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Checkmate
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E-book387 pagine15 ore

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A New York una personalità conosciuta con segrete pulsioni perverse sembra sparire nel nulla e viene ritrovato mutilato a centinaia di chilometri di distanza. A Pueblo, in Colorado, vengono ritrovati otto cadaveri teatralmente disposti. Un grande magazzino usato per lo stoccaggio di stupefacenti viene dato alle fiamme, i guardiani spariti ed il tutto firmato con un misterioso simbolo.
James Sheperd, capo di un pool di investigatori del Federal Bureau of Investigation, viene chiamato a ricomporre il puzzle formato da questi eventi in apparenza separati tra loro.
Ne scaturirà un duello mentale con una figura misteriosa per la vita delle persone coinvolte senza esclusione di colpi, in cui l’Agente Sheperd dovrà trovare il modo di chiudere la partita prima di subire lui stesso lo scacco matto.
 
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2021
ISBN9788869632631
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    Anteprima del libro

    Checkmate - Jacopo Arcangeli

    Jacopo Arcangeli

    CHECKMATE

    Elison Publishing

    La copertina è stata realizzata da Chiara Berrugi. (https://chiaraberrugi.wixsite.com/artwork)

    © 2021 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869632631

    A Chiara,

    per tutto quello che

    sei nella mia vita.

    Il gioco degli scacchi è lo sport più violento che esista.

    Garry Kimovič Kasparov

    "Gli scacchi sono una guerra sulla scacchiera.

    L’obiettivo è distruggere la mente dell’avversario."

    Bobby Fischer

    "A scacchi non guardare il tuo avversario

    come una pecora, ma come un lupo."

    Proverbio russo

    Introduzione:

    L’IMMORTALE

    Se c’è una cosa che rende affascinante un duello tra due persone è l’imprevedibilità delle scelte che entrambi faranno e che senza dubbio alcuno influenzeranno pesantemente l’esito dello scontro.

    Ognuno di essi avrà un suo stile, un suo personale approccio alla battaglia di qualunque natura essa sia che sarà anch’esso determinante.

    La cosa che affascina è il brivido di scoprire quale dei due sarà vincente oppure quale dei due dovrà subire l’umiliante sconfitta a vantaggio del proprio rivale.

    Quale sarà la scelta che determinerà la sconfitta di uno e la vittoria dell’altro. E perché tale scelta è stata compiuta.

    La storia è piena di rivalità leggendarie che ancora hanno un irresistibile ascendente su di noi. Da Achille ed Ettore nella mitologia greca, Annibale contro Scipione nelle battaglie romane, l’esercito texano contro quello messicano nella guerra per l’indipendenza della Repubblica del Texas, Churchill contro Hitler, Napoleone e Sir Arthur Wellesley ed infiniti altri esempi.

    Nessun gioco sa essere altrettanto affascinante e brutale come quelle battaglie o duelli quanto il gioco degli scacchi.

    Ne richiama in sé tutte le caratteristiche del duello tra generali, in cui invece degli eserciti o delle armi fisiche si è sostituito il tutto con un accurato scontro tra due menti.

    Le regole sono precise e non così tante in fondo, ma le possibili combinazioni tra ogni mossa dettata da una precisa scelta e la relativa risposta del proprio avversario sono incalcolabili, dando veramente poco spazio alla fortuna.

    L’unico obbiettivo negli scacchi è schiacciare psicologicamente il proprio avversario, fosse anche il vostro migliore amico, in un vero proprio ebro di egocentrismo cerebrale in cui la sconfitta non deve essere contemplata, seppure sempre in agguato dietro ogni scelta nella partita.

    Come il campione statunitense Bobby Fischer, che durante la partita valevole per la coppa del mondo del 1972 contro il sovietico e campione in carica Boris Spasskij a Reykjavik in Islanda, in cui il talento a stelle e strisce fu visto compiere una scelta considerata come errore da principiante sacrificando apparentemente in modo inutile il proprio alfiere, costringendolo alla resa ed il momentaneo vantaggio di Spasskij.

    Potenti computer videro solo successivamente che tale mossa in un’ottica di previsione delle mosse successive non era tanto avventata ed avrebbe potuto portarlo alla vittoria.

    Furono le diverse scelte di Spasskij a rovinare il piano di Fischer, come in una qualunque battaglia reale.

    Animato forse da un gesto di stima e sportività nei confronti di Fischer, il campione russo accettò di giocare la partita decisiva in una stanza privata.

    Un errore psicologico da parte di Spasskij.

    Era caduto nella trappola di Fischer che, millantando decine di motivi per non giocare tra cui il fastidioso rumore delle telecamere, lo aveva spinto a tradire il suo nervosismo all’atteggiamento attendista dell’americano. Che ovviamente ne approfittò.

    Una sconfitta clamorosa, da immaginare in pieno conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, che demolì lo spirito di Spasskij e migliorò notevolmente quello di Fischer.

    Questo per dire quanto l’aspetto psicologico sia determinante nel mondo infinito degli scacchi, dove la pietà può portare a sonore sconfitte ed ogni decisione va ponderata non nella singola mossa in sé, ma negli effetti che avrà e di come farsi trovare preparati.

    Un buon giocatore di scacchi è un eccellente stratega, capace anche di enormi sacrifici per giungere all’obiettivo che è la vittoria con scacco al Re.

    Come fece Adolf Anderssen contro Lionel Kieseritzky nel 1851 a Londra in una delle partite più famose di tutti i tempi, capace di sacrificare entrambe le torri e la donna per dare scacco matto all’avversario con i tre pezzi minori rimasti.

    Ma la storia delle origini del gioco degli scacchi è così antica da perdersi nei millenni e non poco spesso con risvolti di natura religiosa.

    Un gioco simile seppur diverso era praticato attivamente durante l’impero egizio ed era chiamato Senet.

    Datato anche oltre il 3300 a.C., era talmente diffuso e comunemente giocato da credere che Anubis stesso giocasse una partita a Senet con l’anima del defunto per decretarne l’ingresso in paradiso o l’oblio tramite un demone coccodrillo che ne divorava gli organi contenuti nei vasi canopi.

    L’esito della partita era decretato dalla famosa pesatura del cuore del defunto a confronto con una piuma.

    Solo se il cuore fosse stato più leggero della piuma, ossia se le scelte della persona in vita fossero state giuste e virtuose, sarebbe stato possibile vincere ed assicurarsi l’aldilà.

    Una metafora di vita da cui trarre le proprie conclusioni e personalmente continua fonte di ispirazione.

    Jacopo Arcangeli

    CHECKMATE

    FATTI INQUIETANTI

    Parte I

    23 Settembre 2017

    Era una umida sera nella periferia di New York.

    Una zona non esattamente tra le più luminose e brillanti come erano le classiche immagini della città che non dorme mai nelle cartoline, o come si vede in tanti film hollywoodiani.

    Barney King si affacciò alla finestra, scrutando la strada sottostante. Poche macchine passavano in quella stretta strada, e la cosa gli andava più che a genio.

    King era uno stimato procuratore distrettuale a Richmond. Un uomo esile e minuto, dal carattere abbastanza burbero, che lo aveva penalizzato più volte nella vita. La sua carriera andava a gonfie vele dopo aver spostato Susan e aver avuto da lei ben tre figli.

    Niente in teoria avrebbe mai dovuto toglierlo da quella che solitamente la gente comune chiama una vita felice ed equilibrata.

    Ma King aveva un lato nascosto di sé che non avrebbe mostrato a nessuno, per nessuna ragione. Ogni caso a lui affidato era macchiato da forzature del sistema e scappatoie, ed era stato estremamente abile nel far passare uomini che operavano nel crimine organizzato come innocenti e scomodi oppositori politici come la peggiore feccia della società.

    Era orgoglioso di sé, poiché il suo conto in banca era così strapieno di soldi che non sapeva più dove spenderli. Finché un giorno gli venne in mente come avrebbe potuto soddisfare tutte le sue più oscure fantasie.

    Un mugolio disperato lo risvegliò per un attimo dai suoi pensieri. Ma era presto, non aveva nessuna fretta.

    Per un periodo aveva cercato inutilmente di condividere le sue pulsioni sessuali malate con la moglie, che però si era spaventata, arrivando perfino a minacciare di denunciarlo. Non andava bene. E non si era mai rivelato davvero a sua moglie.

    Lei non avrebbe permesso a King di riempirla di frustate o marchiarla col fuoco mentre la possedeva.

    Barney King era un sadico. Il suo massimo orgasmo giungeva solo vedendo soffrire la propria partner.

    Se n’era accorto diversi anni addietro, ai tempi dell’adolescenza, quando la sua prima fidanzata si ruppe un dito mentre scherzavano sbattendolo contro una parete e rimase stupito per quanto lo avesse riempito di piacere. Ne voleva ancora, ma era spaventato allo stesso tempo.

    Questo suo lato oscuro rimase quieto e nascosto fino alla nomina di viceprocuratore, che gli aveva portato alla sua attenzione diverse figure importanti con diversi scheletri nell’armadio

    Toccava a lui tenerli liberi e puliti. In cambio, King avrebbe avuto tutto quello che voleva.

    Quello che King voleva erano giovani, grasse fanciulle adatte per i suoi giochi. Le ricordavano la sua sorellina, morta per leucemia. Non era un fatto per lui particolarmente rilevante, gli piaceva materializzare così la sua morbosa fantasia.

    King però non era un omicida. No, non ne sarebbe mai stato capace. Il suo piacere era unicamente frutto delle sofferenze altrui, ma non aveva sufficiente fegato per uccidere nessuno.

    Guardò l’orologio. La lancetta si spostò sulle undici e decise che era il momento.

    Aveva comprato quella casa in totale segreto da tutti. Solo pochissimi fidati sapevano e dietro grosse somme di denaro mosse abilmente da King gli fornivano le vittime per i suoi giochi malati.

    Si diresse alla camera singola, dove gli avevano detto che avrebbero lasciata imbavagliata la sua numero 45.

    Gli piaceva dare un numero e non sapere assolutamente nient’altro. Quelle persone sapevano perfettamente cosa dovevano fare e King era particolarmente pignolo nei suoi gusti.

    La porta cigolò appena e attese che la sua vista si abituasse alla penombra della stanza. Prima di entrare, si mise la sua maschera. Era solito a mettersi una maschera da clown, onde non aver problemi di essere riconosciuto una volta finito.

    La ragazza era di spalle ma lo aveva appena sentito entrare. La sentiva piangere, col respiro affannoso. Era stupenda, ai suoi occhi. La fiamma del fornello doveva ormai aver arroventato a dovere il punteruolo, uno dei suoi strumenti preferiti, e si diresse in cucina. Lo afferrò, non prima di essersi munito di guanti spessi, e pregustò il momento in cui l’avrebbe passato sulla carne flaccida.

    Quasi iniziò ad ansimare per la gioia, quando il suono di un pianoforte lo allarmò.

    – Chi c’è?! – disse ad alta voce. Una voce stridula per lo spavento.

    La melodia continuò. Gli parve di riconoscere Chopin, No. 9 per pianoforte. Una delle sue melodie preferite, ma la cosa non lo riempì per niente di gioia in quel momento. Era sconvolto e iniziò a dirigersi verso la fonte del suono.

    Non capiva. Sembrava venire dal salotto tutto messo all’aria poco lontano dall’entrata. Tenne il punteruolo alzato, pronto a colpire chiunque avesse osato violare il suo posto speciale.

    Si sporse appena dallo stipite della porta, giusto per dare un’occhiata veloce. Non c’era nessun dannato pianoforte. La musica proveniva da un giradischi molto antico.

    La sua fronte si corrugò immediatamente. Quel giradischi non lo aveva mai visto prima. Non era suo e non aveva la minima idea di come ci fosse finito.

    Gli parve altamente improbabile che fosse sempre stato lì ed era comunque impossibile che si fosse avviato da solo.

    Il respiro si accorciò notevolmente. Era agitato, si sentiva vittima lui stesso di un qualche gioco morboso. Si guardò attorno, poi si diresse verso il giradischi con l’intenzione di spegnerlo.

    Si accorse appena dell’ago che gli punse il collo e senza il minimo trambusto perse i sensi e si accasciò a terra accompagnato dalla melodia del pianoforte.

    27 Settembre 2017

    – Scacco!

    Ronald Sheperd sorrise, guardando amorevolmente il nipote di appena otto anni, Matt. Stava insegnando un gioco al ragazzino che per Ronald era una piacevole fissazione, come la definiva lui. Il gioco delle menti, il più nobile dei giochi da tavolo: gli scacchi.

    – No, Matt. Ti ho messo io sotto scacco, non fare confusione! Significa che devi difendere il tuo Re, non hai altre mosse possibili.

    Il bambino corrugò la fronte, pensieroso. Era interessante quanto potesse imparare così in fretta un gioco dalle basi semplici, ma dagli schemi assai complessi. Ci pensò sopra un po’, poi con quasi un pizzico di stizza dovette retrocedere col suo Alfiere nero, coprendo il Re e al tempo stesso proteggendo il primo pedone con uno dei Cavalli. Ronald non si fece intimidire, e avanzò con una delle Torri per minacciare l’Alfiere.

    Con suo grande stupore, Matt avanzò con un pedone posizionato in precedenza al centro della scacchiera, in E4 spostato in E5. In questo modo l’altro Alfiere, quello bianco, ebbe via libera verso il Re di Ronald, che era in H7.

    – Scacco di scoperta…! È matto!

    Non poté fare a meno di controllare. Aveva ragione, quindi bloccò l’orologio da gioco per il tempo, porgendo la mano al nipote.

    – Diventa ogni partita più abile. Eh, Ronald?

    Sua moglie, Natalia Foster Sheperd, entrò nella stanza con due tazze bollenti di tè.

    – …ed io più vecchio e prevedibile… Vero, giovanotto?

    Dette una pacca sulla spalla di Matt, che sorrise.

    – Ho solo avuto fortuna. – rispose con modestia il giovane Sheperd.

    Bevendo dalla tazza di tè, non prima di averci cautamente soffiato sopra, il nonno paterno commentò: – Nel mondo degli scacchi non c’è spazio per la fortuna, se non il solo primo passo falso dell’avversario che porta alla vittoria!

    Si alzò dalla sua poltrona, stiracchiandosi dopo la buona mezz’ora che aveva passato seduto a giocare a scacchi.

    La casa degli Sheperd era una villetta tipicamente americana, situata in una zona residenziale molto tranquilla e di persone benestanti, anche se non ricche, nella città degli angeli. Gli Sheperd abitano negli USA da poco più di sessanta anni. Il padre di Ronald emigrò dall’Irlanda insieme a tutta la famiglia per cercare fortuna, ed il giovane Ronald si era ambientato molto in fretta alla nuova vita, anche se la sua tarda adolescenza la passò nel Wyoming.

    Ronald e Natalia Sheperd avevano due figli, Mark Owen e James Jimmy Bran Sheperd.

    Mark era un ingegnere informatico estremamente brillante di trentacinque anni. Purtroppo la sua personalità abbastanza introversa lo aveva spesso penalizzato nella vita, ma il suo talento non era passato inosservato alla H&S Software, un’azienda di buon livello, che gli aveva offerto un posto di capogruppo al reparto di ricerca e sviluppo.

    James Sheperd era invece un’agente alla Federal Bureau Investigation. Uomo carismatico e dedito all’azione, sapeva essere molto premuroso con suo figlio Matt, specie da quando sua madre Jillian rimase coinvolta in un tremendo incidente automobilistico.

    – Ronald, non credi stiano tardando troppo Mark e James? – chiese Natalia al marito.

    – È già tutto pronto. Forse è il caso che telefoni a…

    – Tesoro, è tutto apposto, in fondo stanno tardando di poco. Hanno preso da me, non possono essere il massimo della puntualità! – scherzò Ronald per tranquillizzare la moglie, sapendo che per natura tendeva ad essere iperprotettiva non considerando che uno dei suoi figli dava la caccia ai peggiori criminali del territorio americano.

    – Matt, da buon giocatore e considerato che hai battuto tuo nonno, dovresti riporre la scacchiera con tutti i suoi pezzi al loro posto. Fa attenzione… è una scacchiera pregiata! – disse rivolto al nipote questa volta, con tono sempre affettuoso ma deciso.

    Il nipote obbedì all’istante e con cura prese ogni pezzo e lo appoggiò su di un panno apposito per non rovinarli. In seguito spostò la scacchiera riponendola su di un mobile d’antiquariato sempre nel soggiorno.

    Lasciò il nipote da solo in soggiorno mentre stava disponendo i pezzi in ordine sulla scacchiera e si diresse con la moglie in cucina, da dove venivano una serie di profumi uno più delizioso dell’altro.

    Natalia Sheperd era una cuoca eccezionale. D’altronde aveva lavorato nelle cucine di diversi ristoranti italiani e grazie agli chief, rigidamente italiani immigrati o di seconda generazione proprietari dei ristoranti, aveva imparato diversi trucchi della cucina d’oltreoceano.

    Si intendeva anche di cucina giapponese e qualche piatto indiano, quindi alla tavola degli Sheperd non mancavano mai appetito e buon gusto.

    Si girò verso la moglie e la abbracciò, dandole un bacio sulla fronte. Erano sposati da così tanto tempo che per entrambi ormai era fondamentale la presenza dell’altro. Ronald ricordava ancora perfettamente il giorno del loro matrimonio. Una bellissima quanto semplice cerimonia sulle spiagge di Los Angeles, com’era sempre stato desiderio di entrambi. Circa un anno e mezzo dopo nacque James, mentre per Mark dovettero attendere quasi sei anni. A quel tempo Ronald lavorava come pilota di aerei turistici, mentre Natalia gestiva un’agenzia immobiliare, con la quale aveva trovato tutte le case dove si erano trasferiti nel corso del loro matrimonio.

    In quel momento suonò il campanello e Natalia andò subito a controllare il citofono.

    – È Jimmy! – esclamò sorridente.

    James Sheperd entrò in casa e venne subito con affetto abbracciato dalla madre.

    – Ciao, mamma. Scusa il ritardo, ma una vecchietta ha cercato di impedirmi di partecipare a questa riunione di famiglia con ogni mezzo che questo Stato possa consentire! – scherzò James porgendo un vassoio con alcuni dolci freschi di pasticceria.

    – Oh, tesoro. Sai che non era necessario.

    – Parla per te, Natalia. Sicuramente ne approfitteremo a fine pranzo. – disse Ronald stringendo la mano a James. – Ben arrivato, figliolo.

    – Grazie, papà. Ma non dovevi smetterla con i dolci tu? – rispose con un velo di ironia James levandosi il soprabito.

    – Dov’è Matt?

    – È di là che mette a posto gli scacchi di tuo padre. Vieni a sederti. Sarai stanco, immagino. – disse Natalie conducendo i due uomini in salotto. Non appena il bambino vide la figura paterna spuntate dal disimpegno gli corse incontro e i due si abbracciarono.

    – Ehilà, campione! Giocato con gli scacchi del nonno? – gli chiese, accarezzandogli la testa.

    – Ho fatto scacco matto! – rispose entusiasta Matt, aprendo le braccia come ad enfatizzare la vittoria.

    – Sul serio? Bravissimo.

    – Questo ragazzino ha un talento, Jimmy. E sarà mia premura che diventi sempre più bravo. – aggiunse Ronald dando una pacca affettuosa a Matt. – E un giorno chissà… potrebbe partecipare a un torneo di quelli importanti.

    Il volto di Matt Sheperd si accese ancor di più.

    – Davvero, papà? Potrò?

    – Solo se lo permette la scuola. – lo avvertì James mentre si dirigevano verso i divani.

    – Lo studio è fondamentale. Non lo trascurare mai.

    Qui intervenne Natalia con due bicchieri per l’aperitivo che porse a Ronald e James. – Non stargli così addosso, James. Matt è un bambino molto diligente.

    James annuì sorridendo e prese il bicchiere, prendendo un sorso.

    – Mark non c’è? – chiese rivolto ai genitori.

    Ronald si strinse nelle spalle, appoggiando il bicchiere sul tavolino di fronte a sé.

    – Doveva arrivare a momenti. A questo punto pensavo fosse insieme a te.

    James scosse la testa.

    – In verità non lo sento da qualche giorno. Più o meno da quando ho ricevuto il vostro invito.

    Il Sig. Sheperd fece un cenno con la mano, come a tranquillizzare i presenti.

    – Arriverà a breve, state tranquilli. – prese un sorso dal bicchiere, poi si rivolse a suo figlio James.

    – Come va a lavoro?

    James Sheperd sospirò, massaggiandosi un attimo la fronte.

    – Procede al solito. Stiamo addosso a una banda di trogloditi che si fanno chiamare gli Alférez del Renacimiento, con quella che sembra la loro sede principale in un centro urbano vicino El Paso in Texas. A guidarli pensiamo sia un ex reverendo che si è dato al satanismo mascherato da culto di pace.

    Ronald fu stupito che la F.B.I. si occupasse di casi del genere.

    – Perché disturbare i federali? – James Sheperd finì il suo drink prima di rispondere.

    – Perché hanno commesso plurimi omicidi anche di famiglie intere, oltre all’indottrinamento deviato. Non si sono limitati alla città di El Paso, anzi sembrava si stessero espandendo in tutto il Sud degli Stati Uniti. Poi di punto in bianco… – e fece il gesto di un qualcosa che svanisce.

    Ronald Sheperd corrugò la fronte.

    – Così? Di punto in bianco? Hanno deciso forse di fermarsi?

    – Piuttosto improbabile, data la crescita esponenziale che ci risultava tra i loro adepti. L’unica cosa che so è che il gruppo distaccato di Los Angeles è stato trovato annegato in grossi cilindri di plexiglas in un magazzino portuale. Tutti morti. Nessuna traccia.

    In quel momento arrivò una notifica sullo smartphone di Ronald, impedendogli di commentare il racconto del figlio.

    Si alzò a prenderlo e si rese conto era un messaggio del suo secondogenito, Mark. Era evidente che una sedia del tavolo da pranzo sarebbe rimasta vuota. Sospirò visibilmente deluso.

    – Che c’è, papà? – chiese James sorpreso.

    – Tuo fratello non ci sarà. Impegni di lavoro, dice. – rispose Ronald cercando di stemperare l’arrabbiatura. Per un attimo si guardarono negli occhi, poi Ronald si avviò verso la cucina.

    – Vado a parlare a tua madre.

    23 Ottobre 2017

    La pioggia batteva ritmicamente sul parabrezza della berlina Mercedes-Benz grigia parcheggiata di fronte al lussuoso Crowne Plaza Philadelphia Cherry Hill nella città di Philadelphia, in Pennsylvania. Seppur la tarda ora, c’era un gran via vai nell’ampio parcheggio subito di fronte all’albergo.

    Mary Anne Phelps camminava infastidita dal maltempo sotto l’ombrello, accompagnata da un uomo baffuto di mezza età di nome George Richmond, che la seguiva passo passo riparandola dall’acqua. Richmond era un importante impresario e filantropo, e seppur ormai non giovanissimo aveva di fronte una sicura vita da pensionato di lusso. Vedovo da diverso tempo, aveva incontrato Mary Anne per puro caso a uno dei tanti incontri a cui era stato invitato. Non era occorso molto sforzo alla Phelps per averlo ai suoi piedi.

    Raggiunta la Mercedes-Benz, si scambiarono un bacio appassionato.

    – Sono stata benissimo stasera, G..! – disse con esagerato entusiasmo Mary Anne, mostrando il più caloroso del suo repertorio di sorrisi.

    – Come fai ad essere così speciale?

    – Merito tutto tuo, bellissima. – rispose l’uomo, abbracciandola.

    – Allora ci vediamo questo weekend?

    La donna si voltò verso la portiera e aprì l’auto.

    – Non posso questo weekend, tesoro…

    – Ma… – disse Richmond rimanendo di stucco. – Credevo che…

    – Beh, scusa ma se non posso significa una sola cosa… Non posso! – ribatté la Phelps con fare stizzito. – Devo andare a quell’incontro con quell’ingegnere di cui ti ho accennato prima. Non è rimandabile. – Per chiarire il concetto, salì sulla macchina, chiudendo la portiera.

    Abbassò il finestrino, guardando con aria comprensiva Richmond, ancora scosso.

    – Dai… non essere di cattivo umore. Siamo stati benissimo insieme. Possiamo vederci appena ho finito l’incontro, ok? – e si protese, come per invitarlo a baciarla di nuovo.

    Richmond si rilassò e la baciò. Poi la accarezzò sulla guancia.

    – Ti amo.

    Lei lo guardò maliziosa negli occhi qualche secondo.

    – Mi riempi di gioia, G!

    Dopodiché spinse sull’acceleratore e si allontanò dall’Hotel.

    La pioggia si faceva più insistente man mano che si allontanava e commentò il tutto con un grugnito poco signorile con il naso.

    Mary Anne Phelps non era una donna bella e sapeva di non esserlo.

    Ma la sua qualità migliore era nel nascondere il tutto dietro una sicurezza incrollabile sul suo aspetto fisico. Per chi la guardava, lei doveva essere bellissima.

    Non aveva nessun incontro con un presunto ingegnere. Sapeva benissimo come giostrarsi tutti i suoi burattini e oramai seguiva un ben preciso copione da più di quindici anni.

    Essendo fondamentalmente disoccupata cronica, aveva ovviato al tutto seducendo uomini dal sicuro patrimonio ma insoddisfatti di sé e della propria vita, oppure in un periodo dal punto di vista del contatto umano non proprio al massimo.

    Era maestra in questo.

    Contava ormai almeno cinque diversi burattini, come li chiamava lei e nessuno di essi si era accorto di niente o era stata talmente abile lei da convincerli che ogni loro dubbio era infondato.

    Da disoccupata non poteva certo permettersi niente di più che vivere in un motel fuori città. Per mantenere il travestimento di donna d’alta classe, spendeva gran parte di quello che possedeva per oggetti di puro lusso, come vestiti o macchine noleggiate.

    Il suo guadagno principale era però farsi mantenere dai suoi burattini. L’unico serio lavoro che aveva era far combaciare tutti i suoi impegni con quest’ultimi.

    Stava sempre sul filo del rasoio, poiché nessuno doveva esser scontento di lei o l’avrebbero abbandonata, ma lei amava sentirsi padrona e non schiava di loro.

    Stava procedendo lungo la Marlton Pike W, quando lo smartphone squillò. Era nella borsa, quindi dovette fare attenzione sia alla guida che alla sua borsa, dandole non poca irritazione.

    Il telefono continuava a squillare. Si chiese diavolo si fosse cacciato. Si sporse di più verso il sedile passeggero, rovistando con maggiore energia.

    Finalmente lo trovò.

    – …pronto?!

    – Mary Anne? Ciao, sono Peter.

    La sua mente vagò nel suo archivio mentale, decisamente efficiente ed ordinato, alla ricerca di quella voce che si faceva chiamare Peter.

    Peter del Massachusetts, il contabile della compagnia petrolifera? Suo cugino del Kentucky? Troppo vecchi entrambi. E non era nemmeno un ex collega di quei lavoretti che aveva fatto per mantenersi nel periodo dove stava affinando l’arte del raggiro.

    Decise infine che doveva essere Peter di Marksville, Louisiana. Le occorsero solo due o tre secondi.

    – Ciao, Peter! Come sta la bellissima Didi?

    Si riferiva alla cagnolina meticcia di circa due anni e mezzo. A volte pure lei si sorprendeva dei dettagli che riusciva a mettere insieme in così poco tempo.

    Vide passare accanto a lei una volante della polizia, così abbassò subito il cellulare per non farsi vedere. Così facendo mancò del tutto la risposta del suo interlocutore, ma non era certo importante.

    Colse però che stava parlando di una certa vacanza con i suoi e riportò subito il telefono all’orecchio.

    – Peter, no.

    – Come? Che c’è? – La voce dell’uomo ora era turbata, come uno che si sveglia da un sogno che sembrava reale.

    – Più di una volta ne abbiamo discusso, lo sai. Non mi sento pronta all’idea di avere gli occhi addosso, gente che mi giudica e tutto il resto, poi… hai già detto ai tuoi genitori di noi?!

    Aveva delle regole ben precise sull’argomento. Troppi occhi vedono meglio di un divorziato o di un vedovo. Specie gli occhi sospettosi di una madre con il figlio fragile emotivamente.

    – Andiamo, che male c’è? Sono così felice con te, non posso tenere la cosa segreta a lungo. La gente si domanda dove vado per giorni interi. – rispose Peter, nell’inutile tentativo di rassicurarla.

    – Cazzo… – esclamò poco elegante Mary Anne. Doveva trovare una soluzione in fretta. E doveva dare anche una lezione al troppo impavido ed indipendente Peter.

    – Ascoltami bene. – la sua voce ora era ferma e rigida, di chi non vuole essere contraddetto. – Credevo fossimo d’accordo che era troppo presto e che io non me la sentivo. Quindi gli dirai che c’è stato un imprevisto al lavoro e che non posso proprio rinunciare. Hai capito?

    Rimase in ascolto qualche secondo. Peter stava cercando di resistere alla tentazione di lottare per quella vacanza insieme ai suoi. Lei aspettò che digerisse la cosa.

    – Mary An…

    Non gli diede tempo di rispondere e riagganciò.

    Tattica un filo pericolosa, ma sapeva per esperienza che sarebbe bastata una notte indimenticabile nei giorni successivi e tutto sarebbe tornato a posto. In ordine. Il suo ordine.

    Non poteva permettere che i suoi burattini prendessero decisioni concrete sul loro rapporto. Lei era l’unica a poterlo fare. Era giusto però che ne avessero l’illusione. In questo modo tutto sarebbe parso forse un po’ strano ma del tutto normale. Nessuno poteva collegare tutti i pezzi del puzzle, perché era il suo impegno a tempo pieno impedire che qualcuno capisse davvero il suo gioco.

    Se qualcuno avanzava delle accuse o dei dubbi, non doveva far altro che recitare la parte della vittima e… il telefono squillò di nuovo.

    Corrugò la fronte. Evidentemente il messaggio non era stato sufficientemente chiaro. Le sarebbe dispiaciuto molto perdere uno dei suoi giocattoli.

    Quando però guardò il numero del chiamante vide che era anonimo. Sperava non fosse di nuovo quell’operatore della compagnia assicurativa. Nel dubbio preferì riagganciare. Lasciò cadere lo smartphone nella borsa e svoltò all’uscita direzione il motel dove solitamente risiedeva quando soggiornava a Philadelphia.

    Trovò posto proprio di fronte

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