quando, dopo un’assenza di quattro anni, per ragioni di studio, tornano al paese per trascorrere una breve vacanza in occasione del Carnevale, ma li attende una drammatica sorpresa: la pandemia da Covid-19.

    L’autore chiarisce

    Questa è un’opera di fantasia, le vicende narrate si intendono frutto della fantasia dell’autore ed ogni riferimento a persona o cosa realmente esistente o esistita è da intendersi puramente casuale. Il riferimento a fatti, località, avvenimenti eventualmente esistiti è da intendersi espediente puramente letterario per dare maggior credibilità alla vicenda che è, e resta, pura creazione fantastica.

    nb

    :

    Radura, con iniziale maiuscola, è riferita al territorio

    radura, con iniziale minuscola, è riferita al luogo delle riunioni periodiche

    personaggi principali umani

    Lorenzo, giovane alle soglie della maturità

    Silvia, l’amica coetanea

    Ambrogio, nonno di Lorenzo

    Elisabetta, detta Zabetta, nonna di Lorenzo

    Fanalino, amico di Lorenzo

    Elvy, amica della nonna

    Gertrude, figlia di Elvy

    Gina, la zia psicologa

    Farmacisti, padre e madre di Silvia

    Genitori di Lorenzo

    Sgorbio, il criminale

    Grancassone, detto Stringi Stringi, avvocato e notaio

    Primizia, prozia di Lorenzo

    Carrozziere

    animali

    Claretta e Pelosa, due api in pensione

    Ciccio, il riccio

    Crocida, cornacchia

    Ernesto, calabrone letterato

    Fisarmonica, il lombrico

    Imbranato, passero

    Martino, granchio

    Merlo, il tiritera

    Michela, la formichina

    Nicola, il corvo

    Pasquale, pesciolino rosso

    Pellegrino, Arca, cuccioli: famiglia di ursidi

    Scodinzola, cane

    Pierino e Peloso, gatti

    Poddla, la farfalla

    Ragno tessitore

    Il vecchio gufo

    Ambientazione: un Paese lontano lontano, dove esiste un patto di non belligeranza fra umani e animali. Al tempo del Covid-19

    Ad Andrea

    per traguardi

    sempre più ambiziosi

    come è nel suo stile

    Visione d’insieme di quel che resta dei Templari con sullo sfondo le corna della capra, dette anche Pietra di punta.

    Prima Parte

    prologo

    C’era una volta un paese lontano lontano, ma così lontano che parte degli abitanti si chiedeva perché l’avessero costruito tanto lontano. L’altra parte, al contrario, sosteneva che erano loro ad essere così lontani, non il paese. Sarebbe bastato cambiare direzione e le distanze si sarebbero accorciate. Quello che sembrava un ragionamento logico del tutto in linea col senso comune, almeno stando al concetto di senso comune, non era preso in considerazione dal momento che la maggior parte degli abitanti era abituata, qualche storico dice costretta, a muoversi a senso unico, incanalata in un’unica direzione, a scapito del buon senso. Per questa ragione si accese una discussione che non risolse affatto il problema, tanto che ancora oggi stanno discutendo, senza trovare una soluzione. E questo perché la maggioranza chiedeva se per lontano si dovesse intendere lo spazio o il tempo. E non era la stessa cosa.

    Come non erano la stessa cosa i concetti relativi al senso comune e al buon senso.

    L’interpretazione in un senso o nell’altro avrebbe chiamato in causa anche la dimenticanza. Era lontano perché lo avevano dimenticato o era lontano perché era distante? La confusione era enorme ed a nulla servivano le spiegazioni, anche autorevoli, di chi sosteneva che per trovare una soluzione avrebbero dovuto cambiare punti di vista, di osservazione e di direzione. Si rendeva necessario fissare un punto fermo di riferimento sia per quanto riguardava lo spazio, quindi i chilometri, sia per quanto concerneva il tempo, quindi gli anni o altro.

    In un paese, abituato da secoli a giudicare le cose sempre da un unico punto di osservazione ed a seguire sempre un’unica direzione, era difficile accettare l’idea che il ricorso a qualche cambiamento avrebbe potuto mettere gli abitanti in condizione di trovare un accordo, un compromesso.

    Qualche novità cominciava comunque a farsi strada e il fatto che ci fossero discussioni, anche accese e animate ma non violente, ne era la prova.

    Non era solo questo il motivo di discordia.

    Il paese si stendeva su un vasto territorio che poteva essere diviso in tre zone.

    Una, posizionata più in alto, era la prima ad essere illuminata al mattino, per cui godeva appieno del sorriso del sole. Arroccata su se stessa era rimasta isolata e gli abitanti non erano molto socievoli. Era difficoltoso distinguere le famiglie: quasi tutte avevano lo stesso cognome perché unite da vincoli di parentela. Era molto difficile che un estraneo potesse integrarsi.

    Un’altra occupava il territorio più a valle, ed era ricca di vicende storiche. Si raccontava che nel passato vi erano stati mammut e villaggi palafitticoli. Nel museo archeologico faceva bella mostra di sé una mandibola dell’antenato di un elefante: un mammut. Qualcuno con convinzione sosteneva che vi erano stati anche babbut e figliut.

    Cosa non si fa per magnificare la propria terra , commentavano gli esperti del settore, avanzando in merito molti dubbi che, però, non erano sempre esternati perché la gente era permalosa.

    Una terza zona era equidistante tra le due e viveva, sempre grazie all’equidistanza, fiera del nome che portava. Un nome ereditato da signori di alto lignaggio, i quali un tempo avevano dominato su quel territorio. Era ancora in vita un discendente disposto ad aprire le porte della sua abitazione, ormai quasi un museo, perché i visitatori potessero apprezzare la magnificenza dei locali.

    Nei dintorni erano visibili anche resti di abitazioni distrutte dai terremoti, che nel corso dei secoli avevano interessato il territorio.

    C’era però tra loro un’altra discussione, e anche questa si protraeva da tempo immemorabile: asserivano che erano tre paesi e ognuno era convinto di aver ragione. Un ragazzo, un giorno, fece osservare che non avrebbero potuto essere tre dal momento che erano parte integrante di uno stesso Comune. Questa osservazione sembrò pacificare gli animi, perché la matematica, almeno a quei tempi, sosteneva che uno è uguale a uno e non a tre.

    Forse anche oggi la matematica sostiene che uno è uguale a uno e non a tre.

    Ma durò poco la pace.

    Ricominciarono a discutere animatamente su chi dei tre meritasse di essere centro e chi periferia. Il solito ragazzo, vi assicuro non era un impiccione, fece osservare che tutti appartenevano alla stessa Comunità e quindi ritornava il conteggio: uno è uguale a uno.

    Anche questa volta l’osservazione del ragazzo sembrò rappacificare gli animi. Poi il solito guastafeste, ce n’è sempre qualcuno in giro a mettere zizzania, convinto di saperla più lunga di tutti, disse che esisteva la legge della relatività. Uno può essere diverso, a seconda di come viene scritto: piccolo, grande, con uno sfondo fiorito o con lettere.

    E ricominciarono a discutere. E stanno ancora discutendo.

    Noi li lasceremo discutere o litigare. Guai a intromettersi in faccende simili: poi tutti se la prenderebbero col povero paciere. D’altronde discutere per trovare una soluzione che vada bene per tutti è in definitiva un’azione positiva; per questo li lasceremo discutere.

    Tutto il territorio, fosse vicino o fosse lontano, che si intendesse lontananza nel tempo e quindi dimenticanza o distanza in senso spaziale, quindi chilometri, si estendeva ai piedi di una Montagna che solenne e sorniona assisteva a queste discussioni, anche lei da tempo immemore, e copriva il tutto la sera con la sua ombra.

    A questo punto evitiamo discussioni inutili, bastano quelle già in atto. Lo storico, sebbene anonimo, ci sembra imparziale: non precisa né il territorio e neanche la regione.

    In questo modo ogni lettore, dando libero sfogo alla sua fantasia, potrà immaginare quel mondo come meglio gli aggrada. Un mondo senza tempo e senza spazio, quello del c’era una volta. Ci dà soltanto questa indicazione: ai piedi della Montagna scorrevano due fiumi e quando questi erano in piena il territorio assumeva le sembianze di una penisola e in alcuni casi anche di isola. A riflettere bene ed a leggere con attenzione le carte dello storico, si ha la netta impressione che si trattasse di una specie di Stato, che per quanto inserito all’interno di una realtà più vasta, per antichi privilegi godeva di una particolare forma di autonomia.

    Nonostante i litigi, in realtà si riducevano a discussioni animate, quei territori erano abitati da gente laboriosa che non riusciva, neanche volendo, a starsene con le mani in mano. Pur di non perdere tempo, al mattino di buonora andavano al lavoro con le maniche delle camicie già arrotolate la sera prima. Alcuni, addirittura, non le srotolavano mai. Il loro motto?

    Semplice: Laurà, laurà, laurà. Che in lingua locale significa devo lavorare.

    Un impegno in prima persona.

    Un buontempone, un altro storico anonimo, afferma che, a distanza di tempo, quel motto si sarebbe trasformato in Laùra, laùra, laùra, sottintendendo che sei tu che devi lavorare. Quindi il riferimento chiama in causa un terzo. Roba da non credere o roba da chiodi e non si fa per dire. Il solito informato, questa volta un poeta con un nome ed un cognome, Ludovico Ariosto, afferma in una sua opera (satira prima) che gli abitanti di quel territorio erano esperti nell’arte di far chiodi. Come dire nel lavorare il ferro, e lo dimostrano i tanti magli sparsi nei dintorni.

    "…vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi

    se levino a far chiodi, sì che spesso

    col torchio in mano addormentato caschi…".

    Da questi versi si potrebbe dedurre che gli abitanti di quel paese fossero del nord.

    Secondo un altro esperto, si tratterebbe di una specie di Eden, "dove la luna fa capolino dietro i monti e sorride alla Natura che, emozionata, non manca di dare i suoi frutti, anche copiosi a seconda della stagione".

    "E bagnati da tanto sudore, agn stizza d’ sudor eja tant ", come tengono a sottolineare, nel loro linguaggio, con un misto di orgoglio e passione, i contadini. Quindi potrebbero essere gli abitanti del sud.

    Anche qui la discussione la lasciamo comunque ai lettori che, se avranno tempo e voglia, potranno divertirsi a immaginare il mondo della nostra storia come meglio crederanno. L’importante è che nelle discussioni, per quanto accese, bisogna tener presente che è necessario ascoltare le opinioni degli altri, per non procedere a senso unico. Uno dei guai maggiori di quel paese, come dicevamo prima, era il vedere le cose solo dal proprio punto di vista e seguire sempre un’unica direzione.

    Ai margini del bosco, ai piedi della Montagna, c’era una deliziosa casetta abitata da un papà e una mamma, ma, siccome non avevano ancora un figlio, la gente li chiamava semplicemente sposini. Accanto alla casetta abitava il nonno che, siccome non aveva un nipotino, non era ancora nonno e, anche se gli piaceva essere chiamato nonno, la gente lo chiamava semplicemente Ambrogio, il pensionato. Era molto conosciuto in paese. Per oltre quarant’anni aveva esercitato la professione di falegname. Non vi era abitazione che non conservasse traccia del suo passaggio e del suo genio artistico. Vi abitava con la moglie, che lui però chiamava nonna.

    In realtà il nome era Elisabetta.

    Qualcuno le aveva affibbiato il soprannome Zabetta, cioè impicciona, per via di qualche pettegolezzo cui si lasciava andare volentieri ogni tanto con le amiche, quando le incontrava al bar C’era una volta per il solito giro di caffè. Ma si trattava di scaramucce di poco conto; nel paese tutti si conoscevano e tutti conoscevano i segreti di tutti.

    Ambrogio possedeva un garage, che all’occorrenza diventava officina, nel quale trovava alloggio, quando non era in riparazione dal carrozziere, una vecchia auto. La chiamava la Geppa. Era carica di anni ma a lei, lui le dava del lei, erano legati i ricordi dei tanti viaggi fatti in tutti i paesi europei.

    «I ricordi di una vita, e che vita!», diceva alla moglie quando li ricordava per l’ennesima volta.

    «E che brontolone!», sottolineava la moglie con un sorriso.

    Ambrogio aveva due passioni: produceva miele, che ricava dalle tante arnie dislocate ai margini del bosco. Lo vendeva il venerdì nel mercato rionale, in barattoli che portavano la scritta Il miele di Claretta e Pelosa, il miele che guarisce ogni cosa.

    Poco distante dalle arnie, vi era uno spiazzo abbastanza grande, una radura, dove ogni primo giovedì del mese si riunivano gli abitanti del bosco. Il corvo Nicola, un chiacchierone che era il primo a spargere le notizie poiché volava alto; Claretta e Pelosa, due api del vicino alveare, ormai in pensione, un poco pettegole, alle quali ogni tanto veniva affidato un incarico all’interno della colonia; il calabrone Ernesto, che si dava arie di letterato; il lombrico Fisarmonica, sempre l’ultimo ad arrivare: gli piaceva troppo prendere il sole tra le zolle; Ciccio, il riccio, che ogni tanto, di notte, faceva una capatina nei dintorni della casetta e mangiava il cibo del gatto Peloso; Il merlo Tiritera perché non la smetteva mai di chiocciare.

    Nel vicino laghetto guizzava un pesciolino rosso, Pasquale. Era capitato lì per caso. Qualcuno l’aveva vinto al Luna Park, poi lo aveva gettato in quel rigagnolo per liberarsene. Nonostante non potesse uscire dall’acqua, prendeva parte comunque alla riunione. Tutti avevano in odio Sgorbio, il cacciatore di frodo.

    È il caso di precisare che in quel mondo tra gli abitanti del bosco, prima tra loro, e poi con gli abitanti del paese, era stato stipulato un patto di non belligeranza. E in virtù di quell’accordo tutti vivevano in pace.

    L’altra passione di Ambrogio consisteva nel trascorrere il tempo libero coi suoi amici all’Oasi del Pensionato, ribattezzato dalla nonna L’Oasi dei perdigiorno. Qui sfidava a briscola l’amico carrozziere Mario, detto Vulcano perché era in grado di trasformarsi in fabbro, meccanico, idraulico e altro. Dipendeva dalle richieste e dalle circostanze. Era uno spasso assistere a quegli incontri-scontri. Il nonno sosteneva che la permanenza della Geppa, spesso oltre ogni limite di sopportazione, nell’officina dell’amico, in attesa di essere rimessa in condizione di viaggiare dipendeva dall’imperizia di Mario, il quale, con la voglia di fare tanti mestieri, alla fine si riduceva alla stregua di chi non riusciva a farne neanche uno buono.

    Vulcano ribatteva che la Geppa, carica di anni e di affanni, ormai aveva fatto il suo tempo ed era ora di cambiarla e mandarla in pensione. Perdeva continuamente i pezzi e la carrozzeria stava insieme non sapeva neanche lui se per un miracolo della tecnica o per l’intervento di qualche santo protettore, cui Ambrogio aveva affidato il resto dei suoi anni. Aggiungeva che la Geppa, una volta tolta dalla circolazione, sarebbe stata bene in un museo come monumento alla memoria di chi ha compiuto intatto il suo dovere e, nello stesso tempo, monito per gli automobilisti che non è decente ridurre in quelle condizioni un’auto.

    Una mattina, gli studiosi non l’hanno mai appurato come sarebbe stato opportuno, almeno per avere uno straccio di documentazione storica e per evitare inutili discussioni, un uccello di grossa taglia stanco per aver valicato l’ampio passo della montagna; o forse perché si era smarrito; o perché aveva sbagliato indirizzo; o forse, ed è il caso più probabile, per fare più in fretta perché a quel tempo era troppo impegnato nelle consegne, depositò sui gradini della casetta un fagottino.

    Dentro vi era un bambino bello e paffuto.

    Gli sposini furono felicissimi e, siccome avevano un bambino, la gente li chiamò genitori, come dire mamma e papà. Ambrogio, che finalmente aveva un nipotino, diventò nonno a tutti gli effetti. E la gente lo chiamò sempre nonno. Al bambino fu dato il nome Lorenzo, perché la consegna era avvenuta il 10 agosto.

    Il giorno di san Lorenzo.

    Ma non fu l’unica cosa strana che accadde quel giorno.

    Più a valle, il dott-farmacista del paese, che nel tempo libero si divertiva a coltivare l’orto, mentre era intento ad innaffiare le piante, a servire i clienti era rimasta la moglie anche lei farmacista, sentì un gridolino. Dapprima non ci fece caso.

    Poi siccome il gridolino si ripeteva, quasi volesse dire ma che, sei sordo?, andò a vedere. Anche se è difficile crederlo, sotto un cavolo trovò un fagottino. Dentro vi era una paffuta e bellissima bambina. Siccome era nata nelle vicinanze del bosco la chiamarono Silvia. Il giorno dopo il farmacista e il nonno si incontrarono in ospedale al reparto maternità, e ognuno indicava all’altro un bambino dicendo: «Quello è mio nipote Lorenzo». L’altro, al contrario, affermava tutto felice: «Quella è mia figlia Silvia». Quando i due pargoli furono consegnati ai rispettivi genitori, si scoprì che quello che era indicato come Lorenzo in realtà era Silvia e quella che avrebbe dovuto essere Silvia in realtà era Lorenzo. A quell’età è facile confondersi.

    Per fortuna ci sono le medagliette di riconoscimento, altrimenti, se un piccolo continuasse a piangere, ed a fare capricci, con la scusa che l’hanno scambiato nella culla, lo riporterebbero nel reparto maternità. Probabilmente ci sarebbe una lunga fila in attesa. Grazie a questo episodio le due famiglie cominciarono a frequentarsi. Lorenzo e Silvia diventarono amici, anzi si consideravano fratello e sorella. E finirono nella stessa classe. Silvia era diligente e premurosa, studiosa ma non secchiona. Forse meglio definirla una bambina giudiziosa, per quanto lo possono essere le bambine di quell’età. Ma non è il caso di esagerare.

    Lorenzo era un poco sognatore, pur non appartenendo al segno dei Pesci. Un gran bravo figliolo, ma si distraeva spesso. Quando era in classe la sua mente era connessa più con la sua stanzetta, dove erano gli animaletti in plastica che aveva lasciato sparsi sul pavimento come se fossero al pascolo, che con la lavagna. Per questa ragione spesso si confondeva con quello che la maestra chiedeva e ogni tanto ne combinava una delle sue. La maggior parte del tempo lo trascorreva col nonno perché i suoi genitori durante il giorno lavoravano. E il nonno, quasi vestisse i panni del mago Merlino, riusciva ad aggiustare le cose ed evitava che il nipote non facesse la figura dello sprovveduto in classe coi compagni. E come in tutte le fiabe, una mano gliela davano anche gli animaletti del bosco. Già, perché loro si erano affezionati a Lorenzo e Silvia. E questo affetto era ricambiato. Bisognava vedere come guizzava contento Pasquale, quando i due bambini buttavano nelle acque del laghetto, che poi era un ristagno del fiumiciattolo, il mangime di cui era ghiotto.

    All’alba della ripartenza

    Un periodo di riflessione

    La notizia era ormai sulla bocca di tutti: dopo una lunga assenza, dovuta allo studio, con puntate anche all’estero, Lorenzo tornava a casa. L’aspettavano con una certa ansia, mista ad apprensione e curiosità, gli abitanti della radura e del paese. Tutti in preda ad una speciale fibrillazione.

    Tante le domande che alimentavano gli stati d’animo dei presenti. Una in particolare: chi era il nuovo Lorenzo? Sicuramente era cambiato, ma in cosa? Quale sarebbe stata la sua reazione nel rivedere i luoghi in cui aveva trascorso gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza? Si sarebbe ricordato di loro, vale a dire degli abitanti della radura e degli amici della contrada, per i quali era stato fin dalla nascita il loro beniamino e, per difenderli, aveva lottato col perfido Sgorbio che avrebbe voluto alterare gli equilibri faticosamente raggiunti fra umani e abitanti del bosco?

    Davanti a tutti, appollaiato sul ramo della betulla, gorgheggiava Imbranato, pettoruto e impaziente di mostrare al ragazzo, che lo aveva salvato da sicura morte, tutti i piccoli della sua nidiata, i quali gli svolazzavano intorno e cinguettavano più per ossequio al genitore che per libera scelta. Loro, i piccoli, Lorenzo non lo avevano mai incontrato. Lo conoscevano solo attraverso i racconti dei grandi, spesso secondo loro ingigantiti, che avevano il sapore della leggenda o delle favole da raccontare, quando le cucciolate se ne stavano nei nidi a scaldarsi, stretti stretti per ripararsi dai rigori dell’inverno.

    Quello che tutti conoscevano di Lorenzo, cittadino e studente, lo dovevano a Pelosa e Claretta, le quali avevano divulgato per prime la notizia del ritorno. Le due api avevano più volte aggiornato gli abitanti. Approfittando della rastrelliera piena di fiori, che faceva bella mostra di sé sul davanzale della villetta, intanto che si tuffavano nei calici per una scorpacciata di polline, avevano ascoltato quanto i nonni raccontavano. Non mancavano di divulgare le notizie apprese dalle lettere e cartoline che il postino, secondo il suo costume, sventolava come trofei quando, col suo motorino, poco più che un trabiccolo, orgoglioso della sua nuova divisa, consegnava la posta nella villetta. Lui, con la scusa che il trabiccolo non ripartiva, si attardava per conoscere dalla viva voce dei nonni o dei genitori, quanto il ragazzo aveva scritto. Poi, avute le notizie, improvvisamente il motorino ripartiva al primo colpo di pedale e in questo modo anche lui, il postino, non mancava di aggiornare le persone che incontrava nei suoi giri, fornendo notizie più dettagliate del ragazzo. Tutti, con buona pace della cosiddetta privacy, erano al corrente che Lorenzo, dopo un inizio un poco difficoltoso dovuto all’ambientazione, si era guadagnato la stima degli insegnanti. Si era ripreso grazie ad alcune prove con le quali aveva dimostrato di aver maturato una preparazione profonda, che andava al di là delle semplici conoscenze apprese sui libri, specie nel campo delle scienze. Aveva scelto per i suoi studi un orientamento piuttosto interessante: Agraria. Si sapeva, grazie a quanto diffondevano le due pettegole, quando erano in vena, vale a dire sempre, che la classe era composta da 28 alunni. I maschi rappresentavano una sparuta minoranza del cosiddetto sesso forte: in tutto erano quattro. La stragrande maggioranza era rappresentata dal sesso debole o gentil sesso che dir si voglia. In omaggio ai tempi nuovi in cui finalmente le donne vedevano riconosciuti i diritti di uguaglianza, secondo la nonna. Che gorgheggiava la conquista in compagnia delle amiche, mentre sorbivano un caffè presso il solito bar C’era una volta. Faceva da contrappunto la valutazione di Ambrogio nelle animate partite a scopone presso l’Oasi del Pensionato:

    «Il mondo in mano alle donne? Dio ce ne scansi e liberi. Povera gioventù destinata a lavare piatti e padelle, rammollita dalle parole dolci e mielate delle compagne, tipo tesoro, amore, e smancerie simili».

    In casa evitava di esplicitare questa valutazione per evitare le solite sceneggiate da eterni innamorati, come li definivano tutti. Solo si limitava a bofonchiare, spesso sottovoce, che le donne a dir la verità quella famosa parità l’avevano sempre avuta, non solo, ma anche esercitata con notevole energica autorità coi loro uomini in casa. E quando si accorgevano che non sempre riuscivano a raggiungere i loro obiettivi, erano pronte a riprendere il timone del comando, ricorrendo alla solita lacrimuccia che, stranamente, era sempre a portata di mano. Anzi di ciglia.

    Sempre le due api facevano conoscere qualche episodio di vita scolastica, appreso da quanto aveva scritto Lorenzo nelle sue lettere e carpito col solito tuffo nei fiori a caccia di polline. Ma soprattutto lo si doveva ai racconti che la formichina Michela apprendeva dalla viva voce di una sua collega, Albertina, anche essa rintanata in un angolino della nuova classe di Lorenzo, testimone diretta, e poi riferiva ad Ernesto, il calabrone saputello sempre informato su tutto, che non mancava, nella divulgazione, di aggiungerci del suo. Come facesse Michela a venire in possesso di quelle notizie rimaneva un mistero. Sicuramente le formiche avevano sviluppato un qualche marchingegno che permetteva di comunicare a distanza. Tanto per essere anche loro al passo coi tempi. D’altronde, quando gli studenti uscivano al termine delle lezioni, avevano libero accesso a tutte le strutture tecniche di cui le aule scolastiche erano dotate. Si sapeva che nella classe vi era un alunno in gamba e sveglio che sapeva il fatto suo. Quando questo alunno, si chiamava Lillo, era interrogato da solo alla lavagna brillava per la sua preparazione e riportava giudizi lusinghieri; era additato a modello dell’intera scolaresca. Non era un secchione: le ore che dedicava allo studio erano dedite allo studio e niente poteva distoglierlo. In classe prestava la dovuta attenzione. Aveva maturato un metodo che gli permetteva di ottenere grandi risultati senza eccessivo sforzo, se non quello richiesto da un corretto uso del tempo da dedicare allo studio. Appunto. Quando era interrogato in compagnia della sua compagna di banco, dava la netta sensazione che fosse impreparato e la cosa si era ripetuta più di una volta. Poiché la faccenda cominciava a incuriosire ed a suscitare interrogativi un poco allarmanti, specie nei genitori, fu tenuto sotto osservazione e si capì anche il perché. Il prof di Scienze un giorno chiamò alla lavagna tanto Lillo che Alessia, la sua compagna di banco. Si rese conto che quando faceva una domanda ad Alessia, e questa non rispondeva perché non conosceva l’argomento, poneva la stessa domanda a Lillo, il quale sembrava in grado di dare la risposta, poi rinunciava e dava l’impressione che ignorasse del tutto l’argomento. Scoprì, ricorrendo ad un espediente, che quando Lillo cercava di rispondere alla domanda, Alessia gli faceva un cenno particolare e il ragazzo non parlava. Messo alle strette, Lillo confessò che se avesse risposto alle domande inevase da Alessia, questa poi, una volta fuori dalle mura scolastiche, gliela avrebbe fatta pagare. La ragione? Semplice. Se avesse dato la risposta, il professore avrebbe classificato in negativo la ragazza e in positivo lui. Se non avesse risposto, il prof avrebbe dovuto classificare in negativo anche Lillo e se lo avesse scusato sarebbe stato obbligato a scusare anche la ragazza.

    Il cra cra di Nicola concentrò maggiormente l’attenzione dei convenuti sull’arrivo di un taxi, dal quale scese un giovanotto alto quasi un metro e ottanta, dal corpo scattante e in perfetto accordo con quello che si poteva definire un bel ragazzo, secondo gli standard e i parametri dei tempi. Ci fu un grido di ammirazione, cui fece seguito un silenzio profondo, in attesa che il ragazzo rompesse in qualche modo l’imbarazzo del momento. Il ghiaccio fu rotto dalla nonna che corse ad abbracciare il suo tesoro e dal nonno che si stringeva al petto il nipote, come se fosse opera sua quel marcantonio che era sceso dal taxi. Poi Ambrogio fu richiamato alla realtà dal tassista che, con modi gentili seppur sbrigativi, reclamava che venisse saldata la tariffa della corsa. L’attenzione degli astanti, in particolare dei piccoli di Imbranato, che cominciarono a svolazzargli intorno, senza tante cerimonie, era quello di scorgere sul corpo del ragazzo tatuaggi particolari. I piccoli pennuti ci speravano, per poter anche essi ricorrere a quelle incisioni sulle penne della loro coda, cosa fino ad allora mai osata, data la proibizione tassativa del padre legato alle vecchie tradizioni di famiglia. Gli altri curiosi di vedere quale animale avesse inciso sulle braccia fra tutti quelli della radura. Entrambe le curiosità furono appagate dalle prime parole di Lorenzo: «Ciao, amici, come state? Mi siete mancati tutti, indistintamente. Non ho addosso alcun piercing e neanche tatuaggi.

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